Una volta una persona a me molto cara paragonò i rapporti interpersonali a dei legami chimici. In questa comparazione c’era anche l’analisi del nostro rapporto, contorto e squilibrato. Lui lo definì “covalente”, cioè caratterizzato dalla mancanza di una struttura forte e persistente. Mi piacque la sua analisi perché mi faceva esattamente visualizzare il motivo per cui non potevamo essere del tutto una coppia normale. Inoltre quella metafora, così chiara e pulita, per me che ero abituata ad analisi spietatamente complicate, mi sembrò salvifica: io ero un umanista e lui sì, uno scienziato. A dire il vero, per quanto fosse brillante ed eclettico, non era questa una novità: ci aveva già pensato Goethe ne Le affinità elettive, usando la chimica come metafora principale su cui costruire il plot del romanzo. Com’ è noto Goethe narra la storia di due coppie, quattro personaggi che si slegano e si legano come fossero elementi chimici in perenne movimento, avvicinandosi per attrazione o dividendosi perché incompatibili. Un romanzo sulla chimica dei sentimenti, figlia di un pensiero che coglie nella scienza una visione, un pattern, che ci appartiene in quanto umanità.
Legami forti e stabili come i legami covalenti, legami deboli e reversibili, i legami sopramolecolari. In effetti siamo sottoposti a queste polarità,continuamente. La vera difficoltà si presenta quando i campi si mischiamo, si ibridano e bisogna, in un processo di estrema adattabilità, far fronte alle rotture e agli agganci che la vita ci pone di fronte.
Alla luce di questo cortocircuito tra scienza e parola, tra scienza e non scienza, tra scienza e bellezza, va letto il romanzo “La chimica della bellezza” di Pier Sandro Pallavicini, Feltrinelli (2016)
Un grande scienziato e professore universitario, Massimo Galbiati con una brillante carriera alle spalle e altrettanti progetti lungimiranti, si ritrova, suo malgrado a fianco di un ultracentenario divo della chimica: Virginio De Raitner. Accademico di chiarissima fama, “costringe” Galbiati ad accompagnarlo in un paesino svizzero dove si svolgerebbe un simposio scientifico i cui partecipanti costituiscono il Gotha presente passato e futuro della chimica. Rinchiusi in questo paesaggio “a bassa entropia”, lontano dal frastuono disordinato che regna al di sotto delle Alpi, il vecchio scienziato si intrattiene per qualche giorno con il suo “prescelto”. Sono scene memorabili: un cagnetto fonofobico che lo accompagna al seguito pronto ad azzannare le pudenda a chi non rimane nella sua lunghezza d’onda, un vecchio dotato di ironia tagliente ma sempre misurata, anche nella volgarità epurata mai dire le parolacce ma suggerirle, insomma un personaggio cui si perdona l’’intemperanza e i capricci perché ha tanto da raccontarci. La sua vita, anzitutto: un passato glorioso, alunno degli scienziati al tempo in cui “si scoprivano ancora nuovi elementi della tavola periodica”: giochi di potere, aneddoti e ricerche condotte all’ estero. Al suo seguito, in questa avventura svizzera, una moglie che legge“ Vogue de Morte”, il cagnetto azzannatore al seguito e la battuta sempre pronta; poi, Galbiati tenuto sulle spine con verve comandina.
Ma qual è il vero motivo per cui, il professore, ormai più che anziano e apparentemente fuori da giochi, si trova come ospite speciale in questa reunion di grandi scienziati? E chi è la Nobwisss Society che ha organizzato questo convegno di cui persino google sembra ignorare l’esistenza? Il mistero si infittisce. Ad alimentarlo ulteriormente è la presenza massiccia dei premi Nobel che sfilano ieratici come una teoria di santi bizantini, per lo più ottuagenari, costretti a deambulare con l’ausilio di dispositivi ortopedici: Jean Marie Lehn, Harry Kroto, Roderick Mac Kinnon, Rudolph Marcus, e poi le giovani leve Paulina Karminski e Guillame Chaleur, e tanti altri.
In un intreccio ricco di storie accademiche, di ruggini tra baroni e comprimari, corredate un breviario della storia della chimica con tanto di spiegazioni ad uso e consumo di noi profani, il convegno termina con l’assegnazione del premio Nobel a due chimici: Guillame Chaleur e Paulina Karminski, i giovani corifei delle moderne teorie sopramolecolari. La delusione di De Raitner è profonda, decide di farla finita, non prima di o lasciare il testimone a Galbiati, erede del suo famoso Laboratorio Chiuso e dei suoi segreti inconfessabili. In quello strano albergo che sa di castagne arrosto e Whisky di eccelsa qualità, la creme della chimica mondiale consuma l’ennesimo rituale della glorificazione scientifica. Un’ età è morta con Virginio de Raitner, con le sue illusioni e le sue debolezze e un’altra generazione è pronta a coglierne frutti e contraddizioni.
Tra non fiction e memoir, la narrazione di Pallavicini procede alternando momenti intimisti (alcuni curiosi, come gli incontri erotici virtuali con la moglie) a dettagliatissime tirate scientifiche sul mondo della chimica. Se ne esce un po’ storditi e tuttavia rapiti da una scrittura vivacizzata da un’ironia autentica, viscerale, che fa ridere di pancia.
Legami covalenti, si diceva, quelli della chimica tradizionale, sì, ma anche quelli tra noi uomini. E del resto la metafora chimico-sentimentale è suggerita dallo stesso autore: “sono, forti, rigidi, resistono, quando si formano sono irreversibili, i nostri amici legami covalenti. E meno male, sennò non staremmo insieme, non vivremmo, non esisteremmo”. Un legame covalente è sicuramente quello che Galbiati intrattiene con la sua famiglia, suo perno esistenziale . La moglie Annina, viene evocata ben 45 volte durante la sua permanenza nell’ hotel svizzero. E il rapporto con Valentina, la figlia adolescente è la quintessenza della paternità amorevole.
Ma la svolta esistenziale, che è anche quella della chimica, riguarda i legami sopramolecolari che sono deboli e blandi, si spezzano facilmente insomma, ma altrettanto facilmente intrattengono legami nuovi,con altre molecole. Sono molto intelligenti e versatili, insomma, questi legami sopramolecolari. “Grandi costrutti fatti di molecole più piccole che si tengono l’una contro l’altra con delle interazioni sì, morbide, ma che consentono loro di disporsi in maniera complessa, costruendo mattone per mattone delle architetture sofisticate”. Somigliano a tutti quegli arrampicatori che raggiungono le vette della ricerca grazie a movimenti “dall’alto” e che Galbiati detesta non per una questione di etica ma di “orgoglio”, e di studio vero, di passione indefessa, di giornate passate a sudare nel laboratorio e di amore vero per la bellezza della ricerca pura, dell’esercizio dell’intelligenza, della scoperta di un meccanismo inedito, “bello”. Perché “ti si ferma il cuore quando scopri qualcosa, quando tutte le tessere vanno al loro posto, il puzzle è completo e lo scienziato capisce”.
Intersecando la storia della chimica italiana ed europea degli ultimi quarant’anni con le vicende trasversali dei protagonisti, Pallavicini ci trasporta con grande lucidità nella realtà difficile della ricerca scientifica, osteggiata dalla mancanza di fondi e strutture adeguate e da una politica che non investe nelle nuove intelligenze, nei ricercatori costretti ad emigrare verso paesi più virtuosi. E non trascura i il lato pusillanime dell’accademia dedito a cose molto poco scientifiche come rancori, invidie, conventicole. Pochi i grandi scienziati privi della smania del potere come il professore Cram, premio Nobel nel 1987 che venne a stringere le mani ai dottorandi che lavoravano in laboratorio come fosse merito loro, “perché i grandi scienziati, le grandi intelligenze sono così, umili e generose”.
Ma il personaggio chiave di questa faccenda è chiaramente il grande de Raitner, Virginio ma anche un po’ “Virgilio”, mentore e guida paterna che introduce Massimo Galbiati nel cuore delle massime questioni umane e scientifiche con un’ironia che travalica spesso in sarcasmo se non in mordace e caustica irriverenza. Stretto nel suo principe di Galles e nelle sue scarpe inglesi di ottima fattura, De Raitner rappresenta una generazione ormai trapassata, il testimone vivente di un passato in cui la ricerca di qualità era talvolta asservita alla realpolitik.
Il suo addio al mondo sa di sconfitta e di ripiegamento, come se avesse voluto dire, chiosando con il suo consueto sarcasmo; “ecco foglioni che non siete altro, beccatevi anche il gran finale!” In questo frangente, la bellezza della chimica sembra velarsi di un’ombra inquietante. Ma la luminosa figura di Galbiati serve proprio a ricomporre il quadro della bellezza totale, quello di una ricerca senza secondi fini, senza smanie di successi personali e rivendicazioni e soprattutto senza oscuri fini distruttivi. É questa la ricerca pura, quella che glorifica l’intelletto, che fa scoccare la scintilla dell’armonia,e Galbiati ne è degno erede: un uomo che è fatto di legami covalenti, uno di cui non si può dubitare, scientificamente e umanamente. Umile ma orgoglioso e conscio del suo valore, non è neanche lontanamente il lacchè di turno che si prostra i piedi del professore per ottenere il suo rendiconto. Diventerà ordinario di chimica e saprà risolvere i dubbi e le mancanze di De Raitner, che sono poi i cedimenti di una generazione vissuta tra le guerre.
Perché questo Massimo, eccelso scrutatore degli animi, è in definitiva è un uomo irresistibile: elegante, brillante, ambizioso, amante focoso (e fedele), amorevole padre, ironico, non sbaglia un congiuntivo e usa la “i” prostetica!. Un chimico che ha letteralmente decostruito tutta la mitologia sull’uomo di scienza che più o meno ci eravamo costruiti:il musone, schivo, vestito male e terribilmente noioso. Grazie Galbiati, che ci ha fatto amare tanto le formule di una bellezza tanto perfetta quanto fragile e ci hai suggerito un prontuario di strategie contro l’entropia quotidiana, al riparo da invidie e personalismi, teste di mazzo e sfronzi di ogni sorta.
L’AUTORE CONSIGLIA UN FLÛTE DI CHAMPAGNE PER ACCOMPAGNARE LA LETTURA! 🙂