Un ricordo di Giovanni Prosperi

di Ivana Rinaldi

(a cura di Gabriella Grasso)

Il 3 luglio 2021 l’artista, poeta e scrittore Giovanni Prosperi si spegne improvvisamente, nella sua casa di Roma, accanto alla sua compagna Ivana Rinaldi. Una partenza fulminea, che lascia familiari e amici attoniti. Inizialmente, per tutti, c’è solo un grande vuoto con cui fare i conti; poi, nei mesi, l’esigenza e il desiderio di godere ancora della presenza di Giovanni, mediante l’ascolto della sua voce e la condivisione della sua scrittura. Nasce così la volontà di incontrare una figura ricca e complessa del panorama letterario italiano, attraverso una conversazione con Ivana, nostra collaboratrice tra le pagine di Bibliovorax.

D- Cara Ivana, questi mesi senza Giovanni sono stati difficili per te. Cosa ti manca di più e cosa torna prepotentemente alla tua memoria? 

R- Domanda spiazzante, Gabriella. E’ sentirsi come un viandante nel deserto a cui manca l’acqua, ovvero tutto. Torniamo a terra. La nostra era una vita semplice, fatta di piccoli gesti quotidiani. Ecco: è la quotidianità che mi manca, i soliti gesti, i riti dell’esistenza comune, il sostegno reciproco, l’affetto, le lunghe discussioni sulla vita, la morte, l’aldilà, la politica, l’arte, le preoccupazioni del vivere che accomunano tutti. Una vita scandita da impegni e piccoli piaceri, una gita al mare, al lago, nei piccoli paesi del circondario e nelle Marche, qualche viaggetto, il cinema, una mostra, una cena con gli amici o i parenti. Non sono io a richiamare i ricordi, sono loro che si presentano in ordine sparso ma netti e precisi. Arrivano specialmente la sera nel tempo che precede il sonno.

D- Come ci descriveresti Giovanni, compagno di vita e Giovanni, intellettuale e artista? 

R- Non riesco a distinguere Giovanni compagno di vita e Giovanni intellettuale e artista. Era un unicum che metteva l’arte nella vita e la vita nell’arte. Non ha mai rivestito ruoli, la libertà era la cifra della sua esistenza e in lui si conciliavano perfettamente il sé e il fuori di sé. Aveva una mente androgina, la mente creativa per eccellenza, diceva Virginia Woolf. Tanto è vero, che era innamorato di “Orlando” su cui abbiamo lavorato insieme a un adattamento teatrale. Era predisposto per “natura” alla generosità e alla cura degli altri, capace di ascolto e di attenzione, profondamente buono, qualità che lo hanno fatto amare da tutti. Sempre felice di scrivere una nota o una critica per i suoi tanti amici artisti, di offrire la mano a chi amava e a chi ispirava la sua  simpatia ed empatia. Negli ultimi tempi osservava dalla finestra un senzatetto che dimora sotto casa nostra, per vedere se gli succedesse qualcosa. A Roma, dove si era trasferito dai primi anni del duemila, si faceva voler bene dai miei colleghi e compagni di partito, dai suoi amici artisti, dal parrucchiere, dalla farmacista, dal pizzicagnolo. Ha lasciato un ricordo indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociarlo sul suo cammino. 

Mi chiedi di Giovanni artista e intellettuale. Tutto per Giovanni era arte. Dalla cucina, ai piccoli lavori di restauro, ai libri usati e recuperati dalle sue mani con maestrìa e poesia. “Faremo arte con tutto”, motto che credo abbia ereditato dal suo maestro ideale Emilio Villa, con cui era entrato in contatto e del quale amava parlare spesso, specialmente del loro incontro avvenuto a Roma negli anni Novanta. La sua formazione intellettuale era sterminata; se per la poesia visiva si sentiva debitore di Apollinaire e Villa, i suoi riferimenti letterari erano Rabelais e Cervantes, per il teatro il suo “idolo” intoccabile Carmelo Bene. Le sue letture spaziavano dalla letteratura, alla filosofia, fino alla teologia. Negli ultimi anni era particolarmente attratto dalla storia delle religioni e dei miti: la sua biblioteca si era arricchita delle opere di Robert Graves, Calasso, Kerényi, Zolla, Frazer al cui Ramo d’oro si era ispirato per una delle sue ultime opere “Laggiù qualcosa per Bene”. Frequentava con assiduità la biblioteca di quartiere Giordano Bruno da dove tornava con i testi di Heidegger, Levinás, Derrida, Husserl, Wittgenstein. Si chiedeva, quasi ossessivamente, se la filosofia avesse ancora qualcosa da dire. Ciò che lo stimolava era la filosofia del linguaggio, una ricerca estenuante che lo sfidava quotidianamente nella creazione artistica. Non posso entrare nel merito della sua scrittura, non ne ho le competenze, ma ho assistito a “parti”, alcuni semplici, altri dolorosi.

D- Qual era il rapporto tra Giovanni e il nostro tempo? 

R- Un rapporto difficile, che si esprime in alcuni racconti e opere  teatrali, specialmente. Per Giovanni era centrale l’esserci, la sacralità della vita, la bellezza, mentre la storia dissacra la vita. La poesia e la scrittura segnano il suo saper stare in presenza del mondo:”La poesia è male incurabile e contagioso, sfonda le pareti contorte del labirinto, tende alla sanità e si autocura, forse non è perfetta, non ha l’autofarmaco, non è rimediabile, ma, il ma non manca mai: è.” (Giovanni Prosperi).

D- Cosa ti piacerebbe che si conoscesse di più dell’attività e della produzione di Giovanni? 

R- Mi chiedi cosa mi piacerebbe che si conoscesse della produzione di Giovanni. Io mi chiedo cosa piacerebbe a lui. 

Ci sono lavori a cui teneva particolarmente come lo studio dell’Angelo antropomorfo nella storia dell’arte. Un saggio ispirato al pensiero di Aby Warburg e dedicato alla sua forza e passione.  Avrebbe voluto continuare a lavorare per apportarvi “migliorie” e per vederlo pubblicato. L’unico che avrebbe voluto vedere in stampa.

Gli erano care anche le fiabe dedicate a sua figlia Martina. Non credeva invece che la poesia potesse avere uno spazio nell’editoria contemporanea, nonostante ogni occasione fosse buona per scriverne: su un conto di ristorante, una velina che ricopre le arance, un pacchetto di sigarette, un libricino creato da lui. Le sue poesie sono l’espressione che sento più vicina alla mia sensibilità, arricchite da un fiore, un coriandolo, un segno, un disegno, alcune semplici, alcune complesse, come la vita e come era Giovanni.

D-Ci salutiamo con alcuni testi di Giovanni a te particolarmente cari e con l’invito a scoprire il tesoro artistico e spirituale che questo autore ci ha lasciato.

R- Grazie Gabriella. Scelgo qualche verso inedito di Giovanni che ho pubblicato su facebook e che amo particolarmente.

 

Tu vai avanti

che il tempo

sviene

e

se lo porta via

la sirena dei ricordi

nella meridiana

del pendolo

o

del quarzo

.

(s. d.)

 

Anche nel più scuro

e acuto

dolore

vi è una scintilla

di felicità

che spacca l’angolo

e

illumina

l’estrema periferia

.

(s.d.)

 

Prova tu

a sognare

con passi zig zag

nel cuore.

E poi scendi

veloce

strette scale

pettinandoti

per un amore

nel passato.

Prova a stringere

una stella filante

per lanciarla in aria.

Prova tu ad avere

un ricordo cosi:

raro il sorriso

in quell’incontro

retto da soavi

ventate di timo.

Anima se oggi

ti inganni

dì al giorno

che converte

la notte

in alba

di prendere

il mio corpo

non dico in lui

ma appena

nell’alba

.

Venezia 1978

 

Piangendo e navigando,

onde

lieta la gioventù

cercava acqua

e accendeva fuochi

,

Sibilla

ecco il tempio

del decoro:

il labirinto che vola;

per un tributo

miserabile

ho tirato i dadi

con lo stile di una mano

che cede nel tempo:

offre il mistero

che nel monte

entra:

100 vie,

metà porte

e meno voci

per risposta

.

Ecco la soglia

e il dio

che compare

e muore

in volti

e colori

spettinati

fammi vedere

il tuo seno

!

Prima parte dell’opera “Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Tu che onori

Scienza e Arte:

onora il poeta

l’ombra sua

torna

sorridi

parliamo

di cose

che al tacere

è bello:

un prato

di fresca verdura

,

Toh

Ecco

!

Tutta la filosofia

che molte volte

al fatto

il dire

viene meno

e in molti

canti

si divide

 

.

Ultima parte di

“Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Lettera a un numero

 

Piove a casaccio

senza luce e tono

alza almeno un braccio

di saluto

o

arresa

verrà il tutto a farti da sponda

E’ tempo di mettere ordine

nella credenza

dopo

nevica

grandine bianca

sopra numeri in palline.

scordati della periferia

delle pagine

mai arriverai alla fine

senza la decenza del caos

Roma, 2020

 

I giorni

se ne vanno

alcuni indifferenti

altri commossi

come la chiusura

di un libro

.

(s.d.)

Il “mandato dello scrittore”

 

Un ritratto di P.P. Pasolini- bibliovorax

Un ritratto di P.P. Pasolini

di Francesca Tuscano

 

 

Vorrei esser capito dal mio paese,

ma se non dovessi esserlo,

ebbene

sopra al mio paese passerò in disparte

come passa una pioggia obliqua.

 

Così scriveva Majakovskij, negli anni della crisi, prima del suicidio.

E così scriverà Pasolini, nel corso della sua crisi – che non lo avrebbe abbandonato mai, dagli anni Cinquanta fino alla morte, non meno tragica di quella di Majakovskij:

 

se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo

e ancora

La morte non è

nel non poter comunicare

ma nel non poter essere più compresi

 

Per Majakovskij, come per Pasolini, il ruolo del poeta è politico. Non ha senso scrivere, “comunicare”, se non si è capiti, perché essere poeta significa creare, con i propri versi, un dialogo e non un monologo

In tal senso, “comunicare” è amare, e il poeta, per Majakovskij come per Pasolini, scrive per il disperato amore che ha verso gli uomini, senza l’ascolto dei quali non ha senso la propria opera.

E non è un caso che Pasolini, nel corso della propria attività di artista e intellettuale, avrebbe avvertito l’affinità con il ‘cantore dell’Ottobre’, nella scrittura come nella comune sorte dell’esclusione, politica ed esistenziale, fino a sceglierlo (con Esenin, ma più di Esenin) come riferimento ideale nella ricerca di una nuova lingua per un nuovo teatro, ricerca politica e, dunque, stilistica (come era stato per Majakovskij, autore a sua volta di un teatro politico, che era stato la spina nel fianco della normalizzazione sovietica post-rivoluzionaria). Certo, nell’ambiente letterario comunista, Majakovskij – e il suo mandato – era stato un modello in quanto poeta della Rivoluzione, autore del poema su Lenin. Ma Pasolini non lo avrebbe amato per questo. La figura che lo attraeva non era quella fatta passare dall’apparato, ma quella formalista degli anni Venti, quella del poeta sperimentatore e nello stesso tempo (o proprio per questo) attento al mandato, all’essere, cioè, voce autonoma, autorevole e non dogmatica dei lavoratori, dei proletari. Un poeta, insomma, marxista, ma non stalinista. 

Jakobson aveva scritto, a proposito del mandato di Majakovskij:

L’attuale disunione, la contraddizione tra la costruzione concreta e la poesia, “la questione delicata del posto del poeta nelle file operaie” è uno dei problemi più acuti per Majakovskij. “A chi serve, diceva, che la letteratura occupi un suo angolo particolare? O occuperà tutto il giornale ogni giorno, in ogni pagina, o non ce n’è affatto bisogno. Mandate al diavolo una letteratura che viene servita come dessert.”

 

In fondo, questo affermava anche Pasolini, nel momento della crisi denunciata in Empirismo eretico (e in seguito, fino alla morte). Se il ruolo del letterato non è più centrale, perché il momento storico che lo ha generato non esiste più, non si può ignorare la crisi che ciò produce. L’arte non può essere un “dessert”, e perciò deve avere dei valori di riferimento, che trova nella realtà che “esprime”:

Ogni artista si adempie secondo un complicato e fitto reticolato di proiezioni che partono dal momento storico che lo determina e che egli conosce ed esprime: quando questo momento storico è zero, l’artista impazzisce: è in uno stato di confusione, o di pseudo-sicurezza su valori ormai superati.

Come Majakovskij, che aveva dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Rivoluzione d’Ottobre, così Pasolini avrebbe dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Resistenza:

Le avanguardie riempiono di insulti gli scrittori tradizionali (impegnati), e chi gli risponde ha quasi sempre fatalmente torto. Nuove violentissime terminologie descrittive (la “tecnologia”, la “massa” ecc.) hanno preso il posto delle cognizioni in profondità dei problemi sociali secondo uno schema marxista tipico, ecc. ecc. Non c’è più una rivista letteraria autorevole che esprima il pensiero degli artisti di sinistra, molti dei quali cercano nuove formule d’impegno destinate all’assoluta impopolarità: altri dichiarano finito il mayakovskiano “mandato dello scrittore” (Fortini). (…) E’ finita (…) un’epoca storica – e ne comincia un’altra. Finisce l’Italia pseudo-nazionale dell’industria monopolistica, e comincia un’Italia nuova, che fonda la propria reale nazionalità sul reale potere dell’industria neocapitalistica e tecnocratica.

   

Dalla rivoluzione i poeti avevano “ricevuto il mandato di costruire realmente nel nostro tempo”, e Majakovskij lo avrebbe affermato fino all’anno della morte, il 1930. Così sarebbe tornato su questo punto, proprio nel 1930, in una conversazione tenuta a Mosca per i venti anni della sua attività:

Se oggi non sono nel partito, non perdo la speranza di fondermi un giorno con esso.

Questa speranza, che Majakovskij avrebbe perso insieme alla vita, Pasolini sarebbe stato costretto a perderla già a partire dall’anno della sua espulsione dal PCI. La “speranza di fondersi col partito” sarebbe risultata vana nel momento stesso in cui lo scrittore aveva affermato con più forza la necessità di creare un nuovo mandato. E a Fortini, che a sua volta cercava di trovare una spiegazione per la “fine del mandato dello scrittore”, Pasolini avrebbe indicato la strada che lo avrebbe condotto sempre più radicalmente verso lo scandalo, politico e scientifico – “la ricerca linguistica”:

Nella sede socio-moralistica in cui Fortini compie le sue indagini non sono abbastanza chiare le ragioni storiche di tale “fine del mandato”: forse in una sede neutrale e in qualche modo più scientifica qual è la ricerca linguistica, si può osservare meglio, a maggiore distanza, la serie delle causali.

 

Il mandato, (ossia la responsabilità del poeta che rimane “cittadino”), doveva essere ora sottoposto ad un’ideologia i cui strumenti cambiavano, o meglio si allargavano a scienze umanistiche che potevano leggere la realtà con il rigore dell’oggettività, e senza correre il rischio del dogmatismo e del moralismo (riflessione che avrebbe condotto Pasolini verso il Formalismo, lo Strutturalismo e Jakobson). Majakovskij, rivolgendosi agli amici formalisti dell’Opojaz, nel 1923, li aveva ammoniti così:

Il metodo formale è la chiave per lo studio dell’arte: Ogni pulce-rima dev’essere presa in considerazione. Ma guardatevi dalla caccia alle pulci nel vuoto. Solo con l’analisi sociologica dell’arte il vostro lavoro sarà non solo interessante ma anche indispensabile.

Majakovskij- bibliovorax

Un ritratto di Majakovskij

Proprio ciò che Majakovskij aveva chiesto sarebbe stato ciò che il secondo Pasolini avrebbe ritenuto fondamentale dopo la crisi del mandato – individuare un metodo “formale”, da applicare anche, metalinguisticamente, alla propria arte, senza dimenticare, però, l’esigenza di una parallela “analisi sociologica”, ancora più “indispensabile” nel pieno della Dopostoria. È così che l’impegno veniva equilibrato da un’attenzione umanistica verso l’arte, che impediva gli ingenui dogmatismi delle neoavanguardie:

Distrutto il “disimpegno” delle avanguardie dal nuovo impegno “attivistico”, pragmatico, delle nuove sinistre (i movimenti studenteschi), c’è ora il pericolo di un eccesso di impegno: ossia di quello “zelo” politico che può al limite definirsi come una sorta di insopportabile “neo-zdanovismo”.

Evitare l’impegno stalinista, senza rinunciare al proprio mandato, sarebbe stata dunque la scommessa di Pasolini, che, in quanto poeta, si sarebbe impegnato innanzitutto a riflettere sul suo principale strumento di lotta, la lingua, per combattere su due fronti – lo “neo-zdanovismo” delle avanguardie e il neocapitalismo. Entrambi i fronti parlavano (e parlano), infatti, la stessa lingua, tecnocratica, superficialmente sperimentale, omologante, massificante. La difesa della poesia popolare autentica, dell’idioletto jakobsoniano che diventava radicalizzazione del dialetto, la difesa, insomma, della lingua dei barbari sarebbe stato il mandato, antico e modernissimo, del poeta marxista, negli anni del Boom.   

Dal momento in cui sceglierà questa strada per affrontare la crisi, prendendo, conseguentemente, le distanze dalle neoavanguardie, Pasolini non potrà che rivestire il ruolo, autentico, di compagno di strada. La definizione trockista lo rappresenterà perfettamente, perché sarà ormai manifesta la sua volontà di continuare ad essere comunista (e fino all’ultimo anno di vita si dichiarerà tale), ma in una posizione radicalmente autonoma ed eretica. Pasolini continuerà ad essere un “compagno”, ma rifiutando categoricamente ogni apparentamento con lo stalinismo dei dogmatici. D’altronde, il ruolo del poeta, esattamente come aveva affermato con passione Majakovskij, è quello di “parlare proprio nel momento in cui il politico tace. Questo è il suo sgradevole, inopportuno, irritante apporto alla lotta.”

Non volendo rinunciare a “parlare”, Majakovskij era stato progressivamente isolato e messo nelle condizioni di non poter più esprimersi. E persino il suo suicidio sarebbe diventato argomento di condanna e di scherno (per i burocrati del Partito come per gli anticomunisti occidentali).

Pasolini, continuando ad esigere il diritto all’autonomia, in quanto poeta, avrebbe subito, (e continua a subire), attacchi feroci da parte di molti “compagni” dell’intelligencija di sinistra (così bene e spietatamente descritti in Petrolio). Accusato di dilettantismo, narcisismo, addirittura di fascismo, anche la sua morte, com’era successo a Majakovskij, sarebbe stata ridotta a logica conseguenza di un borghese bisogno di amore ‘proibito’.

Ma Pasolini – come Majakovskij, che tante volte aveva anticipato artisticamente il suicidio – aveva cominciato a sperimentare la propria morte a partire dalla fine del mandato:

Come un partigiano

morto prima del maggio del ’45,

comincerò piano piano a decompormi,

nella luce straziante di quel mare,

poeta e cittadino dimenticato.

Maria Occhipinti una donna “straniera” ovunque

 di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Maria Occhipinti

Mi sentivo straniera in patria, perseguitata, incompresa. Allora ho cominciato a girare per il Nord Italia, per la Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Hawaji, Messico. Facevo la bambinaia, l’aiuto sarta, la pellicciaia, ho saldato le corde delle navi per vivere”.

Così si raccontava nel 1975 Maria Occhipinti al giornalista Enzo Forcella, in un filmato RAI. Animatrice del movimento Non si parte, appena venticinquenne e incinta di 5 mesi, si stese a terra davanti alle ruote di un camion militare, opponendosi alla nuova leva dei giovani siciliani, chiamati a contrastare a fianco degli Alleati l’avanzata dei nazisti al Centro Nord. Per questo, sarà incarcerata e poi confinata a Ustica, schedata a vita come sovversiva. Da questo gesto il giovane regista modicano, Luca Scivoletto, è partito per girare il documentario Con quella faccia da straniera. Eppure l’esilio in lei non assume mai il sapore di un rimpianto (Nadia Terranova).

Nella sua autobiografia Una donna di Ragusa del 1957 (I edizione Landi editore, II edizione edizione Feltrinelli 1976) e in Una donna libera edito da Sellerio nel 2004, Maria racconta la sua vita. Era un’autodidatta che non aveva pratica della scrittura ma che trovò una lingua per raccontarsi. Nel suo primo libro, la giovane nata a Ragusa racconta della su “resistenza”. Mentre a Nord i Comitati di Liberazione combattevano, in Sicilia i governi militari alleatie poi quelli del “Regno del Sud”, provavano a ricostruire una nuova convivenza. La Resistenza qui è un’altra Resistenza, le lotte per il pane, le insurrezioni contro il richiamo alle armi, le lotte contadine per la terra. Maria era povera dove i poveri erano molti ed esserlo era molto di più di una privazione materiale: uno spaesamento generale dell’anima e del corpo. (Dalla nota introduttiva di Carlo Levi alla prima edizione). Nel secondo si concentra sul quotidiano, l’ordinario di una donna libera, appunto, che rivendica il diritto alla parola, alla manifestazione e alla testimonianza, in un contesto tradizionalmente avverso alle libertà femminili. Dopo essere stata espulsa dal Partito comunista dove si batteva per i diritti delle donne, perché i moti del Non si parte venivano bollati come azioni dettati da gruppi fascisti e separatisti, tornata a casa dal confino, trovò il marito che si era legato a un’altra donna. Decise allora di lasciare la sua amata Sicilia portando con sé la sua bambina. Solo gli anarchici le aprirono la porta e figure della politica e della cultura come Gianni Grasso e la giornalista e femminista Adele Cambria.

Nel centenario della sua nascita, il 5 novembre 2021, la Società delle Letterate, in collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma, ha voluto ricordare e diffondere la memoria di Maria Occhipinti e insieme “ la ricerca di una genealogia capace di modificare l’orizzonte politico e simbolico di un Sud ancora oggi percepito come subalterno”. A guidare l’incontro a cui hanno partecipato studiose come Elvira Federici, presidente della SIL, Adriana Chemello, Serena Todesco, e le scrittrici Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Gisella Modica, Nadia Terranova, è stato il tema “ Il Sud delle donne”, a partire dallo sguardo di Maria Occhipinti e dal suo orizzonte simbolico e radicale, con l’intento di ridare senso e visibilità ad altre straordinarie “madri del Sud” che dal dopoguerra ad oggi hanno messo di traverso il loro corpo contro il patriarcato, e per questo travisate o rimpicciolite dalle interpretazioni maschili.

Dice sua figlia Marilena nella nota di Una donna libera a lei dedicato: “Sappiamo poco o niente di cos’era veramente la vita delle donne quando adulterio e abbaondono del tetto coniugale erano reati, e il prete e il carabiniere prolungavano fuori casa il dominio del padre, del fratello, del marito”. Di quella zona grigia dal dopoguerra agli anni Settanta del Novecento, quando la Costituzione garantiva uguali diritti a tutti, ma costumi, tradizioni, leggi, poteri quotidiani, tenevano le donne in uno stato di sottomissione. Ne sappiamo poco perché quel potere era soprattutto sequestro di parola, di testimonianza e di memoria. E Una donna libera è l’autobiografia di un’invincibile ribelle, incapacace di concepire, prima che di sopportare un ruolo subalterno e disuguale per nascista e per sesso, la soppressione del proprio diritto di parola

La sua è una presa di parola politica e personale e riempie un vuoto, tiene a sottolineare Maria Rosa Cutrufelli al Convegno del 5 novembre. Un libro non molto letto, né accolto come doveva essere, confermando il pregiudizio che pesa su di esso. Racconta di sua madre, nata povera, vissuta povera, come lei, che non aveva mai attraversato lo Stretto di Messina, e quello di Maria è prima di tutto un attraversamento simbolico. L’accompagnano i suoi compagni anarchici; il Noi è la comunità politica di cui Maria racconta la generosità e anche le tante viltà. Narra di un’autodidatta nata in un ambiente in cui alle donne “mancava persino la forza di gemere”, diceva il siciliano Borgese. La sua vita è un eterno peregrinare: si ferma solo a Roma a causa della malattia e dove morirà nel 1996 a 75 anni. Antimilitarista sempre, manifesta contro le donne militari, raccoglie firme rivolte a Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Negli anni Ottanta è a Comiso, a manifestare contro l’installazione dei missili. Aveva nel frattempo incontrato il femminismo. In Una donna libera fa riferimento a un convegno femminista del ’77 e scrive: “In quegli incontri non trovai l’ardore. Il femminismo romano di Effe è anemico”. Mentre lei prima di andare a dormire amava guardare le stelle. Il continuo tornare al suo vissuto è un tentativo di tornare al sé e di essere riconosciuta da sua figlia. (Gisella Modica)

Fu l’ex prete Pietro Angarano, divenuto suo compagno, e con cui rimase per sette anni, a spingerla a scrivere. Per Maria la scrittura diventa catarsi, vi è una perpetua ricerca del sé, un’estensione del suo corpo nella scrittura, un suo stare in presenza del mondo, un sapere del dolore degli altri, essere vicina agli ultimi, ci ricorda ancora Gisella Modica. Autrice anche di racconti – Il carrubo e altri racconti (1993) e di poesie. In tutta la sua produzione sono sempre presenti le origini e conservate ovunque andasse. La sua poesia, ricorda la scrittrice Maria Attanasio, non resta mai relegata al suo io, ma si fa respiro del mondo, dettate dall’urgenza del suo sguardo.  Si fondono in essa l’io e il mondo, la bellezza e la giustizia, l’impegno motivato da una forte urgenza e il sentimento. Persino la sua disobbedienza non nasce da un’occasione ma dal sentire. “Ovunque fosse nata, sarebbe stata disobbediente”.

 

VOCI – Incursioni nella poesia contemporanea

 

a cura di Gabriella Grasso

 

Michele Nigro – Pomeriggi perduti, Kolibris, 2019

 

Acqua di ritorno 

Adorava i temporali

estivi, tra sprazzi e lazzi

erano meme bagnati

su gambe scoperte

alla sua natura autunnale

dimenticata tra eccessi di

sole e promesse di viaggi.

Ora le campane chiamano

all’ordine di civiltà domenicali e

tuoni ribelli e grondaie impreparate

ad acque inattese alla vita ormai persa

che scorre nel mare calmo

della morte che accoglie,

sperando di ritornare

giovane umidità

e nuvole

e di nuovo pioggia

tra i vivi di domani

 

*

 

Poesia a sua insaputa 

Non sarà ora che le vedrai

mentre ti chiedo di leggerle

ma in un giorno qualunque

venute fuori per caso, a dorso di libro

da pagine cadute in terra

riverse a mo’ di mort’ammazzati

e aperte sulla fatalità

di un attimo tra tanti,

ritornerai su parole ignorate

come è normale che sia

da rimasticare

eppure sempre presenti

tra pazienze impolverate

e le cose da fare

senza pretese, a sperare di essere

se stesse, nient’altro che verbi d’anima

amate per quelle che sono

umili

silenziose

già eterne a loro insaputa.

 

*

 

Palestra di vita 

Non credo più nei riti

musicati del fitness

effimeri miracoli

in mostra al sabato sera,

il corpo modellato

dalla vita

dal dolore ben portato

da scelte coraggiose

a lungo andare incise

lì dove conta,

mappe graffiate sul volto

nel timore di perdersi

tra le vie

di una finta bellezza,

è come un libro

letto e riletto, unto, macchiato trascritto,

abbandonato strappato,

da qualcuno amato sottolineato

sfogliato dal vento

di nuove avventure

che sommate alla storia di altre pelli

cadute e rinate intaccano inattese

l’adipe convinta

della premorte in divano.

Siamo tutto quello che viviamo,

e la carne

in silenzio

lo sa.

 

 

 

 

Roberto Crinò Ineffabile mutazione, Ensemble 2019

 

E’ tuo dovere

E’arrivata

la bella stagione

l’ho vista passeggiare

stamattina

baciata

dal sole e dalla leggerezza,

teneva in un lembo

di stoffa,

dondolava, saltellava,

libera, incantevole

com’è suo costume,

sapeva di frutti

promesse,

profumava di gioie,

speranze.

Stamattina la vita

s’è cambiata d’abito

per celebrare

un nuovo inizio.

Mi hai guardato,

un sorriso,

mi ha detto

“E’ tuo dovere”

 

*

 

Check Point 

L’anima ha una linea di confine

una linea di demarcazione,

una frontiera che non può

essere oltrepassata a piacimento,

perché essa non è terra di conquista.

 

Nessun’anima è suolo di calpestìo

per saccheggiatori e vandali

e non è colonia di eserciti

dalle scintillanti fallaci armature.

Si passa solo con trattati di pace.

 

Ugo Mathuè Il silenzio non tace, Ensemble, 2019

 

c’è l’assenza di peso

d’ogni passata stagione

 

calendario di atti

unici come ogni atto

 

c’è il loro greve sipario

sceso senza discrezione

 

*

 

infiniti sono gli dei

infinito è il disamore del mondo

 

*

 

il mio miglior nemico sono io

io che mi do del tu

 

*

 

dimmi tu da cosa sono preso

forse da senile spreco del vivere

oggi che mi sento stranamente febbrile

 

*

 

terza quintetà

seduto su una sedia

guardava il passato

senza esserne ricambiato

 

Nunzio di Sarno – Mu (Oèdipus edizioni 2020)

 

Rimetto ogni immagine

Al vuoto

 

Perdono

 

Nel vuoto mi perdo

Non un dono che perdo

 

*

 

A una procidana 

Il mare

Del primo contatto

A cui non posso

Che ritornare

Lo trovo in un particolare

Mio palpitare

Al di là di spazio e tempo

E ciclico incespicare

Come ciò che ci lega

E non si può

Tagliare

 

*

 

Capodanno 

Spaghetti di riso

Verdura e spigola

In piatti vecchi

Su una tovaglia

Stinta

 

Ancora

Malesseri condivisi

Di una famiglia nuova

E un fratello acquisito

A compartire

 

Soli

In quattro stanze

Chi cerca di risplendere

Chi di non morire

Solo

 

Ognuno

A disagio con la forma

Si accosta cauto

Al fuoco

 

Chi si accontenta del calore

Chi si abbaglia alla luce

 

Pochi

Disposti

A bruciare

Avranno

In cambio

Cenere

 

 

 

 

ANJA  E  FËDOR

di Francesco Cocorullo

 

Tutto iniziò il 3 ottobre 1866. Quel giorno, come sua abitudine, Anna Grigòr’evna Snitkina andò a seguire la lezione di stenografia del professor Ol’chin, uno dei migliori insegnanti del sesto ginnasio maschile di Pietroburgo, del quale lei stessa era tra le allieve più valenti. Aveva venti anni. Non appena prese posto nell’aula, prima dell’inizio della lezione, l’insegnante le si avvicinò: “Anna Grigòr’evna” disse “per caso accettereste un lavoro di stenografia? Mi hanno incaricato di trovare uno stenografo ed ho pensato a voi”. La domanda spiazzò completamente la ragazza, che pur sognando di trovare un’occupazione, ammise di non avere una velocità eccessiva di stenografia temendo di scontentare quindi il potenziale committente. Il professore, tuttavia, la rassicurò sulle sue capacità, invogliandola ad accettare l’offerta; fu allora che Anna chiese chi fosse lo scrittore per il quale avrebbe dovuto stenografare. “Dostoevskij” rispose Ol’chin. “Sta lavorando ad un nuovo romanzo, il compenso sarà di cinquanta rubli”.

Sentendo il suono di quel nome, la giovane ebbe un sussulto. Si trattava dello scrittore preferito di suo padre, ed anche a lei piaceva molto; aveva letto le Memorie di una casa morta e si era commossa fino alle lacrime; timorosa ed allo stesso tempo emozionata, accolse la proposta e ricevette dal professore un piccolo foglietto ripiegato in quattro parti, sul quale vi era vergato “Vicolo Stoljàrnyj, angolo Màlaja Meschanskaja, casa Alonkin, appartamento nr. 13, chiedere di Dostoevskij”. L’insegnante le chiese di recarsi l’indomani all’indirizzo indicato, esattamente alle undici e mezza, né prima né dopo. Poi salì in cattedra e cominciò la lezione. Mentre parlava, Anna non riuscì ad ascoltare nemmeno una parola, persa nel baluginio di emozioni che provava. La sua mente volava all’imminente incontro con un monumento del calibro di Dostoevskij, ed al modo in cui avrebbe dovuto rivolgersi a lui, oltre alla paura di non ricordare i personaggi dei suoi romanzi.

 

Il giorno seguente, all’ora stabilita, giunse al luogo dell’appuntamento, non prima di aver acquistato una scorta supplementare di matite, fogli, e di essersi vestita in modo da sembrare un po’ più grande dei suoi venti anni; annunciandosi alla cameriera che aprì la porta, fu fatta accomodare in una grande stanza con due finestre, un divano rivestito da una stoffa marrone, ed un tavolo ricoperto da un panno rosso: era lo studio di Fedor Michajlovic, e dopo qualche istante di attesa apparve lui in persona. Al muro un quadro raffigurava una donna ossuta vestita di nero. Il grande scrittore le si sedette accanto e, scusandosi per l’attesa, iniziò ad interrogarla sulle sue competenze stenografiche, chiedendole informazioni circa il corso che frequentava e da quanto tempo lo seguiva. A prima vista, ad Anna parve piuttosto vecchio, statura media, portamento eretto, capelli impomatati con cura, ma ciò che più colpì la ragazza di quel primo incontro fu lo sguardo del genio moscovita: aveva degli occhi molto strani, diversi l’uno dall’altro. Uno castano, mentre nell’altro la pupilla era talmente dilatata da non far vedere più l’iride; tale differenza conferiva al suo sguardo un’aria strana, enigmatica. Fedor Michajlovic: durante una violenta crisi epilettica, cadde ferendosi gravemente ad un occhio. Per curare la ferita, gli furono prescritte le gocce di atropina, responsabili della dilatazione marcata della pupilla. Altri dettagli che colpirono Anna al primo incontro furono il colorito pallido e malsano del volto, la giacca consunta, che collimava con una camicia candida e pulita; mentre parlava, lo scrittore camminava nervosamente per la stanza, fumando sigarette a catena e cambiando frequentemente argomento, rendendo quindi difficile per Anna seguirlo nei suoi discorsi. Proprio questa stranezza diede alla ragazza l’impressione che la collaborazione con Fedor Michajlovic non avrebbe avuto luogo nella maniera sperata; tuttavia, lo scrittore volle concedere alla giovane stenografa l’opportunità di lavorare per lui, e le propose una prova, dettandole un racconto, per valutarne le capacità. Poco prima di congedarla, si rallegrò del fatto che Ol’chin gli avesse mandato una donna invece di un uomo: “se fosse arrivato un uomo” le disse “certamente avrebbe iniziato a bere, e voi di certo non bevete”.

 

Cominciò così un sodalizio artistico sensazionale che porterà in soli trenta giorni alla conclusione del romanzo Il giocatore che Dostoevskij doveva terminare per onorare il contratto capestro stipulato con l’editore Stellovskij (un nuovo romanzo oppure la cessione perpetua dei diritti d’autore al suddetto Stellovskij). Anna Grigòr’evna diventerà non solo la fidata collaboratrice di Fedor Michajlovic ma soprattutto la sua seconda moglie: si sposarono il 15 febbraio 1867, quattro mesi dopo la loro conoscenza. Viaggiarono per l’Europa, vivendo all’estero i primi anni di nozze e toccando anche l’Italia: Anna cercò di allontanare il marito dal demone del gioco d’azzardo, e soprattutto gestì la situazione economica della famiglia, all’inizio estremamente precaria, dimostrandosi una persona molto intelligente ed in gamba. La coppia ebbe quattro figli: Sofia (1868, vissuta solo tre mesi), Ljubov’ (1869-1926), nati durante gli anni trascorsi all’estero, e, dopo il rientro in patria, Fedor (1871-1922) e Alexej (1875-78).

 

In seguito alla morte di Dostoevskij nel 1881, Anja (come affettuosamente la chiamava il marito) non volle più sposarsi e trascorse il resto della sua vita nel ricordo del geniale consorte, rispondendo in questo modo a coloro che le chiedessero come mai non si risposasse: “chi mai potrei avere dopo Dostoevskij? Forse Tolstoj, ma è già coniugato”. Morì a Jalta nel 1918 e fu sepolta nello stesso cimitero dove riposa l’autore dei Fratelli Karamazov, il Tichvin di Pietroburgo, a poca distanza da lui.

Lucia Sánchez Saornil. Un’anarchica femminista nella Spagna del secolo scorso

 

di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Lucia Sanchez Saornil

 

 

“L’archivio parla di “lei” e la fa parlare. Motivato dall’urgenza un primo gesto si impone: ritrovarla come si recupera una specie estinta, una flora sconosciuta, abbozzare il ritratto come per rimediare a una dimenticanza, consegnarne le tracce come si espone una morta”.

E’ con questa citazione di Arlette Farges, Il piacere dell’archivio, che si apre il saggio della giovane studiosa Michela Cimbalo, Ho sempre detto noi. Lucia Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile. (Viella, 2020). La storia di questa donna è magnetica e affascinante. Militante anarchica, femminista, sindacalista, fondatrice di Mujeres Libres, attiva durante la guerra civile, poeta, intellettuale autodidatta, cantadora dell’amore libero e omesessuale. Lucia è stata tutto questo. Così vero che in un  viale del Cemeterio General di Valencia, un gruppo di donne si riunisce ogni anno con mazzi di fiori, pugni chiusi e bandiere anarchiche, intorno a una lapide di pietra grigia sulla quale è incisa la frase: “Ma è vero che la speranza è morta?”. Negli ultimi anni l’interesse verso Lucia Sánchez si è fatto sempre più vivo e ha prodotto documentari, video, studi, tra cui quello di Michela Cimbalo, un testo che non si limita a ricostruire la sua vita – nata nel 1895 e morta nel 1970 – ma anche il contesto storico e culturale della Spagna del ‘900 e in particolare la condizione delle donne spagnole che non è molto diversa da quella delle donne italiane.

Lucia nasce a Madrid da una famiglia povera in un edificio basso, altrettanto povero, posizionato in cima a una strada ripida che scende dal paseo di Embajoderes, nella periferia sud. Rimasta presto orfana di madre, si deve far carico del padre e della sorella malata, ma non smette di leggere e studiare, tanto da iniziare a scrivere poesie e pubblicarle su un modesto settimanale, e a poco più di vent’anni diventa l’unica donna dell’ ultraismo, avanguardia aperta al futurismo e al dadaismo. Della sua poesia si è occupata Rosa María Martin Casamitjana attratta, nello studiare il movimento diffuso negli anni Venti in Spagna e in Argentina da Borges, da Lucia, unica tra tanti uomini a far parte dell’ultraismo. La giovane ricorreva a uno pseudonimo maschile, Luciano De San Soar, per firmare le sue poesie. Da dove viene la scelta di firmarsi con un nome maschile? Probabilmente per ottenere credito negli ambienti letterari, ma forse anche perché Lucia era omosessuale.

Lo testimonia sin da giovane il suo abbigliamento, il taglio dei capelli, e in seguito le sue scelte sentimentali: durante il periodo dell’esilio dopo la caduta della Catalogna nel 1939, vive con Ameríca Barros, detta Mery. Lucia e Mery si erano conosciute nel 1937 e non si sono più lasciate per tutta la vita. I parenti di Mery hanno accolto Lucia come una di famiglia, anche se per molto tempo la sua omosessualità viene sottovalutata da chi la studia: perché Lucia sembra avesse sempre mantenuto una certa discrezione sulla sua vita privata. Eppure i suoi versi sono ricchi di esplicito desiderio per il corpo femminile, le piace giocare con l’identità di genere e alludere alla propria sessualità “dissidente”in un’epoca in cui l’amore tra donne era visto come una malattia o una perversione.

Negli archivi esistono tracce deboli di Lucia Sánchez, eppure, tra vecchie riviste, fonti di polizia di più paesi, volantini e produzioni cinematografiche, corrispondenze di esponenti del mondo dell’anarchismo internazionale, spuntano i tracciati delle sue molteplici attività:

“Ogni tassello che si aggiunge alla ricostruzione della sua vita apre scorci su altre storie, su vicende talvolta sconosciute, in cui micro e macro si intrecciano, ponendo nuovi interrogativi e curiosità” (MichelaCimbalo, Lucia Sánchez cit., p. 15).

Lasciata l’attività e gli ambienti letterari alla fine degli anni Venti, si dedica anima e corpo al movimento anarchico militando nella Cnt (Confederación Nacional de Trabajo), il sindacato più potente di Spagna. Tiene lezioni per i lavoratori, scrive per la stampa anarchica tanto da entrare negli anni Trenta nella redazione del quotidiano nazionale del sindacato, anche in questo caso unica nel collettivo tutto maschile. Convinta sostenitrice della necessità di un’azione rivoluzionaria che abbattesse il sistema capitalista, avversa a ogni forma di potere statuale,  riteneva, come già Alexandra Kollontay in Unione Sovietica, che per giungere a una trasformazione radicale della società andava portato avanti un profondo cambiamento del rapporto tra i sessi, bisognava sovvertire lo status quo che teneva relegate le donne in un’intollerabile posizione di subalternità.

Nei suoi scritti Lucia affronta il tema del matrimonio, critica la doppia morale mai cancellata dall’aspirazione libertaria all’amore libero, afferma che la maternità rappresenta una delle tante possibilità di scelta per le donne e non un imperativo legato al destino biologico: una tesi avversata anche negli ambienti anarchici: “Una donna senza figli è un albero senza frutti, un rosaio senza rose”, sosteneva Federica Montseny.

E da queste premesse che nel 1936 nasce Mujeres Libres fondata da Lucia Sánchez, Mercedes Camoposada e Amparo Poch, insieme a una rivista dallo stesso nome. L’organizzazione femminile non è una sezione femminile per garantirsi il voto delle donne introdotto in Spagna nel 1931, ma fortemente autonoma, conduce le sue battaglie per la libertà e pratica un femminismo proletario e di classe, senza staccarsi dai principi dell’anarchismo. L’organizzazione composta di sole donne, arriva a contare più di 20.000 aderenti . Si prefigge sia l’intento di sostenere il fronte repubblicano, sia gli esperimenti rivoluzionari e le battaglie per l’autodeterminazione delle donne, doppiamente sfruttate, come lavoratrici, e in quanto donne. Da segretaria e redattrice della rivista, Lucia conduce le sue battaglie con articoli, reportage dal fronte, programmi radio, fino a diventare nel ’37 segreteria della Società Internazionale Antifascista. Creata dalla CNT per sollecitare all’estero aiuti e solidarietà.

Nel 1939, dopo la vittoria di Franco, anche Lucia deve intraprendere insieme ad Amėrica (Mery) Barroso la via dell’esilio, in Francia dove l’aspetta l’ostilità di un governo che disperde gli esuli in vari campi di concentramento. Nel ’42, dopo la minaccia di essere deportata nella Germania nazista decide di ritornare clandestinamente in Spagna, dove lei e Mery conducono una vita di difficoltà e privazioni rischiando di continuo di essere arrestate in quanto anarchiche, repubblicane e lesbiche.

Accolte nella casa di Valencia della famiglia Barroso si guadagnano da vivere con lavori modesti, confezionando retine per capelli, lavorando per un laboratorio di fotografia, finché Mery non viene assunta al consolato argentino e Lucia si inventa pittrice di ventagli. Sono di questo ultimo periodo le sue poesie più belle che rivelano il desiderio di non arrendersi, differenti da quelle del periodo ultraista: sono in parte raccolte in un volume curato da Rosa María Martín Casamitjana (Pre-Textos, 1996) in cui emergono le paure, i dubbi, la malattia, la sconfitta, mai la negazione di tutto ciò in cui ha creduto.

Sempre ho detto “noi”.

E la parola aveva l’ampiezza del coro

suonava come un organo dai mille registri.

Noi era una moltitudine

di calde mani tese,

pane condiviso

guanciale accogliente;

era un cuore unanime:

l’intescambio di lacrime e sorriso.

Era un campo di spighe

Che il vento inclina in una sol direzione

-ogni lettera una goccia di umanità profonda –

dire “noi” era consumare un vino

Di cordialità fino all’ubriachezza.

 

Veleni palermitani ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov

 

Di Antonina Nocera

Nel capitolo XXIII del  romanzo di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, quest’ultima, dopo aver  incontrato Woland, ricevuto il battesimo satanico,  conosciuto i suoi comprimari, il grottesco Begemoth con i suoi travestimenti  e le sue risate sardoniche, Korov’ëv e  Azazello,  viene invitata a una festa di ballo cui prendono parte personaggi eccentrici e a dir poco inquietanti. Questi si muovono all’interno di uno scenario che sfida ogni legge della verosimiglianza: uomini in frac  e donne in abito da sera che spuntano dalle cenere, nobiluomini coinvolti in curiose storie di avvelenamenti. Tra questi spicca una donna:

A Margherita stava accostando, zoppicando con uno strano stivale di legno sulla gamba sinistra, una signora con gli occhi bassi come una monaca, magrolina , ritrosa,  e per un qualche motivo, con una larga fascia verde al collo. Chi è questa…verde?  Domando macchinalmente Margherita. «Una signora incantevolissima e posatissima, » gliela presento: la signora Tofana. Era estremamente popolare tra le napoletane giovani e graziose, e anche tra le abitanti di Palermo , e in particolare tra quelle che si erano stufate dei loro mariti.  [….]

Così, dunque,  la nostra signora Tofana entrava nei panni di quelle poverette  e vendeva loro una certa acqua in boccetta. La moglie versava  quest’acqua nella minestra del marito , quello se la mangiava, ringraziava per la gentilezza e stava benone, Vero è che alcune ore dopo gli veniva una gran voglia di bere, poi si stendeva a letto, e il giorno dopo la splendida napoletana che aveva dato da mangiare al marito la minestra era libera come il vento di  primavera»

Quando  mi sono imbattuta in questo brano, ho cominciato a intrecciare una serie di associazioni mentali: Palermo…acqua tofana, l’avvelenatrice. Era chiaro che il riferimento bulgakoviano aveva smosso una casella della memoria. Mi è subito balenata un’espressione popolare palermitana usata  nei confronti di donne machiavelliche e avanti con l’età, di aspetto sgradevole :a vecchia r’acitu”, tradotto “la vecchia dell’aceto”. Somigliare o essere paragonata alla vecchia dell’aceto, insomma non era proprio un complimento, anzi un’ingiuria.

Da piccola mi chiedevo chi potesse essere questa signora che immaginavo piegata in due, con un bastone a sorreggerla, un naso bitorzoluto, una gonna lunga e logora e in mano una boccettina di aceto, di cui però ignoravo la funzione.  Da grande venni a scoprire  che la figura di questa donna era legata a una leggenda ben precisa che rientrava a diritto nei “cunti” della Palermo  misterica, quella sotterranea  di cui oggi sono visibili le tracce nelle carceri segrete, nei luoghi dell’inquisizione, nei vicoli , nei selciati che ancora oggi di notte si screziano alla luce gialla dei lampioni della città antica.  Non viene difficile immaginare la vecchia dell’aceto aggirarsi per le strade del Cassaro, di via Maqueda e dei Quattro canti. Prima di Luigi Natoli, della vecchia ci parla Antonio Linares, scrittore agrigentino nato nel 1804,  in una novella dal titolo : L’avvelenatrice  del 1836.

Giovanna Bonanno, la “vecchia dell’aceto”

In questa novella la protagonista è lei Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice, autrice della famosa acqua tofana una mistura di acqua e arsenico che  veniva utilizzata per avvelenare i mariti delle donne oppresse da gelosie, prepotenze, violenze  Erano tempi di cambiamento, alla fine del ‘700, Napoli e Palermo capitali del regno delle sue Sicilie, si portavano ancora dietro i segni di un governo autoritario e centralista in cui i vecchi baroni spadroneggiavano a piacimento nelle città. Nonostante ciò,  l’Inquisizione ancora mieteva vittime: le fattucchiere e le maliarde come Giovanna Bonanno venivano punite con la morte.  Nella novella, una giovane fanciulla, angosciata da un fidanzato gelosissimo fino alla paranoia, si reca disperata presso l’abitazione della vecchia dell’aceto: “. L’età sua pareva quasi cadere col secolo  che allora era giunto all’86 , di sembianze orride, del colore del rame, con occhi incavernati e rossi come bragia.” A lei toccherà in sorte la boccetta magica.

 Giovanna Bonanno fu giustiziata in piazza Vigliena, oggi Quattro canti, nel luglio 1789. 

Resta da capire come questa leggenda abbia varcato il tempo e lo spazio e sia giunta alla lettura di Michail Bulgakov che la recupera e la rigenera artisticamente nella scena del ballo satanico. Il russo venne a contatto con la leggenda più antica, quella risalente a Tofania d’Adamo, antecedente napoletana,   considerata la prima inventrice della formula, ripresa dalla bella  e giovane nipote Giulia. Questa prima versione fu ritrovata  nel Dizionario enciclopedico Brockaus-Efron, (Энциклопедический словарь Брокгауза и Ефрона) che riporta  la voce Ackva Tofana  (Acqua tofana)

In Europa la leggenda era nota a Stendhal e Dumas e molto probabilmente Bulgakov ne venne a conoscenza grazie ai suoi interessi di medicina e soprattutto agli studi di demonologia che si svilupparono dagli anni venti in Russia e che il padre, Afanasij Ivanovič Bulgakov, eruditissimo uomo, dottore in teologia,  apprese a sua volta da Jankovič, esperto di magia e leggende popolari.

Da lì a  Palermo fu un volo, come quello magico di Margherita.

 

L’amore che canta. La poesia di Lucianna Argentino

 

 

di Gabriella Grasso

Un’esperienza così pervasiva come l’incontro d’amore genera poesia in forma di canto, rendimento di grazie, lode. E’ quello che avviene nel penultimo ultimo lavoro di Lucianna Argentino, autrice romana, dal titolo In canto a te, edito per Samuele Editore nel 2019. Canto, amore e dono sono, del resto, realtà legate a doppio filo, come ci indica Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso: “ Ciò che io dono cantando è al tempo stesso il mio corpo (attraverso la mia voce) e il mutismo di cui tu ti servi per colpirlo. (L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare). Il canto non vuol dire niente: perciò tu sentirai che finalmente io te lo dono; inutile quanto può essere il filo di lana o il sassolino che il bambino porge alla madre”.

L’incontro da cui scaturisce il canto di Lucianna Argentino è quanto mai singolare, poiché avviene tra un uomo e una donna che avevano vissuto una relazione negli anni dell’adolescenza, si erano poi persi di vista, per ritrovarsi in età matura, disorientati, sgomenti dalla forza che il loro amore possiede ancora intatta. Ne nasce un testo composito, in versi nella prima parte (con qualche pagina di prosa), con andamento narrativo nella seconda, dal respiro ampio, arioso, denso di riferimenti biblici e letterari, tessuti in un ordito personalissimo, struggente, evocativo di un’esperienza interiore profonda. Corpo, mente e spirito sono coinvolti, in modo indistinguibile, in un flusso che ha i tratti di un iter mistico e di un’esperienza totalizzante, a cui, nonostante le resistenze iniziali, è impossibile opporsi.

Tutta la scrittura di Lucianna Argentino dialoga con le Sacre Scritture, non solamente negli inevitabili echi del bellissimo Cantico dei Cantici, ma nel costante richiamo a precisi campi semantici o a episodi evangelici: da un lato parole come “agnello sacrificale”, “tempio”, “offerta”, “aspersorio”, “gazzella occidentale”; dall’altro la rivisitazione delle Beatitudini alla luce della relazione d’amore, l’immagine di lei sulle spalle di lui, come Zaccheo sul sicomoro, o lei che tocca un lembo dei vestiti di lui, come nell’episodio dell’emorroissa. Ancora una volta, l’idea sottesa è quella del contatto come occasione di guarigione, di crescita: “Toccami / ricreami l’anima con le tue mani”.

Altre volte il richiamo al codice della preghiera diventa occasione quasi di un capovolgimento di segno, come nella “parafrasi” sensuale dell’Atto di dolore, assurta a rivendicazione del diritto alla felicità dell’amplesso: “Non mi pento e non mi dolgo del puro peccato / commesso tra le sue gambe di maschio / capace di farmi tenera e audace”. Non mancano, infine, suggestioni pagane in immagini forti: “ Strega folle brucio sul rogo del suo corpo / sfavillo felice sotto il crepitìo delle sue mani”.

Siamo nella festa del “desiderio goduto”, come lo definisce ancora Barthes: “così come avviene nel canto, nel proferimento dell’io-ti-amo, il desiderio non è né represso (…), né riconosciuto (…), ma semplicemente: goduto”. La duplice – ma, a pensarci bene, non contraddittoria – natura dell’amore è espressa del resto sin dalla scelta dei due esergo, che citano Goliarda Sapienza e la mistica Angela da Foligno.

Un’altra direttrice su cui si muove la riflessione dell’autrice è quella dello spazio-tempo, dilatata e allo stesso tempo annullata dalla dimensione dell’attesa, quell’attesa feconda, non sterile, che prepara all’incontro profondo: “ (…) offro in sacrificio la decima del mio coraggio / per il riemergere di lui dalle carni /– dannazione e salvezza – / a testimonianza dell’indivisibilità di spazio e tempo / per me che l’ho aspettato / confidando di conoscere la mia verità attraversando la sua. / Guardando negli occhi gli occhi opachi del suo passato, / mentre mi cresceva lontano, ma già veniva, già si avvicinava. / Ma non finiva – mai finita – / l’attesa di lui che mi possiede”.

La seconda parte, denominata “Il poema della luce (o il teorema della ricorrenza)” svolge, in versi lunghi dal tono narrativo, il tema dell’incontro tra gli amanti, che saldano la “slogatura del tempo” e si comunicano – in un dialogo intimo che avviene con se stessi, prima ancora che con l’altro – dubbi, remore, aperture, consapevoli della gravità del passo: “qualcuno ne soffrirà, si disse”.

Lo slancio passionale e mistico della prima parte qui si compone in una conversazione vibrante, sussurrata, in riflessioni che spingono l’uno nelle braccia e nella vita dell’altra: “Si confidarono dal margine di quella stagione accesa dal destino o fu questo, colluso col divino, a cambiare la loro linea d’universo? Lascia andare il rimpianto, lascia che cresca lontano da noi e poi torni e di noi faccia corpo materno, le disse lui, pensando a quante soglie non attraversate penavano il loro nitore, orfane di passi”.

Non c’è  spazio per paure e ripensamenti: l’amore diventa occasione di vita, cammino di conoscenza di se stessi, dell’altro, del mistero dentro ogni personale percorso. Sarà scoperta di una sensualità ancora vivida, feconda di fantasie e di frutti da offrire all’amato; scoperta di quell’audacia che genera libertà e costruisce sapienza. Sarà coscienza felice della propria e altrui fragilità, da scambiarsi tra amanti, come il dono più bello, “perché ne nasca una parola prima della parola – la rincorsa del cuore – lo sperpero del sangue – l’esercizio dei sensi”.

 

 

Alcuni testi

 

Dalla prima parte

C’è voluto tutto il tempo e una gelosa cura

perché il giorno in lui trovasse la sua voce

e una grazia acerba lo battezzasse col suo vero nome

vero sì, ma distante ancora.

Ancora nell’avvenire, ancora dove lo vorrei

pelle del mio abisso e di sconfinati dubbi pregarlo:

toccami, ricreami l’anima con le tue mani,

il corpo con il tuo sguardo; rendimi il tuo genitivo

di pertinenza, cambiami la desinenza.

 

*

 

Metto la mano sinistra sul suo petto

giuro che sarà sempre verità

l’amore cresciuto nell’attesa,

dall’attesa redento.

E sento gentile il gesto del nostro amarci

se per noi più dolce è il tempo

privo dell’affanno del fare:

tempo ordinario, senza freccia,

così commutano in noi vita e passione

e il raggio verde di questa luce mite

è soltanto l’aurora.

 

*

 

Io sono l’agnello

e lui la lama cui offro il collo

il coltello per il sacrificio

a un dio che dimora nel mio ventre.

 

*

 

Dopo, quando nudi e abbracciati

non so dove finisco io e comincia lui,

il battito del cuore è silenzio

che prende lezioni di dizione

dal corpo stupefatto.

 

*

 

Pensami vicina

come un sentiero

sciolto dalla meta

buono per i lombrichi e le api

e per i passi di angeli

senza annunci.

Ora che sono per te

colei che moltiplica

e ho l’andamento

dei verbi all’infinito.

 

 

*

 

Non hanno lettere le parole

che le sue mani tracciano sul mio corpo.

Sono fuoco aria acqua terra elementi primi

di ciò che nasce e si separa

– quadruplice radice di ogni pensiero

che in noi si fa carne incorruttibile

e gioca con la sana imperfezione del tempo

– noi sfera dell’universo in espansione

nella materia oscura del nostro domani.

 

*

 

Non mi pento e non mi dolgo

del puro peccato commesso

tra le sue gambe di maschio

capace di farmi tenera e audace –

mai docile sotto l’aspersorio

con cui benedice e lacera la passione

che di lui avvince me

che dal suo corpo torno

come il grano dopo la trebbiatura.

 

*

 

Geometria non euclidea

 

E non è bastato toccarsi, abbracciarsi, c’era la gravità del vuoto a inter-ferire sulla superficie curva del cuore dove la geometria euclidea non s’avvera e il primo postulato enuncia che l’amore è la distanza più breve tra due solitudini, ma solo se sanno di esserlo. Solo se non stanno l’una di fronte all’altra come semplici presenze, ma si riconoscano mistero nella reciproca ospitalità.

 

 

Dalla seconda parte

 

Che dici è grave se ti penso? le scrisse lui. Spero di no perché ti penso anch’io, gli fece eco lei sgomenta dei cigolii sospetti nella struttura intera della sua biografia.

 

*

 

Alle spalle di lui le folaghe nel lago mescolavano luce e acqua, ne facevano un’unica sostanza e lei assaporava la bellezza di quella danza in accordo con quanto le vibrava dentro. Qualcuno ne soffrirà, si disse.

 

*

 

Lascia che io dimentichi ciò che senza noi non è stato, veglia sul mio sonno e poni rimedio al danno, pregò lui il dio degli incompiuti. Ti aiuterò a dimenticarlo, ma non te lo lascerò scordare, offrì lei il suo corpo terreno per la cova di quel miracolo (…)  Aggiungeremo giorni ai calendari, moltiplicheremo i pani e i pesci della nostra devozione, ci basterà una fede piccola quanto un seme di sesamo, disse lei sporgendosi nel verde degli occhi di lui.

 

*

 

s’avviarono così, con una corrente di risacca alle caviglie, lungo un’altura ancora senza nome ma, istante dopo istante, battezzata da una luce futura e in quel cammino di poco lui la precede e senza guardarla le tende la mano.

 

 

 

Tre domande a Lucianna Argentino

 

Quanto dell’esperienza biografica dell’autore è presente in un’opera come questa e quanto la trascende?

In “In canto a te” c’è molto della mia esperienza biografica così come c’è anche negli altri miei libri perché credo che non si possa prescindere da questa. Siamo esseri incarnati in un dato tempo storico, con una data storia famigliare, con un dato percorso di vita e quindi ciò che siamo non può restare fuori dalla poesia, vuoi anche solo per i temi trattati o per lo sguardo con cui guardiamo al mondo. La poesia penetrando a fondo nella realtà nostra, interiore, e in quella del mondo che ci circonda e che è in relazione con noi, la trapassa e trapassandola ne rivela l’essenza che a sua volta ne svela la bellezza. Ce ne offre un’ immagine nuova, inedita e la trascende in forza del suo stesso essere un gesto potente che del mondo e di noi ci mostra il volto più vero attraversandone tutte le ombre. Il nocciolo della questione direi che è più nel linguaggio attraverso il quale la nostra personale esperienza viene tradotta nella pagina e nel coraggio di penetrare nel profondo di sé stessi, là dove il nostro io incontra l’io collettivo – il noi del mondo. In “In canto a te” sono stata aiutata dall’amore perché anche l’amore, come la poesia, è uno spogliarsi di sé per raggiungere e accogliere l’altro. L’amore è un sentimento universale e unito alla parola poetica ci fa scendere nelle profondità dell’essere dove non c’è più distinzione alcuna tra noi e il mondo, tra l’io e il tu.  Inoltre, nonostante l’oggetto dell’amore sia un tu che ha un nome e un cognome, in fondo non è mai un tu ben definito, credo, infatti, che quando si scrive d’amore ci si rifaccia ad una immagine ideale dell’amato o dell’amata – o dell’amore stesso – che per questo diviene universale. L’amore e la poesia sono di per sé un trascendere.

 

Esiste una diversa esigenza (psicologica o di scrittura) a monte della scelta di distinguere formalmente le due parti del libro?

Le poesie e le brevi prose che compongono la prima parte del libro sono state scritte quasi tutte tra il 2014 e il 2015 quando ero nel pieno dello sconvolgente stupore che l’amore, la passione, avevano portato nella mia vita e dal quale la poesia sgorgava mio malgrado, per cui la scrittura non è stata un argine, ma uno spazio immenso e libero in cui quel sentimento ha trovato la sua piena espressione. “Il poema della luce” è nato dopo, con l’intento ben preciso di raccontare cos’era accaduto e ha ragione Daniele Piccini che mi ha detto che “Il poema della luce” avrei dovuto metterlo all’inizio perché in effetti è una sorta di prologo anche se cronologicamente è stato scritto dopo. Ma  la tensione psicologica e poetica è la stessa.

 

Possono l’incontro e la conoscenza nell’amore considerarsi una sorta di “itinerarium mentis in deum”?

Certamente sì! E certamente è un tema immenso che necessiterebbe di molte pagine. L’amore è un’esperienza travolgente e sconvolgente che come l’esperienza mistica ci può condurre all’estasi, ossia allo stare fuori di sé, all’uscire da sé stessi quindi può essere uno stare tutto nell’altro/Altro, un annullamento di sé per ritrovarsi nell’altro/Altro. Insito in esso c’è, infatti,  il desiderio di fusione con l’essere amato quasi per riappropriarsi della totalità che si perde nascendo. E il primo passo è la nudità, Marina Cvetaeva diceva che amare è vedere l’altro come Dio lo ha fatto e Dio ci fa nudi anche perché, come invece scrive George Bataille nel suo bel saggio “L’erotismo”, la nudità è uno stato di comunicazione e, aggiungo, di ricerca e di apertura alla totalità. L’amore è un percorso dentro noi stessi che sfocia inevitabilmente nell’alterità, è la promessa con cui rispondiamo al dono della vita. E io credo che quando si ama nella sacralità del corpo e del cuore l’io e il tu possono veramente essere il nucleo di un amore che si apre al “loro”, al “noi” perché siamo tutti dentro lo stesso mistero.

 

 

Claudia Salaris, Donne di avanguardia.

 

di Ivana Rinaldi

È da poco uscito in libreria Donne d’avanguardia, (Il Mulino2021) di Claudia Salaris, tra le più grandi esperte e studiose italiane di Futurismo, autrice di Storia del Futurismo (Editori Riuniti, 1985) e di Le Futuriste (Edizioni delle donne, Milano, 1982). In questo volume dava spazio alle letterate,  alle artiste, alle polemiste, fornendo un quadro della presenza femminile in uno dei più significativi movimenti di avanguardia dei primi anni Venti del secolo scorso. Una ricerca avviata con Pablo Echaurren, suo compagno di vita, appena usciti dai “fortunali” della politica per entrare negli “anni di piombo”. Dopo l’inasprirsi del clima, in seguito al rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro, racconta Salaris, trovammo nel privato e nella collezione di libri e documenti originali del futurismo la nostra zattera di salvezza.

Prese così le mosse una ricerca puntugliosa di tracce tra bancarelle, librerie antiquarie e visite ai protagonisti e alle protagoniste ancora in vita e ai loro eredi. Il risultato è la ricostruzione di numerose figure particolarmente emblematiche e su momenti di particolare discussione in cui le donne si sono pronunciate sui ruoli sessuali, la creatività e la politica. Reclamare il diritto all’espressione e all’affermazione della propria individualità, sostiene Salaris, non è secondario rispetto a quello del suffragio femminile. Il libro ci racconta di futuriste, ma non solo di loro, si concentra su esponenti del dadaismo e del realismo magico e non si limita a nomi già noti ma include nomi finora in ombra. Molte di loro erano state incluse nei lavori di Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Mario Verdone, Glauco Viazzi, e in un’ottica di riflessione di genere nei lavori di Giovannella Desideri, Anna Nozzoli, Simone Weller. E fu soprattutto la mostra L’altra metà dell’avanguardia di Lea Vergine che permise di lanciare questo tema (Milano, Palazzo Reale, 14 febbraio-18 maggio 1980).

L’apertura di femministe e studiose come Maria Caronia, Manuela Fraire, Elisabetta Rasy, fondatrici delle Edizioni delle donne e ancora Biancamaria Frabotta, poeta e femminista che dirigeva L’orsa minore e la rivista Memoria, permise la pubblicazione dell’antologia Le futuriste. Il movimento fondato da Marinetti era ancora argomento tabù in certi ambienti della sinistra. Donne d’avanguardia riprende dunque e amplia quel primo lavoro sulle donne futuriste arricchindolo di figure di donne che per il loro stile di vita, pensiero, creatività, hanno lasciato un segno nell’arte, nella letteratura, nella mentalità e costumi dei tempi, rompendo tabù, luoghi comuni, pregiudizi e silenzio.

un ritratto di Valentine de Saint Point

E qui impossibile ricordarle tutte. Accenno solo almeno alle più conosciute, prima fra tutte Valentine De Saint-Point, la prima futurista.

Non dimentichiamo che Filippo Tommaso Marinetti aveva inserito nei punti programmatici del Manifesto edito da Le Figarò il “disprezzo per la donna”, una dichiarazione scandolosa che suscitò immediate polemiche. Corso ai ripari, l’autore dichiarò che il disprezzo riguardava l’eterno femminimo come unica fonte di ispirazione letteraria e la visione ossessiva dell’amore a cui andavano soggetti i popoli latini. Sebbene l’affermazione di Marinetti potesse sembrare più uno slogan pubblicitario che una sua reale visione della donna, all’epoca si proiettavano due immagini: quella della femmina istintiva, priva di doti intellettuali, prossima alla natura, una concezione ampiamente diffusa nella cultura influenzata dal pensiero maschile, Arthur Scophenauer, Friedrich Nietzche, Paul Julius Möbius, Otto Weinenger, che ne calcola addirittura la carenza intellettuale in percentuali, fino a Karl Kraus; dall’altro quello dell’eterno femminino codificato dal pretrarchismo al romanticismo, fino a D’Annunzio.

All’inizio del Novecento, la francese Anne Jeanne Valentine Marianne Desglous De Cassiat- Vercell, nata a Lione nel 1875, in arte Valentine De Saint- Point, a Parigi conobbe il mileu della nuova cultura, rompe i canoni tradizionali con le sue poesia e la sua produzione letteraria enunciando un modello di donna sessualmente liberata. Di lei rimane Una donna e il desiderio, in cui mette a fuoco il tema dell’erotismo femminile.

Nel 1912, mentre i pittori futuristi esponevano a Parigi, Marinetti riuscì a convertirla al suo credo. Tra i due nacque una liason amorosa e Valentine concepì il Manifesto della donna futurista. Rispose a F.T. Marinetti, introducendo l’idea di femminilità e mascolinità, qualita di cui uomini e donne sono in possesso: “ogni superuomo (…) è composto da elementi femminili e da elementi maschili, cioè un essere “completo”. Confluivano nel testo le teorie dell’androgino di Péladon. E così, nell’individuare prototipi femminili antogonisti a quella della donna borghese, Valentine recuperava le eroine del mito e della storia: le Erinni, le Amazzoni, Semiramide, Giovanna D’Arco, Giudette Carlotta Corday, Cleopatra, Messalina, le guerriere che a suo avviso combatterono più ferocemente dei maschi. Il punto essenziale della sua analisi era rivendicare la liberta sessuale  per tutti: eterosessuali e omosessuali.

La difesa dell’omosessualità faceva parte di un sentire comune sia alla poeta che a Marinetti, che aveva già stigmatizzato la condanna a Oscar Wilde. Nel 1913 Valentine De Saint-Point era stata inserita da Apollinaire nel mileu dell’avanguardia internazionale con il suo manifesto L’antitradizione futurista.

Il primo nucleo di futuriste si costituì in piena guerra intorno alla rivista fiorentina L’Italia futurista (1916-1918), di cui l’animatrice è Maria Ginnanni, dove si riuniva un cenacolo di donne: Mari Carbonaro, Mina Della Pergola, Fanny Dini, Fulvia Giuliani, Magamal, Enrica Piubellini, Enif Robert, Rosa Rosà, tra le figure più significative, che si è espressa nella scrittura, nelle parole in libertà, nel disegno, nella ceramica e anche nella pittura. Di origine austriaca e nobile, il suo vero nome era Edith Von Hynau, frequentò i grandi artisti, Klimt, Beardsley, Toorop. In una crociera conobbe il giornalista italiano Ulrico Arnaldi che sposò trasferendosi a Roma. Durante la guerra, mentre gli uomini erano al fronte, Rosa Rosà scriveva: “Inutile ripetere che in questo istante milioni di donne hanno assunto- al posto di uomini – lavori che finora si credeva solo uomini potessero eseguire – riscuotendo salari che finora il lavoro onesto della donna non mai saputo ottenere”.

Alcuni  suoi temi anticipano il femminismo degli anni ’70. Tra le europee ricordo l’inglese Frances Simpson Stevens, trasferitasi a Firenze con il marito nel 1907, con il quale l’unione fini nel 1913. Rimasta sola con tre figli, usci dalla depressione frequentando il caffè le Giubbe Rosse, dove si riunivano Soffici, Carrà e lo stesso Marinetti. Le sue composizioni artistiche furono apprezzate da Duchamp, Man Ray, che la fotografò più volte, mentre lei ritrassse Brancusi, Freud, Joyce, Marinetti, Papini.

un ritratto di Eva Kuhn

Impossibile in questa cartografia delle donne che hanno rappresentato l’avanguardia non parlare di Eva Kühn, moglie di Giovanni Amendola e madre di Giorgio, il futuro dirigente comunista, di Růžena Zátková, signora X futurista, di Tina Modotti. Eva, nata a Vilnius in Lituania, era poliglotta: parlava russo, inglese, francese, tedesco e italiano.

Da giovane si innamorò di Schopenhauer che per lei divenne il vero maestro. Dopo i soggiorni a Londra e a Zurigo, vinse una borsa di studio con un saggio sul filosofo statunitense Henry Thoreau, il teorico della disobbidienza civile e della resistenza non violenta. Con questa somma si trasferì a Roma dove conobbe Giovanni Amendola, di estrazione sociale modesta. I genitori di lui impedivano il matrimonio e Eva soffrì di una brutta depressione che la contrinse al manicomio di Via della Lungara dove fu ricoverata per un anno, dal 1904 al 1905. Ritornata a Vilnius, Giovanni andò a farle visita, ma poiché la madre di lei, questa volta, non lo volle vedere ritendolo causa della depressione della figlia, i due giovani raggiunsero Berlino e poi Lipsia dove entrambi frequentarono un corso di filosofia. Finalmente tornati in Italia, Giovanni aveva trovato lavoro, poterono sposarsi. Nonostante la sua intensa vita familiare e due figli, Eva entrò in contatto con l’ambiente di La Voce e Prezzolini le offrì la traduzione di Dostoevskij, mentre Papini le affidò Schopenhauer. Tra le sue frequentazioni vi era Teresa Labriola, la femminista che più tardi teorica di un femminismo nazionalista, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo per cui il marito perse la testa. Eva divenne futurista con il nome di Magamal, nome che si rifaceva alla figura di un giovane guerriero africano di cui parla Marinetti in Mafarka il futurista. Scrisse Eva la futurista che non fu mai pubblicato, nel 1916 riuscì a pubblicare Velocità composto secondo la tipografia furista ispirandosi all’idea di simultaneità tra moto interno e moto esterno di Boccioni. Ormai anziana scrisse un inedito La pazzia e la riforma del manicomio a firma Eva Amendola, dove esprime la proposta di una riforma radicale delle case di cura, ovvero l’abolozione del sistema coercitivo dei manicomi.

Růžena Zátková è invece ceca, di Praga. Sposata con il nobile russo Vasilij Chvos̄o︣inskij, diplomatico zarista a Roma, fu amica e collega di futuristi italiani, Marinetti, Balla, Boccioni, Benedetta Cappa, Prampolini, per non dire del legame che la univa agli e alle intellettuali e artisti russi del suo tempo. Giovane pittrice, morì a soli 37 anni di tubercolosi. Nella sua arte si possono notare sia opere del primitivismo e del folclore che costituisce il dato autoctono dell’avanguardia russa, dall’altra il richiamo al futurismo italiano che , a sua volta, ha esercitato un’unfluenza sul cubo-futurismo dei russi.

Infine per concludere il suo interessante lavoro, Claudia Salaris dedica pagine molte belle a Tina Modotti, nata a Udine, ma presto trasferitasi in Messico dove ebbe rapporti di amicizia intensa con Frida Khalo e Diego Rivera. Fotografa, comunista, impegnata sia a livello artistico che politico, ha lasciato un patrimonio di opere d’arte, di scritti e disegni. L’incontro che cambiò la sua vita fu quello con il pittore Raubaix de L’Abuie Richey, detto Robo, a cui dedicò il Book di Robo.

Tina Modotti

 

Tina Modotti

Il periodo trascorso insieme a lui a Los Angeles dal 1917 al 1922 rappresenta per la giovane il confronto con il mondo intellettuale: il poeta e archelogo Ricardo Gómez Robelo, il critico d’arte giapponese Sadahiki Hartmann e il fotografo Eduard Weston che diventò il suo amante, attraverso il quale riuscì a diventare una professionista. Insieme ad altri artisti messicani diede vita ai murales che anticipano la street art. Ma da sola, non da altri, imparò a vedere il mondo degli emarginati con una comprensione che l’avrebbe portata verso la militanza politica. Nel 1927 si iscrisse al partito comunista messicano dopo l’esecuzione dei due anarchici Sacco e Vanzetti. Fu quello il periodo d’oro dell’attività politica e creativa. Tina tocca l’apice della carriera nel 1929 con l’esposizione organizzata dall’Università nazionale che rappresenta per lei l’ultimo atto pubblico in Messico. Nel febbraio del ’30 si imbarcò su una nave da carico olandese, diretta in Europa, dove sei anni più tardi sotto il nome di Maria, insieme al suo compagno Carlo Contreras partecipò alla guerra civile spagnola. Dopo varie vicissitudini, riuscì a tornare in Messico ma non riprese più in mano la macchina fototografica; Morì a soli 46 anni, nel gennaio 1946 per un arresto cardiaco. Attorno alla sua vita romanzesca, è nato un mito, continua ad alimentare iniziative e interesse dando vita a biografie, mostre, saggi. La sua rimane una vita fuori dai canoni.

A completare il lavoro di Claudia Salaris, molte foto di repertorio sia delle artiste che dei loro lavori più significativi. Un libro da non perdere.

 

Un serissimo gioco. La poesia di Viviana Viviani.

 

di Gabriella Grasso


 

Difficile pensare qualcosa di più serio di due temi, comuni a tutti, essenziali, quali l’amore e la sopravvivenza. Difficile immaginare di parlarne attraverso la poesia con un tocco che, senza banalizzarli, può definirsi leggero ed incisivo allo stesso tempo. È quanto accade nel libro di esordio (poetico) di Viviana Viviani, “Se mi ami sopravvalutami”, edito da Controluna nel 2019 Nelle due sezioni, intitolate appunto “Amore” e “Sopravvivenza”, l’autrice scandaglia con acume e disincanto le complesse dinamiche dei rapporti interpersonali più importanti – di coppia, tra amici, tra genitore e figlio – in continua oscillazione tra un forte senso di empatia, soprattutto con i più deboli, e profonda solitudine. Con un atteggiamento mi verrebbe da dire infantile, in quanto scevro da sovrastrutture e contorsioni mentali (non perché non li conosca, ma perché ne è oltre), Viviana Viviani guarda e sente i movimenti degli altri e i propri nella loro essenzialità e, probabilmente, nella loro verità.

L’andamento della scrittura è quasi prosastico e colloquiale, ma ciò non esclude il dominio che l’autrice esercita sul testo dal punto di vista metrico e stilistico. Il tono e lo sguardo al tempo stesso divertiti e malinconici ricordano certa poesia del primo Novecento, catapultata in contesti fortemente connotati dalla nostra contemporaneità, dai suoi riti e dai suoi feticci.

Gli esseri umani in questi versi sembrano usare lingue differenti e parlarsi dai loro gusci, ermeticamente chiusi. I dialoghi sono spesso tragicomici tentativi unilaterali :Se ci fosse una vita di scorta / starei appesa ai tuoi discorsi /inconcludenti e al tuo sorriso / saccente mentre dici weltanschauung / Ma ho una vita sola / e devo lavorare”. Parole e gesti di un teatrino di falsità, tanto tra amanti : “Ridi e parli di suicidio / e decomposizione / sorseggiando una birra, / bello come il sole / Poi te ne vai leggero / come un aquilone / lasciandomi qui / con la tua disperazione”, quanto tra amiche: “ Le amiche perdute / non si salutano al supermercato /poi s’incontrano per caso / a un matrimonio o un funerale / scambiano parole civili / ma non si sanno più”.

Il filo rosso della solitudine e dell’incomunicabilità, raccontate con ironia ma senza sconti, percorre tutto il libro: è dietro gli schermi di computer che quasi la presidiano, nel vissuto delle “vecchie signore” e del mendicante  di strada,  persino negli oggetti, come accade nel delizioso  “La giovane stampante e il vecchio calamaio”, che racconta un improbabile incontro d’amore tra due strumenti di epoche diverse.

In bilico tra consapevolezza a tratti quasi cinica e delicata immaginazione, l’autrice disegna quadri in cui ogni cosa parla di libertà e di inevitabile condizione di solitudine, come in “Gregor non si fa prendere”, dove il ragno sfugge alla cattura e alle definizioni che lo costringono. Altre volte la poesia mette a nudo le contraddizioni di un mondo bizzarro e iniquo, di moralismi di facciata o epidermici, prêt-à-porter.

Con la stessa lucida onestà, l’autrice esprime il tormento di instaurare un dialogo con se stessi, con la paura di crescere, con la difficoltà di raccontare le proprie ansie: “qualcuno dirà che non conosco la morte (…) Il dottore dice sempre / tutto bene solo ansia / ma io sento che il mio corpo / mi insegue per uccidermi”.

Sono testi che ci interpellano su un nodo profondo: il bisogno di essere visti,  in un mondo di performance, di etichette e di maschere, per quello che si è, nell’incontro che è stupore e gratuità: “tu indossami senza provarmi / comprami senza garanzia / se mi ami sopravvalutami”

 


 

Alcuni testi

 

Non mandarmi il tuo c@zzo in chat

 Non mandarmi il tuo cazzo in chat

che ancora non ho navigato

le lunghe vene delle tue braccia

né attraversato fiumi

camminando sulle tue vertebre.

 

Non ho sovrapposto le impronte digitali

per vedere se si assomigliano

e nemmeno disegnato ghirigori

tra le nocche delle tue mani.

 

Non ho contato una ad una

le tue ciglia nel sonno

o soffiato parole audaci

nel labirinto delle tue orecchie.

Non ho ancora cercato l’orsa maggiore

tra le costellazioni dei tuoi nei

né dato un nome a quelle senza nome

sulla volta della tua schiena.

 

Non conosco le risse

dietro le tue cicatrici

e non so se odori più di bosco

di biblioteca o di autogrill.

 

Non mandarmi il tuo cazzo in chat

o finirà tra i tanti cazzi senza storia

che vivono nelle chat

spade di pixel sguainate nel nulla

non voglio sapere la sua solitudine

prima di conoscere la tua.

 

 

 

*

 

Il mendicante ha un dobermann

 

Il mendicante ha un dobermann,

mi guarda mentre dorme

cammino più veloce

sulla strada dell’ufficio.

La collega lavora bene

tra le gambe del direttore,

avrà un contratto migliore

io più lavoro arretrato.

Lui dice che non mi ama

ha un’altra più felice

ma cedo alle sue urgenze

quando è stanco di allegria.

La mia amica è buona

mi odia se non piango

per chi annega e brucia

nel TG del pomeriggio.

Il mendicante è un dobermann,

se solo mi avvicino

mi sbrana di pietà.

Un euro a un lavavetri

colpo di straccio al cuore

pulisce anche le colpe

di cui sono innocente.

 

*

 

Se mi ami sopravvalutami

 

Se mi ami sopravvalutami

non cadere nell’inganno

di amarmi per quello che sono

sono stanca di faticare

di dovermi sempre impegnare

tu indossami senza provarmi

comprami senza garanzia

se mi ami sopravvalutami

sii bello e condannato

un premio estratto a sorte

un premio immeritato

 

*

 

Gregor non si fa prendere

 

Stasera c’è festa

nella nostra vecchia casa

con invitati stirati di fresco

che bevono finti alcolici.

Parlano di fisco e stelle

tutti a misurarsi

a fare drammi in soldi, in anni,

in chilogrammi.

Io bevo acqua passata

e mordo un po’ di polvere

guardando sul soffitto

il ragno cui desti un nome;

dicevi: “mai uccidere un ragno”

li portavi fuori con delicatezza

ma Gregor non si fa prendere

e non so ancora perché

chiamavi amore una bugia

e davi ai ragni

nomi di scarafaggi.

Gli invitati se ne vanno

uno a uno due a due.

Solo Gregor rimane

non lo vedo ma so

che lo ritroverò sulla carta igienica

o dietro il quadro di tua madre.

La casa ora è vuota;

esco sul balcone

faccio bolle di sapone

e una

diventa la luna.