Francesca Marone “Poche rose, tanti baci”.

Poche rose tanti baci è il romanzo di esordio di Francesca Marone, edito da Castelvecchi nel 2017. La trama ruota attorno al controverso rapporto tra una donna e suo padre, ormai malato e in fin di vita. Il pericolo di indulgere a sentimentalismi è altissimo, ma Marone riesce con maestria a mantenersi in un perfetto equilibrio tra il racconto di un dolore passato e le conseguenze inevitabili sul presente. Sullo sfondo, relegato in un letto di ospedale che riproduce una di quelle immagini livide del tardo rinascimento tedesco, è stagliata la figura ingombrante del padre. Un genitore, anzi, tanto è il distacco che si sente respirare in queste pagine e che matura via via che la storia si addentra nei ricordi sbiaditi delle mancanze, delle falle di un uomo egoista, padre assente, marito fedifrago.

Eppure è lui il protagonista, l’agente della storia e il responsabile morale di un rapporto che non è mai decollato e che assomiglia ad un copione recitato con dovizia. All’attrice non protagonista, toccano le rose, surrogato stantio e stereotipato di un amore assente. Lei è Giulia, donna matura, alle prese con un matrimonio finito e un figlio adolescente, con il cuore tachicardico e la voglia di riempire una voragine esistenziale.

Il tentativo di ricostruire l’immagine di un padre perfetto è la compulsione di questa donna che si muove come un’ investigatrice alle calcagna del movente, dell’assassino e delle vittime designate. Le conseguenze del disamore saranno, in qualche modo, inevitabili e letali. Le strade del grande uomo di successo sono lastricate di gente affamata e assetata di tenerezza, una parola che non conosce albergo in questa storia, se non negli sguardi e nei gesti della figlia al capezzale di un corpo morente. Di fronte alla malattia, tutto si arrende, anche il livore più radicale.  Giulia è un po’ Elettra, un po’ Antigone, una forza femminile che accoglie e trasforma che travalica le ragioni dei propri desideri per trasformarsi da figlia a madre, da moglie a sorella, da amica a complice:

Ho rubato le lettere d’amore di mio padre, tanto a casa per ora non tornerà. Leggo e rileggo alcuni passaggi, son diversi giorni che mi siedo sul letto e sfoglio le lettere come se stessi vedendo un  film su un attore che non ho mai compreso abbastanza. Stento a credere che si parli di lui, dell’uomo che mi ha segnata con la sua freddezza, con la sua assenza pesante.

La cosa che mi ha subito colpito è lo stile, controllato e tecnico. Il romanzo contiene altresì un denso precipitato letterario di chiara matrice mitteleuropea, che richiama Saba con passaggi di similitudini emotive molto evidenti; mi viene subito in mente il j’ accuse al padre nella sezione autobiografica del Canzoniere che Marone sembra “tradurre” in un’appassionata prosa: Mio padre è stato per me l’assassino/ Fino ai vent’anni che l’ho conosciuto/ Allora ho visto ch’egli era un bambino.[…] Andò sempre pel mondo pellegrino ; / Più di una donna l ha amato e pasciuto.

Mamma non si accorgeva mai di questi traffici e mi sembrava di tradire un po’ anche lei . Non sapevo dirti di no , papà ,un poco per timore di una tua reazione e un poco perché quello scambio rappresentava una sorta di segreto tra noi, unico che poteva fare da ponte. Le parole non ci hanno mai aiutato molto. I momenti migliori fra noi sono stati cullati dai silenzi, quando la sera mi accarezzavi la testa e io non volevo chiudere gli occhi mai. […] Li ho presi i tuoi regali , quelli da parte di Flavia e di tutte le altre . […] Flavia, Emilia, Adele, Pina, mi sono sfilate davanti agli occhi, come fotografie.

 

Altrove sentori di  Svevo e Kafka, il primo per la presenza fisica e conturbante del padre in fin di vita col suo pugno ambiguo, sospeso tra estremo saluto e ultima parola di offesa e il secondo nel versante erotico con Praga, Milena e le lettere che raccontano un’altra storia, una linea parallela che affianca il presente, interseca il passato e segna come una cicatrice il futuro a venire.
All’interno di questa salda cornice si consuma il classico rito dell’abbandono filiale, inserito in un quadro di crisi familiare e di una frattura del nido borghese. La famiglia, insomma, viene dissezionata nelle sue componenti minime, senza che il puzzle finale venga a ricomporsi in unità.

Il tradimento del padre riverberato nel microracconto della figlia (che ricostruisce attraverso segrete lettere storia) viene tuttavia “sanato” per almeno due motivi di cui l’autrice non ci risparmia cause e conseguenze.
Il tema globale non è nuovo nel panorama sia italiano che internazionale. Da Rossana Campo ad Angela Carter  il rapporto padre/figlia è stato al centro degli ultimi romanzi. Le chiavi di lettura, certamente, sono molto personali e  fortemente ispirate ad un vissuto personale.

Tra emulazione e demolizione, questo compartimento della crescita di una donna  viene a configuarsi come un nodo molto sensibile. Una interrogazione su una figura topica a suo modo, che si alterna al sempiterno modulo della magna mater dominante nell’ appena trascorso Novecento. Maestra fu la Ginzburg in Lessico Famigliare ad indagare le regioni limitrofe dei rapporti familiari e a dipanarne le ragioni, a tramandare un lascito che ancora vive nelle trame e si accartoccia coi tempi del presente storico. Dove è presente l’assenza, più che la saturazione. E a lei si chiede di raccontarci di quando eravamo figlie di.

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