di Daniela Piana
«L’unica guerra vinta
è quella che si smette di combattere»
ROSALYN VIVIENNE MANGINI

Un ritratto di Rosa Mangini
Nessuno sente il profumo delle ginestre quando, dopo la tempesta, sbarca su una costa che credeva di non poter toccare più. Sente invece che il vento si è calmato, la vela ha smesso di urlare gonfiata e sferzata dagli elementi di cui è stato in balìa. Pochi fanno caso al «rumore della salvezza», tranne quando coincide con una ricostruzione a una certa distanza dai fatti. Basti pensare alla guerra. Il giorno dopo la fine si ode il silenzio degli ordigni caduti, e quel languido sapore dolce che è l’essere salvi. Nella liberazione dalle tenaglie dell’incerto, dalle incursioni delle tenebre interiori nel chiarore degli animi che colmano di scheletri la trama sociale, vi è la luce di un’alba: la possibilità. E proprio perché possibile, è libera da ciò che non la rendeva possibile, benché indeterminata.
La liberazione, infatti, è più questione del domani che di uno e di tanti ieri. Perché il 25 aprile e i giorni a seguire si avvertì l’assenza di quanto prima si era mangiato la vita. Animare quella assenza e farla diventare una presenza chiede un’energia coraggiosa e umanissima. La presenza, del resto, è più forte di qualunque tempesta. Oggi esperiamo quella presenza, o neppure la sappiamo più dire? La ribellione è qualcosa di estemporaneo, destinato a finire appunto in quell’alba che rimane ad esprimere la possibilità? La risposta è in ciò che tiene uniti, nel senso comunitario che è collante della società. E la storia è punteggiata di prove, di vicende nelle quali ancora prima di giungere a una salvezza materiale si è passati per quella spirituale, in cui un gruppo di uomini uniti gli uni agli altri si sono rivelati il tappo che trattiene l’aroma, la cerniera che argina la falla e fa navigare – ancora, e più saldi – sulle onde dell’identità.

La rivoluzione forse domani- Divergenze
Rosa Mangini racconta, anzi, offre il diario dal vero di com’è nata e si è sviluppata quella salvezza spirituale prima che materiale; come e tramite chi, con tanto di nomi, luoghi e fatti. In quei nomi, luoghi e fatti c’è la storia delle storie di un mondo che ha tramutato la speranza, fatta proprio di coesione e affinità di idee, vedute e valori, in una promettente opportunità. Alla quale, con il comodo ma sincero senno di poi, le generazioni a venire debbono molto. Forse, tutto. Non è dato sapere se e in quante altre aree d’Italia si siano verificati episodi come quelli narrati dall’autrice, ma i fatti del romanzo tendono a dimostrare come il ragionamento sulla salvezza materiale preparata da un atteggiamento spirituale, ne abbia agevolati di identici anche altrove.

Una copia del manoscritto
Certo, non c’era un’altra penna a salvarli su carta, ma la psiche dell’individuo è figlia di quella del gruppo, e il gruppo che la plasma è cresciuto nella «educazione all’attenzione» che per Simone Weil (ne) determina la cultura. Perciò la rivoluzione è un “tornare e rivoltare” in un approdo di imperfetta conoscenza eppure da conoscere, è un embrione vivo nelle formule emotive del popolo attraverso cui tentare di annullare, o almeno ridurre, gli elementi di inquietudine, di sofferenza o di tragedia. La rivoluzione che invera la promessa di un’esistenza migliore, che porta con sé la capacità di esserci anche per chi la pensa e la penserà diversamente da noi, è proprio in quel tornare e rivoltare libero dalla violenza di ripartire da capo, cioè da un’idea che domini, sinottica e foriera di verità, che non si confronta volentieri col dissenso
Quella rivoluzione è collettiva e lavora sulla consapevolezza, dunque è lontana dalle odierne forme di pluralismo che, secondo Robert Wolff, è del tutto «cieco di fronte ai mali che affliggono l’intero corpo sociale» perché diverge l’attenzione dalle revisioni radicali necessarie a porre rimedio a quei mali. E La rivoluzione, forse domani è un viaggio che ognuno dovrebbe fare dentro di sé, perché è un viaggio di cittadinanza attiva e vissuta nell’esperienza del “fare il pane di ogni giorno”. Un pane che chiede parsimonia nel consumo, però profuma e sazia la fame di buono, che prevede un tempo di gestazione come tutte le cose nelle quali la natura umana si manifesta, ed è fatto per essere al centro di un tavolo conviviale. Quello sarebbe, in fondo, lo Stato di diritto: prima di ogni rigida scrittura, l’interazione con l’alterità
. Nella sua sostanza vi è un grido senz’armi di offesa, piuttosto di difesa dei rapporti, di cura della vicinanza. Rosa Mangini dà a intendere come quattro anni prima del fatidico 25 aprile quel «domani» era un «forse» difficile eppure intatto, possibile, grazie a quella cura ancora viva in un presente semplice, mai fuori misura. Per questo il nostro presente, frutto della analisi critica dei fatti storici, dovrebbe essere libero da una progettualità ingegneristica che arroga in sé quanto serve per fare il comodo tramite il superfluo, in favore di quanto è utile a «fare bene per ognuno» affinché nell’ognuno ci siano l’oggi e il domani.
Il 25 aprile 1945 si aprì uno squarcio nel cielo, e il cielo fu diviso. Per giorni, anzi, per mesi il fiat iustitia come vendetta galleggiò nell’aria e nell’animo di molti, quasi fosse promessa del ripristino di un ordine che – però – nulla aveva della cura dell’altro, pertanto non prevalse. Più forte fu il ridare vita al tessuto sociale, tornare subito a fare pane e ciò che tiene insieme con le forme del diritto che Piero Calamandrei avrebbe messo nelle azioni e nel pensiero di tutti, a partire dai giovani.
La grande sfida di oggi è qui. Agire liberati dalla presunzione dell’idea perfetta ex ante, per rivolgersi al presente e quindi al futuro con la forza con cui i narcisi, a dispetto di ogni gelo, alluvione o siccità, torneranno ad annunciare la primavera.