Cari amici, vi presento la poetessa marocchina Rhita Benjelloun, nata nel 1990 a Fes, è poetessa e creatrice. di gioielli. Inizia a scrivere versi all’età di undici anni, la sua prima raccolta poetica “Spettatrice di vita” è pubblicata nel 2017;per Rhita la poesia è un canto dell’anima, i versi sono ispirati dalla sua esperienza di vita, dalla sua storia. La definisce “un canto che culla lo spirito”, che “origina dal cuore”.
Eccovi tre componimenti nella mia versione italiana:
La mia corona
Uomo coraggioso dal portamento molto saggio
Ampiamente attivo nonostante la tua età
Tanti sacrifici, tanto coraggio
Per il benessere della tua piccola realtà
Tu fosti per me l’esempio da seguire
Imitavo i tuoi gesti, le tue parole e le tue stesse risate
Il mio idolo, così ti chiamo
L’uomo verso cui provo un amor sovrumano
La giovincella che fui, io te ne faccio dono
Tu ci hai sempre regalato felicità, amore e gioia
Papà sei il mio ideale, sei la mia retta via
La notte
L’intimo nel quale mi confido
La culla dei miei pensieri e delle mie noie
Io ti sarò Riconoscente
Dalla genesi fino alla tomba
Tu che la mia avventatezza hai domato
Che tanta stima e attenzione mi hai donato
Che mi hai saputo ascoltare e preservare i miei segreti
Che eri complice d’un sogno ora realizzato
Nella tua calma io trovo rifugio
Nelle tue tenebre sono confusa
E nel tuo regno tu sei la mia musa
Silenzio
…Silenzio d’una parola, silenzio d’una lacrima
Silenzio d’un brivido da sotto una trama
D’una rabbia rinchiusa sul fondo
Del buio, isolata, nel profondo abisso
Silenzio d’un decennio
Di terrore che li ha separati
Silenzio d’anime lasciate del tutto
Di dittatori avidi soprattutto…
L’articolo si concentra sulla figura femminile presente all’interno dei romanzi:la prospettiva Nevskij (Невский проспект) dell’autore ucraino naturalizzato russo Nikolaj Vasilevicč Gogol e i tempi di Anika (Anikina Vremena) del diplomatico e scrittore jugoslavo Ivo Andrić. Con il racconto di Gogol, La prospettiva Nevskij, desidero concentrarmi sul protagonista Piskarëv, un artista timido, che proprio su questa via,incontra una donna e ne rimane incantato, fino a seguirla, ignorando che sarà la causa della sua distruzione. Questo tipo di donna, seduttiva e rovisnosa, viene rappresentata anche in Andrić, in particolare nel breve racconto I tempi di Anika.
Durante la narrazione assistiamo alla sua evoluzione, inizialmente viene vista da tutto il villaggio come la “Bellissima” ragazza, alta e magra, in seguito alla sua delusione d’amore, si trasforma, diventa per tutti una strega.Entrambi gli scrittori idealizzano la figura femminile, rappresentandola come una Donna Angelo.
La rappresentazione della figura femminile come Donna Angelicata è un topos noto nella letteratura italiana; dallo Stilnovo fino a Italo Svevo, per esempio, dove in Senilità, una delle protagoniste è Angiolina che tuttavia presenta deelle caratteristiche ambigue, si trasforma in una donna fatale, che distrugge il sogno dell’uomo. Tornando però, ai romanzi citati sopra, osserviamo come si attua la metamorfosi di queste donne.
Dall’antichità fino ai testi sacri come la Bibbia la figura femminile è sempre stata osteggiata, additata come una strega, un demonio, che con un solo sguardo o tramite la parola, è capace di ammaliare e distruggere l’uomo. Nella vicenda biblica di Adamo ed Eva, quest’ultima è additata come colei che ha portato alla catastrofe dell’uomo, facendogli assaggiare ill frutto proibito. Si pensi ai tempi dell’inquisizione, il tempo della caccia alle streghe, o ancora, alla chiesa cattolica oscurantista fautrice dei sensi di colpa sulle donne, che non potevano avere rapporti sessuali prima del matrimonio che doveva, peraltro, avere scopi riproduttivi. Per controllare se le donne avessero commesso atti impuri, la chiesa cattolica già ai tempi dell’inquisizione usava lo strumento della confessione. La donna deve essere sottomessa all’uomo e se provoca ribellione contro l’uomo che può essere il marito o il padre, è una strega, è una Lilith. Ivo Andric e Gogol, con i loro racconti hanno mostrato la figura della donna come peccatrice, come femme fatale.
Nikolaj Vasilevič Gogol con il racconto breve, contenuto nei racconti di Pietroburgo, La prospettiva Nevskij, allestisce una scenografia piena di sogni, perché leggendo il racconto si ha la percezione che tutto è un sogno; in realtà è un sogno reale che fa il protagonista Piskarëv, l’artista timido. Prima di incontrare il protagonista Piskarëv, Gogol, fa una descrizione della Nevskij, dove si vede la gente che cammina sulla Neva, con i tratti caricaturali, come si evince dalla descrizione delle barbe degli uomini
.Gogol la definisce “una prospettiva pedagogica” e proprio su questa via Piskarëv incontra la Bianca del perugino. Non è un caso che Gogol abbia dato il ruolo dell’artista al protagonista e soprattutto che abbia assegnato come nome alla ragazza la Bianca del perugino, perché lo stesso autore amava l’Italia e conosceva gli artisti italiani, come Dostoevskij che all’interno delle sue opere come ad esempio nell’’Idiota riferisce di molti quadri di artisti italiani conosciuti durante il soggiorno italiano. L’artista timido segue la giovane:
“Con segreta trepidazione egli si affrettava dietro l’oggetto che l’aveva tanto fortemente colpito, e pareva stupirsi lui stesso della propria temerarietà. L’ignota creatura verso la quale erano così attratti i suoi sguardi, pensieri e sentimenti, a un tratto voltò la testa e lo guardò. Dio, che divini lineamenti! La deliziosa fronte d’abbagliante candore era ombreggiata da capelli stupendi come l’agata. Essi s’avvolgevano in riccioli meravigliosi, e una parte, cadendo di sotto al cappellino, sfiorava una guancia soffusa d’un tenue rossore causato dalla frescura serale. Le labbra erano suggellate da un intero sciame di deliziosi sogni. Tutto ciò che resta dei ricordi dell’infanzia, tutto ciò che produce la fantasticheria e la quieta ispirazione davanti al lume della lampada, tutto ciò sembrava essersi concentrato, fuso e riflesso nelle sue armoniose labbra”
Quindi l’artista giovane rimane incantato da questa figura, inizia a seguirla, la ragazza se ne accorge, più avanti si scoprirà che non è propriamente una ragazza angelica, semplicemente il ragazzo l’aveva idealizzata. È un Icaro caduto, come se stesse su una verticale, dove in alto c’è l’idealizzazione e sotto l’inferno, l’abisso, per certi versi baudelariano.
Il sogno s’infrange in un attimo, una volta entrato nella casetta di modeste condizioni della ragazza diciassettenne, perché si accorge che qualcosa non andava, e se ne scappa a gambe levate. Tornato a casa, immagina di essere invitato dalla stessa creatura, pura e tenera ragazza, a casa sua, dove loro due si guardano, ma il sogno è ingannevole,perché la sua mente sofferente, a causa dell’oppio, gli aveva resttituisce un’immagine deformata, la donna pura e angelicata.
Rimane sconvolto dalla visione, e fa l’unica cosa che poteva fare: andare da lei. Arrivato da lei, la chiede in sposa, ma lei rifiuta. Pensava Piskarev di salvarla come tutti gli altri uomini che rimangono affascinati da una ragazza che non è quella che sembra realmente. Si prodigano questi uomini cavalieri. L’artista timido che non riesce ad affrontare quella triste condizione, ormai perso per quella Bianca del perugino, si uccide, si taglia la gola, abbandonato da tutti.
Gogol con questo racconto ma anche con le altre sue opere, rende le donne streghe, le rappresenta come demoni, capaci di distruggere l’uomo attraverso la seduzione. In questo caso Gogol le definisce Rusalche, delle sirene sessualizzate. Anche in un altro racconto di quest’ultimo, Taras Bul’ba, il cosacco Taras, uccide il figlio Andrij, perché innamorato del suo nemico, questa donna polacca, andando contro la comunità dei cosacchi.
La donna di Andrić, invece, è una donna scacciata dal paradiso e mandata all’inferno, perchè Anika è proprio come Lilith, una demone, indipendente, libera, che non si sottomette all’uomo: è una ribelle. In un villaggio oscuro della Bosnia, Visegrad, si cela una donna misteriosa, che con la sua presenza sconvolge gli animi del villaggio, in particolare l’esistenza degli uomini.Il racconto prende inizio come una cronaca, inizia a raccontare la storia del figlio del pope Kosta, Vujadin, che anch’esso segue la strada paterna. Ma l’esistenza del pope Vujadin non persegue la serenità, al contrario, è un tipo taciturno, solitario, e perde la moglie di parto. La perdita della moglie acuisce il suo stato d’animo, ormai traballante. In quel villaggio la gente diffidava delle persone tristi e taciturne. Un giorno però, la vita del pope Vujadin, viene scombussolata, quando, a seguito della morte della moglie, comincia anche a provare disgusto e ripugnanza per le donne:
“si voltava con disgusto verso la stanza soffocante e semivuota, insultandole ad alta voce con gli epiteti più oltraggiosi. Un odio incomprensibile gli saliva alla gola, le parole e il respiro gli venivano meno”.
Un giorno ormai il pope odiava se stesso e al suo quinto anno di stato vedovile, assiste a una scena che crea turbamento: due donne con due ufficiali stranieri seduti a terra. Quella scena gli provoca turbamento come se non avesse mai provato emozioni di quel tipo, così intense, tanto da avere di essere scoperto. Da quel momento in poi, decide di avventurarsi nel bosco, pensa di aver immaginato tutto, di non aver visto veramente quelle donne. Così, in quel bosco, durante una notte afosa d’estate, spara con il suo fucile a dei contadini che stavano attorno al fuoco con delle ragazzine. Quell’immagine delle donne che si divertivano per lui era inaccettabile, era arrivato ai limiti della follia. Il clou della storia prende avvio come se fosse una leggenda, quando in questo villaggio appare Anika, ma allo stesso tempo arriva la figura di Mihailo, un forestiero che stava fuggendo dal suo segreto, che coinvolgeva proprio una donna.
Anika viene descritta come alta, magra, bella, con un rapporto conflittuale con la madre che non le prodigava amore materno, con il padre accusato di omicidio e con il fratello malato di mente che avrà un suo ruolo all’interno della storia. Anika così bella, come la Elena di Troia, che proprio a causa della sua bellezza viene condannata; è una donna, una Lilith, perché subisce una trasformazione. In seguito al rifiuto dell’amore da parte di Mihailo, lei inizia a mutarsi, diventa la meretrice per tutti, la donna che accoglie uomini in casa, sfasciando intere famiglie del villaggio. A differenza del racconto di Gogol, qui la donna non si lascia corrompere con il denaro, non si fa pagare, neanche con i doni. È una donna emancipata che con il suo carattere forte e la sua determinazione, anche se porta alla distruzione anche il figlio del pope Jaksa, non si sottomette ai canoni sociali e ai costumi di quella società primitiva, dove si accoglievano solo mogli-madri.
Perché Andrić e Gogol rappresentano e le figure femminili come donne demoniache, streghe? La risposta a questa domanda è questa: perché sono donne che non si sottomettono all’autorità dell’uomo, sono libere e questo, per esempio, alla gente del villaggio di Visegrad non piace. Se pensiamo alle donne in generale, anche nelle icone, sono rappresentate come esseri vergini, pure, delicate.
Anika è una donna onsapevole del fatto che può trovare la salvezza solo nella morte, un po’ come succede a Nastas’ja Filippovna nel romanzo I demonî di F.M Dostoevskij, che muore per mano di un uomo o a Desdemona nell’Otello. Nella seduzione, come dice Aldo Carotenuto: ” L’individuo sedotto è catturato, sottratto ad un preciso ordine di significati, condotto “altrove”, afferrato da una forza a cui non può opporre resistenza “. (Riti e miti della seduzione.)
E per concludere con Andrič:
In ogni donna c’è un diavolo che bisogna uccidere facendola lavorare oppure partorire, o tutte e due le cose; se la donna si sottrae all’una e all’altra, allora bisogna ucciderla.
All’abisso – così come al sublime – ci si può avvicinare, con le dovute cautele in due modi differenti ma tra loro non alternativi. Abisso – e sublime – non sono identificabili mai nella loro interezza; se ne possono descrivere le scaglie, i residui; si può farne oggetto di narrazione, raccontarne le storie. Ed è questo l’approccio del poeta a quei temi. Oppure, se ne possono ricercare le ragioni, le cause, e se ne possono descrivere i movimenti e gli esiti. Ed è questo il metodo dello storico.
Entrambe le vie, se percorse con l’etica che le caratterizza, non possono, per forza di cose ignorare che abisso – e sublime – non sono fenomeni di cui si possa cogliere l’unità, la completezza. Deve esistere dunque sia per lo storico che per il poeta una umiltà di fondo che contempli la nostra umana piccolezza di fronte a ciò che di abissale – ed anche di sublime – l’uomo stesso ha saputo creare.
La Shoah è il campo d’elezione per queste valutazioni. Esiste sempre un dato che sfugge alla comprensione del fenomeno e l’approccio razionale, scientifico e storico
necessariamente di quel dato deve tener conto, sopratutto quando si accinge a tentare non solo la descrizione della Shoah stessa, ma anche a comprenderne le ragioni profonde, soprattutto nel tentativo di trasmettere alle nuove generazioni una sorta di antidoto affinché ciò che è stato non si ripeta.
Nel testo che qui si commenta, molto più che altrove, questo rispetto di fondo si
percepisce come basso continuo di tutti gli interventi di autorevoli studiosi.
Così, ad esempio, la minuziosa descrizione delle fonti di conoscenza (da un lato) e di causazione (dall’altro) della Shoah è trattata con estrema cautela. Ed anche le riflessioni, i tentativi di spiegazione del fenomeno Shoah, di quella profonda
ferita nella cultura europea non ancora rimarginata e insuturabile, sono sempre espresse sul filo di lino sacro di un eppure battente.
Questo elemento – la consapevolezza di trattare di un tutto indistricabile, ma allo stesso tempo della necessità di svolgere quel tentativo, sopratutto ai fini didattici per le nuove generazioni – ha spostato la mia attenzione di lettore più che sulla indiscutibile competenza storica, sociologica e psicologica degli interventi, sulla spinta etica che in quest’opera si sente molto presente e pulsante.
So bene che affiancare i termini etica e ricerca storica è elemento di rischio e in
controtendenza rispetto al moderno pensiero. Eppure non credo, quando si tratta di Shoah, che la domanda battente sul senso e sulla possibilità di dare spiegazione ad un fenomeno abissalmente indescrivibile sia di poco peso. Non che questa questione sia dagli autori esplicitamente affrontata, ma la delicatezza (che ossimoro vivace parlare di descrizione delicata della Shoah) con cui il tema viene affrontato dimostra appieno che quella linea etica non è ignorata affatto da chi gli interventi ha scritto.
A parer mio questo libro è una vera lezione per le nuove generazioni, non solo sulla Shoah in sé, ma anche e, forse, soprattutto, su come si debba affrontare il tema della Shoah e con quali sostegni morali ci si possa alla stessa avvicinare.
Esiste, certo, voglio dire, una didattica della Shoah, ma quella didattica, per essere
efficace, non può non interrogarsi sui limiti di conoscibilità che la Shoah stessa ci mette di fronte. E questo il tema centrale da cui, a mio avviso, dovremmo tutti partire. Ed è lo stesso tema che, come si diceva sopra, affronta chi alla Shoah si avvicina con gli strumenti della narrazione, poetica o narrativa che sia poco conta.
Perché la domanda pressante per tutti noi non è tanto cosa sia stata la Shoah ma chi sono io, coi miei limiti, con la mia piccolezza, per cercare di com-prendere la Shoah e, per contraltare, chi sono io, con gli stessi limiti e la stessa piccolezza, per rinunciare a farlo?
E, badate bene, queste sono domande, pur se non espresse che sono alla base di questa ricerca storico-didattica di sicura profondità e valore come quella in esame.
Il testo che sto commentando lo consiglierei, anzi l’ho fatto, a mio figlio di sedici anni,
perché capisca che lavoro di razionalizzazione dell’irrazionale ci sia dietro l’attività dello storico o del sociologo. Ma lo consiglierei, e non so se avrò il coraggio di farlo, a tanti adulti, della mia stessa generazione (la seconda dopo la Shoah) che credono di poter dare alla Shoah stessa risposte posticce e preconfezionate.
“Eh, c’è stato Weimar, la crisi economica post bellica (primo conflitto mondiale) della
Germania”. Quante volte abbiamo sentito dirci, ad esempio, che fosse questa la sorgente dell’abisso con la sicumera di chi alla Shoah pretende di dare un causa sola. Ecco, con estremo piacere mio di lettore, in questo testo la banalizzazione della cause non è presente, anzi questo, in tutti i suoi interventi, è un testo che incita il lettore a comprendere la fatica enorme che esiste nella raccolta dei dati e, soprattutto, nella loro interpretazione. Per questo parlo dell’etica sottesa a questo testo e per questo lo consiglierei a persone molto diverse tra loro per età, esperienza di vita e cultura.
Marceline Junie Hyacinthe Valmore, detta Ondine, nacque a Lione il 2 novembre 1821 dalla poetessa Marceline Desbordes-Valmore e da François Lanchatin, detto Valmore, nonostante anche il letterato Henry Hyacinthe de Latouche pensasse di esserne il padre. Difficile la sua infanzia, affetta da problemi respiratori
e polmonari fin dall’età di dodici anni, verso i venti i suoi problemi si aggravarono, tanto da costringere la mamma ad inviarla a Londra da un medico che aveva un’ottima reputazione, il dottor Curie.Purtroppo, questi si rivelò un ciarlatano e la povera Ondine peggiorò rapidamente; ammalata di tubercolosi, trascorse il resto dei suoi anni tra un ricovero e l’altro in ospedali e sanatori, fino alla morte a soli 31 anni, il 12 febbraio 1853 tra le braccia della madre a Passy.
Ragazza dotata di grande talento letterario, imparò presto il latino e l’inglese, traducendo molte opere, tra cui quelle di Shakespeare; pressata dalla madre affinché si sposasse, accettò la proposta dell’avvocato Jacques Langlais. Dalle nozze nacque un figlio, che ben presto rimase orfano a causa della prematura morte di Ondine. La giovane donna ha pubblicato alcune raccolte poetiche, vivendo con una spada di Damocle sulla testa a causa della precaria salute, nei suoi versi sono molto presenti i temi dell’inverno, dell’autunno, del ciclo della vita. Ecco alcune poesie nella mia traduzione:
Addio all’infanzia
Addio miei giorni infantili, effimero paradiso!
Fiore che brucia già lo sguardo del sole,
Fonte dormiente dove ride una dolce chimera,
Addio! Fugge l’alba. Giunge il momento del risveglio!
Ho invano cercato di trattenere le tue ali
Sul mio cuore che batteva, dicendo: “Ecco il giorno!”
Ho invano cercato tra i miei giochi fedeli
Di prolungare il mio destino nel tuo calmo soggiorno;
Giunta è l’ora, addio mia primavera, selvaggio fiore;
Domani questa allegria un ricordo sarà.
Addio! Ecco l’estate; temo il temporale;
Mezzogiorno porta il fulmine, e mezzogiorno arriverà.
Autunno
Vedi questo frutto, ogni giorno più tiepido e vermiglio,
Dolcemente gonfiarsi sotto i raggi del sole!
La sua linfa ad ogni istante più ricca e feconda,
Lo riempie, diremmo, di voluttà profonda.
Sotto i fuochi d’un sole invisibile e potente,
Il nostro cuore assomiglia a questo frutto che matura,
Di succhi più abbondanti ogni giorno inebriato,
Felice di vivere, or maturato.
L’autunno giunge: il frutto si svuota e cadrà
Ma la sua buccia è viva e di germogliare chiederà.
L’età arriva, il cuore si ferma in silenzio,
Ma, per l’estate promessa, il suo seme conserverà.
La Voce
La neve da lontano copre la nuda terra;
I deserti boschi si estendono verso le nubi
I loro grandi rami che, neri e separati,
d’alcuna foglia ancora non sono adornati;
Dorme la linfa e la gemma senza forza
È per molto tempo sotto la corteccia intorpidita;
L’uragano soffia annunciando l’inverno
Che gela l’orizzonte scoperto.
Ma io sotto invisibili fiamme ho rabbrividito
Voce di primavera che muove le anime,
Quando tutto è freddo e morto intorno a noi,
Voce di primavera, o voce, da dove vieni?….
Quando in primavera
Quando in primavera la verde foglia
Prova a adornare i rami,
Quando dal seno della terra aperta
Si innalzano alberi nuovi,
Quando tutto sorride, quando tutto si rischiara,
Quando la stella tiepida e trionfante
Pare misurare la sua luce
Con la forza dell’occhio d’un infante:
Amo vedere la bambina,
fresco fiore, correre per i prati.
Amo vedere la sua corona dove brilla (sic)
I primi bottoni colorati.
Ammirare il bimbo che si è lanciato
Sotto il cielo privo di vento
Amo il Dio che ha l’infanzia ha creato
E che gli dona la primavera.
«L’unica guerra vinta
è quella che si smette di combattere»
ROSALYN VIVIENNE MANGINI
Un ritratto di Rosa Mangini
Nessuno sente il profumo delle ginestre quando, dopo la tempesta, sbarca su una costa che credeva di non poter toccare più. Sente invece che il vento si è calmato, la vela ha smesso di urlare gonfiata e sferzata dagli elementi di cui è stato in balìa. Pochi fanno caso al «rumore della salvezza», tranne quando coincide con una ricostruzione a una certa distanza dai fatti. Basti pensare alla guerra. Il giorno dopo la fine si ode il silenzio degli ordigni caduti, e quel languido sapore dolce che è l’essere salvi. Nella liberazione dalle tenaglie dell’incerto, dalle incursioni delle tenebre interiori nel chiarore degli animi che colmano di scheletri la trama sociale, vi è la luce di un’alba: la possibilità. E proprio perché possibile, è libera da ciò che non la rendeva possibile, benché indeterminata.
La liberazione, infatti, è più questione del domani che di uno e di tanti ieri. Perché il 25 aprile e i giorni a seguire si avvertì l’assenza di quanto prima si era mangiato la vita. Animare quella assenza e farla diventare una presenza chiede un’energia coraggiosa e umanissima. La presenza, del resto, è più forte di qualunque tempesta. Oggi esperiamo quella presenza, o neppure la sappiamo più dire? La ribellione è qualcosa di estemporaneo, destinato a finire appunto in quell’alba che rimane ad esprimere la possibilità? La risposta è in ciò che tiene uniti, nel senso comunitario che è collante della società. E la storia è punteggiata di prove, di vicende nelle quali ancora prima di giungere a una salvezza materiale si è passati per quella spirituale, in cui un gruppo di uomini uniti gli uni agli altri si sono rivelati il tappo che trattiene l’aroma, la cerniera che argina la falla e fa navigare – ancora, e più saldi – sulle onde dell’identità.
La rivoluzione forse domani- Divergenze
Rosa Mangini racconta, anzi, offre il diario dal vero di com’è nata e si è sviluppata quella salvezza spirituale prima che materiale; come e tramite chi, con tanto di nomi, luoghi e fatti. In quei nomi, luoghi e fatti c’è la storia delle storie di un mondo che ha tramutato la speranza, fatta proprio di coesione e affinità di idee, vedute e valori, in una promettente opportunità. Alla quale, con il comodo ma sincero senno di poi, le generazioni a venire debbono molto. Forse, tutto. Non è dato sapere se e in quante altre aree d’Italia si siano verificati episodi come quelli narrati dall’autrice, ma i fatti del romanzo tendono a dimostrare come il ragionamento sulla salvezza materiale preparata da un atteggiamento spirituale, ne abbia agevolati di identici anche altrove.
Una copia del manoscritto
Certo, non c’era un’altra penna a salvarli su carta, ma la psiche dell’individuo è figlia di quella del gruppo, e il gruppo che la plasma è cresciuto nella «educazione all’attenzione» che per Simone Weil (ne) determina la cultura. Perciò la rivoluzione è un “tornare e rivoltare” in un approdo di imperfetta conoscenza eppure da conoscere, è un embrione vivo nelle formule emotive del popolo attraverso cui tentare di annullare, o almeno ridurre, gli elementi di inquietudine, di sofferenza o di tragedia. La rivoluzione che invera la promessa di un’esistenza migliore, che porta con sé la capacità di esserci anche per chi la pensa e la penserà diversamente da noi, è proprio in quel tornare e rivoltare libero dalla violenza di ripartire da capo, cioè da un’idea che domini, sinottica e foriera di verità, che non si confronta volentieri col dissenso
Quella rivoluzione è collettiva e lavora sulla consapevolezza, dunque è lontana dalle odierne forme di pluralismo che, secondo Robert Wolff, è del tutto «cieco di fronte ai mali che affliggono l’intero corpo sociale» perché diverge l’attenzione dalle revisioni radicali necessarie a porre rimedio a quei mali. E La rivoluzione, forse domani è un viaggio che ognuno dovrebbe fare dentro di sé, perché è un viaggio di cittadinanza attiva e vissuta nell’esperienza del “fare il pane di ogni giorno”. Un pane che chiede parsimonia nel consumo, però profuma e sazia la fame di buono, che prevede un tempo di gestazione come tutte le cose nelle quali la natura umana si manifesta, ed è fatto per essere al centro di un tavolo conviviale. Quello sarebbe, in fondo, lo Stato di diritto: prima di ogni rigida scrittura, l’interazione con l’alterità
. Nella sua sostanza vi è un grido senz’armi di offesa, piuttosto di difesa dei rapporti, di cura della vicinanza. Rosa Mangini dà a intendere come quattro anni prima del fatidico 25 aprile quel «domani» era un «forse» difficile eppure intatto, possibile, grazie a quella cura ancora viva in un presente semplice, mai fuori misura. Per questo il nostro presente, frutto della analisi critica dei fatti storici, dovrebbe essere libero da una progettualità ingegneristica che arroga in sé quanto serve per fare il comodo tramite il superfluo, in favore di quanto è utile a «fare bene per ognuno» affinché nell’ognuno ci siano l’oggi e il domani.
Il 25 aprile 1945 si aprì uno squarcio nel cielo, e il cielo fu diviso. Per giorni, anzi, per mesi il fiat iustitia come vendetta galleggiò nell’aria e nell’animo di molti, quasi fosse promessa del ripristino di un ordine che – però – nulla aveva della cura dell’altro, pertanto non prevalse. Più forte fu il ridare vita al tessuto sociale, tornare subito a fare pane e ciò che tiene insieme con le forme del diritto che Piero Calamandrei avrebbe messo nelle azioni e nel pensiero di tutti, a partire dai giovani.
La grande sfida di oggi è qui. Agire liberati dalla presunzione dell’idea perfetta ex ante, per rivolgersi al presente e quindi al futuro con la forza con cui i narcisi, a dispetto di ogni gelo, alluvione o siccità, torneranno ad annunciare la primavera.
La pubblicazione di una nuova Storia della filosofia oggi non avrebbe rappresentato un evento per studiosi e appassionati se a scriverla non fosse stato un autore del calibro di Jürgen Habermas.
Uscita in Germania nel 2019, con il titolo Auch eine Geschichte der Philosophie, l’opera è pubblicata in Italia da Feltrinelli che, al momento, ha editato solo il primo dei tre volumi previsti (Una storia della filosofia. Per una genealogia del pensiero metafisico, Feltrinelli 2022). Non può non sorprendere fin dal principio la scelta dell’editore italiano di pubblicare il volume elidendo dal titolo l’avverbio auch (ancora) che lo stesso Habermas nella prefazione mette ben in rilievo per la sua ascendenza herderiana, con chiaro riferimento all’ Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità). D’altra parte, enfatizzando quell’ancora, l’autore pare fin da subito voler rispondere alla eventuale, legittima domanda sul perché di una (ennesima) storia della filosofia. La risposta è delle più ambiziose: comprendere il proprio tempo riscoprendo il senso autentico della filosofia.
L’eurocentrismo delle storie della filosofia tradizionali non pare infatti offrire modelli interpretativi in grado di dar conto adeguatamente delle dinamiche complesse del mondo globalizzato, in cui agli sforzi per lo sviluppo di un’infrastruttura comune che coinvolga tutti gli Stati del mondo, o comunque una buona parte di essi, allo scopo di promuovere la condivisione di progressi scientifici e tecnologici, rispondono quasi ovunque politiche nazionalistiche sempre più rigide, volte a salvaguardare le culture particolari e la loro storia; in cui lo spirito del capitalismo più sfrenato anima (anche) nazioni dominate da forti ideologie conservatrici o, addirittura, da fondamentalismi religiosi; in cui l’«autocomprensione secolarizzata» della filosofia occidentale ha perso (non da ora) la sua forza esplicativa della modernità.
In questo contesto, determinati «tipi di ragioni», validi in altre epoche, non contano più e «noi dobbiamo accettare altre classi di ragioni, differenziate secondo aspetti di validità». Per la sua ontologia del presente, Habermas si ispira espressamente alla Legittimità dell’età moderna di Blumenberg che, contrariamente alle «storie del declino della modernità», ha saputo mettere in luce le «buone ragioni» dei Moderni nell’abbandonare idee, concetti, domande centrali in epoche precedenti e nell’adottarne di nuove. Così, come Blumenberg aveva teorizzato l’affermazione di sé della modernità a partire dalla ricostruzione del pensiero filosofico-teologico precedente, Habermas intende «contribuire al chiarimento razionale della comprensione di noi stessi e del mondo» partendo da «una genealogia del pensiero postmetafisico». A questo fine, la prima operazione che si impone è quella di allargare l’orizzonte della storia della filosofia e scardinare la prospettiva “occidentalista”, per quanto possibile da parte di un pensatore europeo (è Habermas stesso a mettere in rilievo il problema della sua posizione inevitabilmente parziale).
D’altro canto, lo stesso Blumenberg, fissandosi sulle dottrine monoteistiche, non ha saputo cogliere la varietà di volti che la modernità assumeva e continua ad assumere in contesti filosofico-religiosi distanti dal Vecchio continente. Su questo punto, la genealogia habermasiana trae linfa dalla teoria dell’età assiale di Jaspers fondata sulla tesi pluralistica della co-originarietà delle grandi civiltà euroasiatiche. Identificando il VI secolo a. C. come l’asse attorno al quale la rotazione della storia del mondo, per così dire, “accelera”, Jaspers mette in rilievo il fatto che quasi contemporaneamente sorgano le immagini del mondo cosmologiche e le grandi religioni asiatiche.
In entrambi i casi si tratta del superamento del mito a favore di un logos, inteso in senso lato, che non è più prerogativa esclusiva della filosofia greca: «Jaspers amplia lo sguardo europeo su uno sfondamento cognitivo “dal mito al logos” che si compie su “scala mondiale”». In questa prospettiva, la storia della filosofia greca è pari alla storia del monoteismo ebraico, a quella del buddhismo, del confucianesimo e del taoismo: in tutti i casi si è trattato di un «mutamento da un’immagine del mondo mitologico-cosmogonica a un’immagine del mondo razionalizzata nella forma di etiche cosmologiche».
Tanto l’idea della trascendenza di un Dio rispetto al mondo quanto la teoria dell’immanenza di una regolarità cosmica creatrice di unità e coerenza, hanno operato nella stessa direzione di liberazione dello spirito umano dalla morsa del «continuo fluire di eventi più o meno ordinati narrativamente e governati da divinità e forze magiche», oggettivando, per la prima volta nella storia, «il mondo del suo insieme e, al suo interno, la posizione dell’uomo». Il Dio degli ebrei svolge la stessa funzione delle leggi fisico-morali del buddhismo, della legge naturale universalistica del confucianesimo, dell’equilibrio tra forze cosmiche del taoismo e dell’essere e del logos greci: «I concetti di “Dharma”, “Tao” o “Logos” richiedono la stessa astrazione del mondo dall’accadere intramondano che è richiesta da un’idea teologica del mondo e della storia del mondo intesa come ordine del creato e della salvezza concepito e prodotto da Dio».
Tuttavia, Habermas rileva una prima importante differenza dovuta al diverso contesto socio-politico in cui le immagini del mondo si sono costituite. In particolare, mentre le «ingiuste contingenze della guerra, dell’oppressione e dello sfruttamento» determinarono in Israele, in India e in Cina, in maniera certo non uniforme, «dissonanze cognitive» sul piano pratico-morale che andavano ad aggiungersi e a fondersi con quelle scaturite sul piano teorico dal crescente «sapere mondano» sui processi naturali traducendosi in un’unica immagine del mondo, in Grecia la situazione relativamente tranquilla a livello di ordine politico e sociale non ingenerò dissonanze cognitive rilevanti dal punto di vista pratico, e la nuova immagine del mondo fu così, inizialmente, fondata sulle sole dissonanze cognitive di ordine teorico che erano state favorite dall’ «appropriazione produttiva di un patrimonio di conoscenze scientifiche e tecniche accumulate da lungo tempo in Oriente».
La conseguenza più importante di tale differenza fu il diverso rapporto che venne a stabilirsi tra salvezza e potere: la «moralizzazione del sacro», ovvero la sua integrazione nelle immagini del mondo dell’età assiale, determinò in Israele, India e Cina l’emergere di un potere, totalmente altro da quello politico, che prometteva la salvezza dalla miseria terrena in cambio del «rispetto di un ethos universalistico». In Grecia, al contrario, «la simbiosi mondana di salvezza e potere politico» non ha trovato, nella prassi, ragioni sufficienti per dissolversi e il culto degli dei ha continuato a persistere all’interno della polis affianco all’operazione di svalutazione e delegittimazione del mito e della magia messa in atto da tempo in campo “scientifico”.
Corollario di tale situazione è che, contrariamente a quanto avveniva nelle altre parti del mondo, la nuova immagine del mondo era appannaggio dei soli filosofi, gli unici in grado di immergersi nel tutto del cosmo attraverso l’esercizio della contemplazione, non a caso «privo del carattere rituale che contraddistingue le tecniche di meditazione dell’Estremo Oriente».
Anche quando al centro del discorso filosofico emergerà la polis e le sue costituzioni saranno fondate sulla politicizzazione dei concetti fondamentali della filosofia naturale (logos, isonomia, nomos, dike), il divario tra i filosofi e la massa non tenderà a ridursi. La teoria politica di Platone è, in questo senso, esemplare: se il telos di ogni uomo è raggiungibile solo in quanto cittadino della polis, la salvezza per “l’uomo del popolo” è rappresentata semplicemente da una «buona vita» condotta all’interno di una polis ben ordinata. E solo i filosofi, che tale ordine dovrebbero reggere, avendo essi soli accesso al mondo delle idee, possono aspirare a una doppia salvezza, da uomini e da cittadini esemplari.
La differenza con i sapienti cinesi, i sacerdoti ebrei e i monaci buddhisti è sostanziale: mentre questi amministrano i beni della salvezza e della conoscenza «solo per trasmetterli in linea di principio a tutti i cittadini in quanto membri della comunità» e non si fanno governanti in virtù di tale funzione, i re-filosofi non si limitano a insegnare e diffondere le verità salvifiche ma, da governanti, decidono ciò che è meglio per tutti, «anche per le “nature minori” che non possono effettuare l’ascesa epistemica alle idee». L’apparente contraddizione risiede nel fatto che gli stessi filosofi, che hanno superato la visione mitica del cosmo approdando a una nuova immagine del mondo, ritengano politicamente necessario che la massa della popolazione creda ancora negli dei e trovi sostegno nel mito.
Allo stesso modo, mentre nelle altre dottrine dell’età assiale la ritualità del culto assume un valore fondamentale per tutti, nella teoria politica platonica essa è perlopiù funzionale al governo del popolo, ma ininfluente per la «reale comprensione filosofica del mondo e di sé». La teoria diventa così l’unica via di salvezza.
Tuttavia, se la teoria del tutto permane invisibile e inaccessibile ai più, in caso di crisi o di conflitto sociale nessuno sarà in grado di riconoscere «una giustizia che lo obbliga a travalicare il quadro istituzionale della polis». Così, quasi paradossalmente, proprio nel contesto politicamente più avanzato dell’età assiale, veniva sbarrata la via a una forma di salvezza universale e si lasciava libero spazio alle «forze esplosive dell’individualizzazione e dell’illuminismo».
Il riferimento all’illuminismo merita un’ultima considerazione. Distante dalla critica senza appello ai Lumi di Adorno e Horkheimer, Habermas intende qui mettere in discussione soprattutto l’idea secondo cui lo sviluppo delle scienze e delle tecniche sia, quasi automaticamente, garanzia per un conseguente progresso sociale. Il paradosso greco, per cui al principio dell’isonomia in campo politico, derivato direttamente dalla nuova teoria cosmologica, non corrispose, nella prassi, un processo di radicale distacco dal culto degli dei, è la prima manifestazione di ambiguità e contraddizioni che contrassegneranno la vita politica occidentale, dall’antica Roma fino alle nostre attuali democrazie. D’altro canto, le altre civiltà dell’età assiale, avendo fondato i legami sociali sul processo di moralizzazione del sacro, sono riuscite a compattare i rispettivi popoli nell’idea di una salvezza accessibile potenzialmente a tutti nonostante la realtà politica cui erano sottoposti. In questo senso, la riscoperta della comune origine delle diverse immagini del mondo, da cui la storia della filosofia di Habermas prende avvio, sembra rappresentare l’invito a riprendere un dialogo che potrebbe condurre le diverse culture del mondo globalizzato a recuperare nell’altro «potenziali semantici» inespressi nella propria storia.
Come spesso avviene per le ricette, conoscere l’elenco degli ingredienti non è sufficiente senza addentrarsi nelle alchimie del procedimento. Non basterebbe quindi a restituire l’agrodolce di Sciara, opera prima di Marina Mongiovì, l‘elenco dei suoi riferimenti più palesi: il sapiente mescolamento di un’Antologia di Spoon River, nell’alternarsi in controcanto delle voci di un luogo lontano nel tempo, con un pizzico di realismo magico, dove le mavarie, i rituali e le superstizioni si confondono con la realtà. E nemmeno gli ingredienti hanno sempre lo stesso sapore, soprattutto se colti lontano dalla terra arida dove hanno messo radici, come le arance di uno dei personaggi più riusciti di questa personalissima Macondo etnea, Fofò:
“A mani nude, scavava e strappava via la gramigna e, quando era tempo, raccoglieva i sanguinelli. Che apriva, con le stesse mani ruvide, spremendone il succo rosso. Quel sangue dolce impregnato di tutti gli umori che le radici erano riuscite a rubare all’ardore della terra” (Radici).
Fofò fa parte di quella schiera di personaggi che per trauma, tara o ribellione abitano ai margini del piccolo presepe arroccato sulla sciara lavica: Angelina, la babba, Michele, tuccatu ra rannula, e Assunta, la Marchisa. L’autrice dà loro voce, insieme agli altri, senza sconti. E forse, oltre all’esergo dedicato a Battiato, fra gli ingredienti si potrebbe ricordare la poetica di De André.
Eppure, ancora, nulla si direbbe di Sciara se non si entrasse nelle alchimie sotterranee della lingua, di una prosa evocativa e immaginifica, impreziosita da incursioni dialettali, con cui l’autrice sostanzia il suo omaggio, malinconico e feroce, alla memoria della propria infanzia etnea. Una prosa certamente matura, non usuale per un’opera prima, con risonanze poetiche di felice perfezione ritmica, che avrà certamente determinato la fiducia dell’editore. Fra due punti, quasi un haiku, certe immagini emergono nel racconto con la potenza metamorfica dell’inconscio:
“Le sue mani sono diventate radici di magnolia” (Sonnu).
Ancora, è una sfera sensoriale primaria, l’olfatto, a rendere la porosità psichica del paesaggio, come nel racconto d’iniziazione adolescenziale:
“La città era nera, bruciava, emanava afrore di pietra lavica e piscio” (Pari o dispari).
Ad attraversare il testo è, in generale, la vividezza percettiva propria dell’eros e dell’infanzia. Ma forse è il gusto la sfera sensoriale più carica di implicazioni, con esiti specifici di disvelamento. Il sapore unto e rotondo degli arancini e del sugo di maiale, infatti, si mescolano più e più volte, nei diversi capitoli, a quello dolciastro della morte. Ma non prima di avere solleticato i sensi. È il caso della rosticceria fratelli Russo, luogo per antonomasia del desiderio gastronomico (Requiem per Giorgio Privitera, Arancini). Ma soprattutto, con implicazioni di sublimato cannibalismo, del sugo preparato da Carmela, la cornuta:
“ci siamo, il grasso si è mischiato al pomodoro. La carne comincia a staccarsi dagli ossi. Carmela afferra le salsicce, ne strappa un pezzo e lo divora avidamente. Sente la carne cruda sotto i denti, il pizzicore del pepe nero” (Il sugo della festa).
La scelta di legare una sfera primaria della memoria familiare, quella della cucina, ad alcune delle immagini più violente del testo, rimanda alla tonalità emotiva ambivalente, di malinconia e di repulsione, che attraversa tutto il racconto. Allo sguardo gentile e sensibile dell’infanzia si alterna l’ironia lucida e feroce della ragione, che, adulta, disvela l’impostura. Per inciso, questa tonalità emotiva connota, all’estremo, la protagonista nel primo e nell’ultimo racconto, Teresa.
Situata ormai al crepuscolo della storia del paese, all’esaurirsi del tempo vitale dei suoi abitanti, Teresa si affaccia alla vita adulta in un tempo prossimo al nostro. La sua vicenda è avvolta dall’ottundimento: del sonno, dell’afa, della noia. E forse, nello spazio del sogno che collega i due racconti, dal rituale familiare del pomodoro fino al dubbio di una dissacrante esecuzione, sta la chiave del rapporto con l’infanzia: uccidere i propri mostri, nominandoli uno a uno.
Una tensione elastica attraversa tutta l’opera di esordio di Antonella Rizzo, “Addio ai platani, minima raccolta poetica di 33 vite”, come la definisce la stessa autrice nel sottotitolo (Oistros, 2020). Sono oscillazioni tra poli, ma al tempo stesso tappe di un cammino spiraliforme, che assume a volte le forme di un ritorno, mentre contiene già in sé nuovi germi. Dal Salento a Milano, all’Africa amata nei suoi angoli e nella sua gente, a quella ritrovata in vesti nuove in altrettanti angoli della metropoli italiana.
Tutto il libro è mosso da una dialettica interna, dinamica, tra il moto e la permanenza, tra le radici e i paesaggi che mutano, elementi non in aperta antitesi, ma in continuo, fertile richiamo, perché il viaggio è innanzitutto un’attitudine e una conquista interiore, mai definita una volta per tutte: “Milano è un’altalena / è sempre là dove non sei più” e ancora: “Giunge la fine tra la pioggia e le alici / un venerdì di memorianegata /fino ai confini del mare. / Giunge e piove, senza dubbio / Sotto l’ombrello rosso / un cielo d’assenza scrive la fine. / Giunge doppia ogni vita, / una tace come morte / l’altra si impiega dopo l’inizio. / Giunge ogni cosa che finisce”.
Ogni movimento è un cambiamento, è una morte e una nascita, uno sguardo che si
rinnova sulle cose che si lascia alle spalle e su quelle a cui va incontro: “Quella
tovaglia ha l’odore delle cose perdute / rimettila nella credenza / accanto alle mie
assenze”, “Qui ogni cosa finisce al mattino / (…) Milano non sa che vado via, non
chiede. /Dopo la luce apre il ventre fino a sera /Se non dormi, / lei ti porta il profumo
dei platani. / Se ti accorgi che è bella, /ti toglie il sonno / e succede di notte”. Tutto è inciso dentro, tutto è dato, ma allo stesso tempo lascia margini da scoprire, da
interpretare, per una continua, forse impossibile, ridefinizione: “Non sono morte / si
nascondono ancora le cicale, / in lontananza tornano a battere / la terra che ho
dentro”. I luoghi, evocati con la precisione dei nomi mentre assurgono a contesti dell’anima, non perdono la loro materialità, resi attraverso una sensorialità vivida, legata alle suggestioni che ogni ambiente suscita: la poesia di Antonella Rizzo è infatti una trama di profumi (limone, menta, arance), sensazioni del gusto (miele, latte, “storia fritta”, succo del mango, kebab…), dati visivi relativi sia a paesaggi urbani, sia a lande esotiche, tanto note e care all’autrice. Nel richiamo di luoghi e sapori tutto si confonde, senza perdere – che mistero – la propria identità. Un trionfo di sensualità che si celebra anche nell’incontro con l’altro e nella relazione d’amore e che si declina come stupore e devozione: “bacio i tuoi piedi come radici / la notte sbuccio i tuoi giorni”, “la mia notte ti ascolta devota / come la baia il mare”.Corpo, volizione, tensione del movimento si contrappongono alla stasi, all’immaterialità, queste ultime però non segno di resa, ma di resistenza: “Audace è andare / audace è stare / audace è il niente che qui succede”.
Che cosa lega contesti e vissuti, anche a volte molto distanti tra loro, cosa li rende molto più di semplici fotogrammi giustapposti nella memoria di chi li descrive? Li accomuna un filo profondo, quello della partecipazione e della fratellanza, anche nel dolore.Due temi ricorrenti sono infatti quello di un dio morto e ritrovato in un dialogo audace e confidenziale, oltre gli steccati delle etichette confessionali, nel ruggito vitale di un’anima, e quello della guerra. Ogni guerra ha il suo portato di sradicamento, di azzardo, di morte, il cui prezzo non sarà mai pagato dai “sazi”, ma dai fragili: sono bambini privati del nome, a cui solo il gesto poetico può tentare di restituirne uno, uno per tutti, Ibrahim. A lui la voce dell’autrice rivolge l’invito più accorato: “Ibrahim, canta!” La poesia germina proprio in queste anse della storia, nella spirale del ritorno e dell’incontro, nel movimento mai unidirezionale tra l’origine e la meta, dove tutto è mutare e ri-conoscere, nominare “senza dire, senza nome”. E’ così che l’arte può diventare creazione di nuove possibilità: “Fammi radice e frutto /dammi ragioni e follie /trasformami in Africa / perché il suo viaggio non abbia un ritorno lontano”.
Alcuni testi
Trieste al molo
Qui non succede niente.
Non può succedere niente.
Tutto è audace qui.
Audace è andare
audace è stare
audace è il niente che qui succede.
Salento
Non sono morte,
si nascondono ancora le cicale,
in lontananza tornano a battere
la terra che ho dentro,
quella addosso, quella che è carne.
Il limone con le foglie nere
fa frutti sul muro della vicina,
accanto all’agave.
Ancora.
Tante cose ho portato per tornare,
e qui non so più nulla.
Sto con la terra,
con il limone, in una luce che mi tiene ferma
a un passo dal tempo.
Dea
Tu non sai, uomo.
Io ho tradito,
io ho portato
oltre la vita,
oltre le parole
oltre ogni peccato,
oltre ogni regola,
oltre ogni regola.
Cosa dici al tuo Dio, ora?
Inshallah?
Tu non sai, credi a me.
Io parlo al tuo Dio.
Desidero,
corro,
mento
me ne frego.
Io e il tuo Dio, uomo,
sappiamo più di te.
As-salam aleikum. Amen.
Ibrahim, canta!
Dopo la pioggia Ibrahim prese soldi muti
e sua madre cadde nel blu.
La storia è rotta nei canti del mare,
ha racconti finiti quel giorno.
Un legno orfano
galleggia piano sull’acqua di un porto chiuso.
Dopo la pioggia nessun nome è storia.
Tre domande ad Antonella Rizzo
D: Quanto le radici sono un limite (se lo sono) e quanto una risorsa nel tuo fare poesia?
R: Le radici in generale e le mie in particolare sono un luogo mitico, inesistenti
eppure essenziali per ogni inizio e ogni fine. In quanto tali esse per me sono
ovunque, in ogni storia che ascolto, in ogni vita che incontro. La scrittura
poetica per prima è radice e fine.
D: Trovo che l’esperienza dell’incontro sia protagonista in questo libro. Cosa rappresenta nella tua vita e per la tua scrittura?
R: Accolgo questo tuo sguardo sulla raccolta e la proposta che per te l’incontro
sia centrale in essa. Non lo so se lo sia, se hai visto questo probabilmente è
anche così. L’incontro è per me un movimento di smarrimento, una ricerca
continua di aggiustamenti di sé, un esercizio fallito di tracciamento di confini.
D: Cosa intendi con l’aggettivo “minima” attribuito alla tua raccolta? Una scelta stilistica o una postura esistenziale?
R: Fatico a vedere una differenza tra una scelta stilistica e una postura
esistenziale. Intendo “minima” una scrittura che è prossima al necessario pur
non essendo tale. Un po’ come una fonte di energia portata al suo limite
minimo, garantisce le funzioni o gli affari vitali, non superflui.
Il nome di Ada Negri non figura tra le scrittrici italiane del secolo, nelle antologie scolastiche, relegata al ruolo di minore o marginale. Un vero peccato, considerata la soave scrittura, lo spessore d’intelletto e l’originale capacità di “dipingere” un mondo femminile in trasformazione, energico e lontano dalle rappresentazioni canoniche. All’altezza del 1920 Ada Negri scrive una breve raccolta di racconti “Le sorelle, ritratti di donne”, oggi contenuta nella raccolta Prose, tra cui spicca un gioiello : La cacciatora.
“Di che colore erano gli occhi della Cacciatora? Non riesco, per quanto mi ci sforzi, a ricordarmene.
Forse, azzurri. Forse, grigi. Piccoli, certo, e vaghi: non mai risolutamente fermi su una persona o una cosa: tanto da far pensare come mai ella potesse avere, cacciando, così giusta mira. Altro, di quegli occhi, non so più; mentre invece, dopo tant’anni, ho vivissima nella memoria la figura di lei. Sembrava alta, più che non fosse in realtà: era larga di spalle e di torace, forte nei fianchi e nelle gambe, ben presa nel costume maschile di velluto a coste color verde bottiglia o marrone scuro, e sotto il cappellaccio di feltro a larghe tese. Sempre in stivaloni: il fucile ad armacollo lo portava per abitudine, anche quando non andava a caccia, ma semplicemente a passeggio per la campagna.”
Sin dall’incipit, La cacciatora emerge prepotente con la sua carica fisica: i suoi occhi, forse azzurri sono grigi, piccoli e vaghi. Sono gli occhi di una cacciatora, di una donna che indossa vestiti maschili e si fa chiamare Eddie. Il personaggio viene presentato attraverso le fattezze fisiche, come spesso accade nella prosa ottocentesca. Qui però, avviene un rovesciamento speculare del topos della donna della tradizione letteraria (gli occhi non sono azzurri ma grigi, e l’aggettivo vaghi che appartiene alla tradizione petrarchesca, delinea una personalità sfuggente e del tutto priva dell’aura angelicata della letteratura). I colori sono utilizzati per i vestiti maschili, lontani dai tradizionali colori associati agli abiti femminili. Sono anche i colori che riprendono tradizionalmente i cromatismi del bosco in funzione mimetica. La cacciatora come creatura boschiva, selvatica.
La proposizione avversativa “mentre…invece”…segna una cesura: lo sguardo non restituisce una lettura trasparente: altro rovesciamento del topos degli occhi come “specchio dell’anima”. La figura esteriore, dalla forma del corpo all’abbigliamento definisce lo status . Lo definisce ulteriormente la funzione espressiva dei nomi alterati: cappellaccio e stivalone che richiamano quasi grottescamente a un vestiario abbondante, logoro, quasi una divisa scelta appositamente per distinguersi. Più sopra, l’abbigliamento viene definito infatti “costume”
un ritratto della scrittrice “Ada Negri”
Una donna che travalica gli steccati delle convenzioni con naturalezza e impone anzitempo un modello di vita e identitario che è difficile riassumere nella formula donna-uomo che la scrittrice usa risolutamente . La cacciatora è una rivoluzione in atto che attraversa – anzi fende- la tradizione dia da un punto di vista letterario che storico: in una realtà in cui le donne erano ancora relegate in ruoli casalinghi e appartati, la Cacciatora diviene un modello assolutamente estraneo e trascinante: una sorta di ibrido maschile e femminile che partecipava e dell’una e dell’altra regione, rimanendo nella sua sfera intima una straniera assoluta, in senso camusiano. Vi erano in lei le vestigia di una remota femminilità che si riverberava nella capacità di ascoltare i racconti delle donne di Motta, paesino piemontese, con la sua empatia e vigoria assieme. Tutto ciò conferiva alla Cacciatora un’aura speciale , quasi di divinità decaduta:
suonava la chitarra con mano esperta, con sentimento forte ma un po’ rigido, volutamente compresso. A vederla seduta in un angolo, con lo sguardo assente, le gambe accavallate, la testa dai capelli recisi china verso il collo dello strumento cos’ poco adatto al costume che mascherava grossolanamente la femminile floridezza del suo corpo, destava un senso di pena, p piuttosto di curiosità turbata, malsana: anche in coloro che, come noi alla sua presenza eravamo avvezzi.
Il suo passato da donna angelicato è racchiuso in un album segreto, che mostra alle donne del paese fino allo scoperchiamento del lato di sé che aveva seppellito e che costringe le altre donne a una feroce autoanalisi: siamo vigliacche perché Eddie è scomoda, ci interroga, ci scuote nelle fondamenta, ci dice che dobbiamo capire. Della bambina dei riccioli d’oro, paffuta e rassicurante, emerge una giovane con le fattezze da amazzone che si trasforma e cavalca caparbiamente i cavalli e poi la donna risoluta con fucile da caccia in spalla, puntato contro il nemico esterno, la società giudicante e anche il pensiero maschio introiettato in quelle ragazze di paese che soffrivano per la sua deviazione ma intimamente ne ammiravano la forza. Leggere Ada Negri provoca felicità, una sensazione di pienezza, che solo le straniere assolute possono raccontare, lasciando il segno sui tempi e insegnandoci la libertà dell’essere “cuori frecce lance ridenti.”
Vi era un tempo lontano in cui i nomadi si spostavano sulle lande deserte del takyr, nei territori curdi e aspri dell’antico Turkmenistan sovietico degli anni trenta. Si fatica a pensare a un tempo preciso, perché takyr, il nome delle terre argillose che davano nutrimento e patimento alle orde carovaniere, è una dimensione del tempo, dell’anima, sospesa nello spazio liscio e galleggiante della sabbia. In questo tempo, lungo e circolare, si consumano le vite delle donne coperte dai veli, vendute dai genitori al loro padrone, consumate dal vento arido, dalle carestie e dalla consunzione delle carni troppo presto esposte alla vecchiaia. Il tempo di essere adolescente e di accarezzare i granelli di sabbia, di sincronizzare la propria malinconia con quella dei cavalli e delle pecore viandanti, che si è già pronti per una solitudine eterna. Il tempo della memoria lunga era una somma di attimi fugaci , come le voci di chi passa velocemente per passare la notte e poi fugge all’alba , toglie le tende, cena con il respiro dell’animale, sugge acqua dai pozzi disseminati, sente il peso della bisaccia. La piccola Giumal, nasce così, pura come un fiore del deserto , subita esposta alla morte e ai pericoli del deserto turkmeno. Sopravvive e diviene adolescente conoscendo presto le ineluttabili leggi della sua gente: un corpo prestato al piacere altrui, la prostrazione, il duro lavoro.
“Cresciuta nell’angoscia e nella malinconia, nella fame e nella schiavitù, ma viva pura e paziente”.
Giumal non sapeva cosa vi fosse al di là del deserto, non conosceva l’altrove. Quando morivano i mariti, le donne del takyr, bagnavano lo jasmak per simulare le lacrime. Lei non conosceva l’amore non lo sapeva, il suo cuore era arido come le dune desertiche che aggiungono granelli al vento e seppelliscono cammelli malati. Dove è condotta Giumal? Verso un sogno che non esiste come le allucinazioni della dune, quando il caldo e la sete si impossessano della mente. La sua vita ha una dolcezza silente che si scopre solo nei dettagli, quando adulta, laureata in agraria ritorna nel takyr per recuperare le specie di piante perdute, in un palazzo dal serpente dorato sulla sommità, una croce russa che conserva i resti della madre, lo scheletro del suo amante polverizzato, una storia controrivoluzionaria che non porta nessuna bandiera, nessun vessillo: tutto è nello spazio di un takyr, dove vita e morte si avvicendano come petali cadenti.