Premetto che ho scelto questo libro per concludere la mia “trilogia della fame”, (http://bibliovorax.it/cibo-e-letteratura/trilogia-della-fame-raoul-precht-kafka-knut-hamsun-nathalie-nothomb/) un tentativo di tematizzazione della fame, come una sorta di doppio necessario del cibo, laddove questo sia inteso come appagamento, visione, riempimento. Tematizzare la fame in rapporto al cibo significa, come sarebbe l’oblio per la memoria, conoscere la sensazione del vuoto, della mancanza, del desiderio inappagato. Ma anche di un bisogno ineludibile che prende le pieghe inaspettate di una volontà di vita che spesso supera i confini fisiologici per farsi carico di ansie esistenziali e metafisiche altrimenti taciute.
Al netto di una trama tutto sommato semplice, Biografia della fame, della scrittrice belga Amèlie Nothomb, edito da Voland nel 2004 è un libro che va in mille direzioni, come la nomade protagonista, in balìa di eventi e luoghi diversi. Ho dovuto spesso riordinare le idee per dare un senso compiuto a questa valanga di emozioni che la protagonista snocciola lungo il tragitto della sua infanzia, poi adolescenze e alla soglia della maturità.
Rubricata come “biografia”, il racconto è più simile ad un romanzo di formazione vissuto interamente dal “di dentro” e si snoda lungo l’arco di una vita di una bambina passata al seguito di un padre diplomatico che viaggia e cambia spesso paese di destinazione: Giappone, l’arcipelago oceanico, Cina Cambogia, America, India. Poteva essere il diario fantastico di un ragazzina dalla immaginazione ipertrofica, che come nel Milione, viaggiando e osservando,mischiava a piacere fantasia e realtà documentaria. Poteva, ma ne è venuto fuori qualcosa di molto diverso.
Protagonista, naturalmente è la fame, o meglio il corpo della protagonista che ne registra e subisce il suoi effetti. Attraverso questo istinto vitale, più simile alla “volontà” di Schopenauer che alla voracità fisiologica, la personalità della protagonista si forma, si definisce e infine si mostra al mondo. Ancorandosi ad una tendenza del romanzo contemporaneo che cerca di ridefinire la corporalità disancorandola dal suo ruolo ancillare nei confronti della mente imperante, e delle gnoseologie cervellotiche – oltre che, nel Nouveau roman, dello sguardo- questo è un romanzo del corpo affamato. Cosa sia da intendersi per “fame”, lo chiarisce la voce narrante sulle prime battute:
esiste una fame che è solo di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia, quell’aspirazione non tanto all’’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente , imploro che vi sia qualcosa.
Attraverso il gusto, prolungamento sensoriale della fame, Nothomb costruisce una vera e propria gnoseologia edonistica e anche una metafisica del piacere. La conoscenza del mondo viene ordita secondo una trama non ordinaria: una conoscenza “incorporata”, prendendo a prestito una definizione di Bourdieu che apre ad una prospettiva originale e non sempre del tutto trasparente sul mondo, proprio perché mediata da quelle pulsioni vitali e corporali che non possono essere sempre incanalate in un discorso razionale. Conosciamo quindi la meraviglia mistica dell’infanzia, l’esperienza dello smarrimento di fronte al nuovo attraverso il senso del gusto del dolce, correlativo oggettivo del piacere infantile :
l’alimento teologale è il cioccolato […] non basta avere del buon cioccolato per credere in Dio, per sentirsi addirittura in sua presenza? Dio non è il cioccolato, è l’incontro tra il cioccolato e un palato in grado di apprezzarlo
La superfame del cibo e dello zucchero si estende allo scibile, e accumula una serie di appetiti dell’altro sottoforma di desiderio di luoghi, di emozioni, di persone.Tutto quello che viene ingurgitato è catalogato in una sorta di ordine metafisico in cui gli esseri occupano una scala gerarchica: prima i luoghi e i popoli che li abitano e il tipo di fame che li connota, a comporre l’atlante delle emozioni gustative; poi la potomania e il desiderio di essenza, infinito, a formare il suo breviario mistico; il desiderio della bellezza, dello sguardo del padre, dell’amore platonico verso una ragazza longilinea ed eterea, una storia dove seduzione, fantasia e incanto generano un gigantesco eden mentale.
Infine le prime avvisaglie di un godimento autoerotico, il desiderio di sé, consumato attraverso gli occhi delle compagne adoranti, affascinate dal il mistero della voracità esistenziale e una sorta di picco del piacere ottenuto con la smodata assunzione di zucchero e spezie :
Un giorno […] scoprii dei biscotti belgi, gli spéculoos, una leccornia che non conoscevo. Ne assaggiai subito uno. Ruggii di piacere: quella friabilità, quelle spezie, era una roba da urlo, un avvenimento troppo importante per celebrarlo in un garage.[…] corsi in bagno […] mi piazzai davanti allo specchio gigante, tirai fuori il bottino da sotto il maglione e cominciai a mangiare osservando la mia immagine riflessa: volevo vedermi in stato di piacere. […] Molta cannella, diceva il naso arricciato dal piacere. Gli occhi brillanti annunciavano il colore di altre spezie, tanto sconosciute quanto entusiasmanti. Riguardo alla presenza del miele, come dubitarne, viste le mie labbra che mimavano le smorfie dell’estasi? […]La visione della mia voluttà accresceva la mia voluttà
Come una nomade di fatto ma anche del pensiero, Nothomb costruisce un paesaggio culturale dove tutto viene trasfigurato in simbolo, come il menhir dei pastori nomadi, a segnare un passaggio. In quanto nomade il suo paese è il paese del “mai”. Non vi sono confini e coordinate geometriche a segnare i territori. Vi è solo sapore, acqua, spezie, dolci. Le papille gustative sono gli organi deputati alla conoscenza, una forma di percezione a-razionale che tutto unisce in questo filo del piacere bulimico e anoressico insieme. Sì, perché muovendosi nel crinale tra carne ed estasi, la seconda parte della biografia finisce per svelare il lato oscuro della fame come privazione: l’Asia e l’adolescenza le schiudono di fronte il progetto della vita: quello di scaraventarla in un mondo dove si può anche morire di fame, e non per una sofferenza esistenziale. Il suo tributo a questa tremenda verità sarà quello del rifiuto del cibo, e della missione di autodistruzione. Sarà ancora il suo corpo, il corpo nomade che ha sperimentato la perdita, l’affanno e il cambiamento perenne, a salvarla. Un corpo che riuscirà a disintegrasi e a ricomporsi nell’atto finale: scrivere per salvarsi.
La scrittura […] era un atto fisico: c’erano ostacoli da superare per tirare fuori qualcosa da me. Questo sforzo costituì una specie di tessuto che divenne il mio corpo.
Più che testamento, una sorta di profezia, a giudicare dalla più che prolifica produzione (non sempre azzeccatissima) della Nothomb dagli esordi ai nostri giorni