Voci – Incursioni nella poesia contemporanea

a cura di Gabriella Grasso

 

Antonino Bondì. Osceno mobile (Oèdipus, 2019)

 

metafisica per il XXI Secolo

 

Adesso non puoi addormentarti sulle verità

se non dietro il sogno di facce distratte,

e nemmeno stornare lo sguardo

dallo spettacolo di un grattacielo in frantumi.

Lì, nella vertigine di una storia,

l’eco di genti ha sfiorato lo sguardo di un bonsai

che si annienta inebetito;

e altrove, fra diamanti, cadaveri e cascate

un volo di pellicani si mette a disegnare

una vecchia ombra di morte

sopra le terre più sbigottite.

Ci hanno fatto cenno di scappare

e cancellare le tracce dell’uomo

da una lavagna insanguinata in ogni modo.

Ma sogna di essere un tentacolo

la mano dell’uomo fra amore ed assassinio.

 

***

 

volto

Alzo gli occhi e punto in direzione di una nave

che si ingrassa addormentata nel porto.

E’ gonfia una scatola di parole

e fitta di segreti, consunti in un ingranaggio

d’elementari ripetizioni.

Respiro nell’asma straziante del tuo amore

e m’impunto su un dettaglio d’universo

idiota:

una goccia di pioggia,

un bottone di camicia

in corsa verso un tombino.

Allora punto i piedi in groppa a un sogno

a forma di stella filante,

mentre sento scivolare sulle tende

un odore agro che non riconosco;

e quasi quasi pure gli occhi scivolano

su uno stuolo mangiucchiato dal tempo

dove un veleno mai gustato s’allinea al desiderio:

trattengo il respiro che strazia d’asma

il tuo cuore non allenato.

Allora, timida e querula voce trasferita

al vano del silenzio, mi rivolto in uno spicchio

incomprensibile di mondo e assomiglio

– caricatura e rischio – a un muratore nomade:

le mie case si chiudono e si aprono

se c’è vento.

 

Valentina Calista. L’abbraccio che manca al giorno (Delta3, 2022).

 

La linea bianca 

C’è una linea bianca che traccio la sera

tra il buio della velocità fuori la porta

e labbra che non baciano più labbra né mani

che prendono visi o mani.

Fatemene una colpa se ho l’anima antica,

vecchia donna curva

che raccoglie sole e grano.

Di questi occhi ho fatto corazza

quando nella notte non ho di che difendermi

quando il sonno si ribella alle mie vite passate.

 

***

 

Che le cose che aspetti siano tue, sue 

Che le cose che aspetti siano tue, sue:

per tutte le parti della gola rimaste afone

per tutte le cellule del corpo mancanti d’aria.

Che le cose che ami siano tue, del creato:

per tutte le rollate d’aria sui campi riarsi

per tutte le fiamme del sole scagliate sui rami.

Lascia la lingua gettare sillabe

all’aria divampante il suono allo spazio,

al tempo superbo che sa tutto, anche l’Ora.

Lascia, lascia, lascia.

Che le cose possedute siano lasciate, abbandonate e

ritrovate nel cassetto delle sciocchezze.

Che le cose mai avute siano possedute e lasciate

dal pensiero, dal sogno e dal desìo che non tace.

E che l’aria sia l’unica vita nella vita.

 

Loriana D’Ari. Silenzio, soglia d’acqua (Arcipelago Itaca, 2021)

 

il ramo sussulta, stacca e plana la foglia

appena un dorato fruscìo. culla d’aria

la fine di qua dalla soglia

 

***

 

perdona voce bianca mia chiara

di luna nota d’ortica strinata

crepa, perdona verde linfa tra

i denti filo d’erba corda

tesa in eclissi perpetua di fiato

questo nodo scorsoio che stringo

e allento, l’estrema torsione

di abisso e canto

 

***

 

sei andata via, ma la voce resiste

e propaga infinita oltre la fonte

tutto il mistero della cosa viva.

per sempre rideremo dei capelli

arruffati, dirai per sempre a presto

dall’ultimo vocale, nell’azzardo

del respiro la piena dell’affanno,

prenderemo per vere le parole

 

***

 

ma se vedere è restituire

qui di te ogni cosa è salva

dov’è un lampo l’innesto

del suono, e ti sono

nel cono d’ombra appesa

ciondolando. sarai nido

di frontiera in ogni giuntura

 

Pasquale Pietro Del Giudice. Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019).

 

La manutenzione 

Sono vivo, un cantiere aperto,

una macchina usata, un mostro precario

civilizzato, puntualmente i peli mi rispuntano sul viso,

il sebo si accumula nei pori,

il mondo è la criniera di un cavallo,

ogni cosa necessita di manutenzione e del suo stalliere,

della sua lametta e del suo giardiniere,

di revisioni, di versioni, di una controllatina

ai freni, alla tenuta dei bulloni;

la vegetazione, le unghie ricrescono, la pelle decade,

ciclicamente sono necessarie

radiografie, controlli delle pompe

del sistema e del livello di putrefazione raggiunto,

è opportuno ridurre a ordine umano

la matematica delle sterpaglie,

più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi,

più perdi illusioni, più i tuoi gesti

si sommano negli errori degli anni,

hanno avuto incidenza, hanno ferito e perdonato,

hanno deluso e smentito se stessi.

Esposta alle intemperie e alla consunzione del tempo

la vita è un cadavere sezionato

dunque le cose muoiono con gusto

e ogni giorno implica lo sforzo

di tenere a bada il loro disfacimento,

la loro fuga, la loro tentata ribellione

rimandando la loro fine,

ritinteggiando le porte, i capelli e le pareti.

La manutenzione tiene sveglio il mondo

il suo bisogno di cure, morte che ci tiene in piedi,

che stimola, smuove a mettere in ordine la stanza

a usare le ore nel migliore o nel peggiore dei modi,

sperperando quello che resta in affronto al tempo

e a se stessi, costantemente ridare

senso dove si era dato senso,

nei rapporti sociali

nei propri spazi, nel cassetto

delle delusioni, opponendosi alla forza

centrifuga che mette in moto la macabra pantomima.

Bisogna immaginare Sisifo barbiere,

crollare è darla vinta alle liane, alle piante rampicanti

quando ti sommergono i piatti da lavare,

quando la tua casa si arrende

alla forza riassorbente dell’edera

e del muschio, delle erbe infestanti, dei nidi di ragno,

dei topi, delle formiche, dei rifiuti dei passanti.

 

***

 

Pattumiere 

L’astuccio degli occhiali, dei pastelli

il borsellino, il raccoglitore delle monete

dei trucchi e dei gioielli, bare

dove riposano ordinatamente le cose

buche, raccolte di comunità

tenute insieme da precise caratteristiche

che ne determinano la cerchia e la fratellanza,

i cassetti invece sono fosse comuni

di spaghi, biglietti, calzini

graffette buttate a casaccio, periferiche usb

cassettoni dell’immondizia a cui siamo destinati

noi buste di organi aperti e sezionati

dopo la morte, dopo un’autopsia, da una zip

un’incisione che lascia la cicatrice

supini sull’ultimo lettino

contenitori misti di liquidi, carne e ossa

per i cani che verranno, denti

che torneranno a battere, a spezzare

la parentesi di ciò che siamo stati,

scatolette di tonno, sardine parlanti

battibeccanti, appassionati di ingiurie,

foderi di pelle senza padrone

sputacchianti impuniti parole senza pudore.

 

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