Sgambettando tra il tragico e il grottesco- Figlie sagge- di Angela Carter-

Avete presente la Londra rutilante, ipermoderna della city, le case da riviste patinate di  Kensington e del West end? Ecco, dimenticatela, e immergetevi nella  storia della Londra sghemba e visionaria che ha dato i natali alle sorelle Chance, protagoniste del romanzo Figlie sagge, di Angela Carter,  edito da Fazi Editore nell’appena trascorso 2016 e che tanto ci ha rallegrato.

Angela Carter

“Siamo nate dall’altra parte del Tamigi, quella sbagliata” esordiscono le due spassose protagoniste,  quella parte che ha ispirato gran parte dei migliori scrittori  londinesi dell’ultimo trentennio dalla Carter, appunto, a Iain Sinclair, fino a Will Self e J.G. Ballard, testimoni, ognuno con il proprio prisma culturale, di una Londra multiculturale, meticcia, tanto invisa ai thatcheriani quanto amata dagli irriducibili cockneys; una fetta di Londra che presenta anche tratti inquietanti, con le sue zone residenziali abitate dai nuovi ricchi e aree di degrado e abbandono.

Originarie della “sponda bastarda”quella del Sud, che  le ha viste nascere, crescere, invecchiare Dora e Nora Chance, due settantentacinquenni arzille che, confesso, ho visualizzato come due gemelle Kessler ma molto più disinibite e beone, si vedono recapitare improvvisamente un invito che mette a rischio per qualche secondo le loro coronarie: Sir Melchior Hazard, loro padre naturale, festeggia cent’anni; ebbene, la genetica è dalla sua parte più di quanto nessuno avrebbe mai sperato. Quale miglior modo  di celebrare questo evento invitando le figliuole dimenticate in  vita e recuperate nell’ultimo atto teatrale della vita? Da shakespeariano D.O.C. quale è, Melchior non poteva certo farsi mancare questo ultimo coup de théâtre.

Neanche a dirlo, le due accettano. La macchina del piacere incomincia a riattivarsi: esci un trench di volpe argentata, una doppia passata di mascara,cipria, un Rubini nella neve di Revlon,improbabili guêpière di seta e via, le sorelle Chance sono pronte per l’ennesima avventura della loro vita. Di una vita pazzesca, naïf, fricchettona fino al midollo: figlie di una stella del teatro e capostipite di una della famiglie di teatranti più in vista del primo Novecento, Dora e Nora vengono recuperate nella prima infanzia dal fratello gemello di Melchior, Peregrine, zio Perry d’ora in poi, che le alleva, le riempie di oggetti costosi e cerca di avviarle alla carriera che più a loro si addice: quella di ballerine di avanspettacolo. Consumatesi al ritmo di lustrini e champagne, corteggiate e amate da una quantità spropositata di uomini queste due donne rappresentano l’inno più spregiudicato ad una femminilità autentica e priva di stereotipi e tabù. Orfane di madre, tenutaria di una locanda fatiscente di Brixton, furono iniziate ai segreti della vita dalla “nonna” (in realtà una conoscenza del nonno che ebbe il buon cuore di adottarle) nudista vegetariana, perfetta rappresentante del femminismo d’antan. Nora e Dora crescono in ardore e bellezza e  fanno dell’ironia tagliente la loro arma di difesa, riuscendo anche ad esorcizzare il grande assente, il padre che non le e ha mai accettate o per lo meno a collocarlo dove va collocato, cioè in un angolo della memoria che il recente invito ha portato pericolosamente alla ribalta. Nel loro mondo, gli uomini” vanno e vengono”, come figuranti di una commedia umana che non si arresta neanche dopo la chiusura del sipario. E le donne si aiutano reciprocamente a resistere ai colpi del destino tutte, tranne due, Saskia e Imogen le rivali delle gemelle Chance, le figlie fortunate, riconosciute legittimamente da Melchior, con le quali si instaura sin da subito “il più cordiale odio reciproco”.

Cosa rimane di questa commedia dolce-amara? A tratti un doloroso nulla, visto che il succo di ogni commedia è sempre un abbandono o un tradimento. E questo avvicendarsi bulimico di divertissement e godimento dell’attimo fuggente ad ogni costo rischia di appesantire la trama. Ma le Chance la sanno lunga e in qualche frangente ci lasciano aforismi in grado di guidarci per un’intera vita:

Ci ho messo secoli a coglierne il senso , ma alla fine ce l’ho fatta, anche se ci sono riuscita soltanto l’altro giorno, A Notting Hill, guardando ancora una volta Il sogno, noi due ormai niente più che un paio di vecchie ciabatte rotte con gli occhi incollati sui loro fantasmi. Solo allora ho compreso una cosa  che non avevo mai afferrato in quei giorni, da giovane, prima di vivere nella storia. Da giovane volevo essere effimera, volevo cogliere l’attimo, vivere solo l’istante della gloria, dell’estasi, dell’applauso. Carpe diem. Mangia la pesca. Il domani non viene mai. E invece sì, che viene il domani, e quando arriva sembra non finire più, ve lo giuro.

Il sottotesto shakespeariano (della grande commedia) si rivela in tutta la sua ricchezza e vitalità: gemelli, amori contrastati, scambi di ruolo e di  persona, attesa del riconoscimento, amori e dissapori. Il divismo spietato simil-hollywoodiano e il pragmatismo working class della Londra del Sud, non sono destinati ad incontrarsi e anzi generare mostri. Non è un caso che riusciamo a vedere tutta la follia della famiglia di questi teatranti proprio nel bel mezzo della rappresentazione del Sogno di una notte di mezz’estate. Tanto sgangherato il manipolo di attori, quanto sgangherati sono i protagonisti nella vita reale. Nani ballerine, fiori e curiosi animali in un fittizio bosco di Atene si confondono tra le pieghe di personaggi reali con un capocomico all’apice della sua carriera, comprimari e donnette al seguito che si alternano nel suo letto, che ne subiscono l’irrinunciabile fascino, un baraccone tutto sommato gioioso e autenticamente devoto all’Arte. E a “Mammona”, come dice sconsolata la piccola Dora, prodotto e scarto di quel processo di deificazione del padre, vero deus ex-machina dell’azione. Con una scrittura sapiente e applicando  un ribaltamento parodico del genere letterario, sua cifra stilistica, la Carter tiene insieme un materiale eterogeneo e convulso che potrebbe anche scoppiare se non fosse inquadrato in questa perfetta architettura. 

In conclusione, chiuse nel loro “crepuscolo etico”, Dora e Nora forse non riescono del tutto ad abbracciare l’idea di essere completamente sole e indipendenti. Andare a quel maledetto compleanno per esorcizzare il mostro, trasportate da due lunghe , lunghissime gambe che non hanno mai smesso di essere belle, solo un po’. Giusto il tempo di sgambettare  tra il tragico e il grottesco dell’ultimo, sontuoso palco, per celebrare l’autore delle loro vite  Risultato: baci e abbracci di una vita mancata. The show must go on. E con un gran finale a sorpresa, geniale, che vi invito a scoprire.

 

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Sciara, di Marina Mongiovì. Una polifonia etnea


di Floriana Giallombardo
Come spesso avviene per le ricette, conoscere l’elenco degli ingredienti non è sufficiente senza addentrarsi nelle alchimie del procedimento. Non basterebbe quindi a restituire l’agrodolce di Sciara, opera prima di Marina Mongiovì, l‘elenco dei suoi riferimenti più palesi: il sapiente mescolamento di un’Antologia di Spoon River, nell’alternarsi in controcanto delle voci di un luogo lontano nel tempo, con un pizzico di realismo magico, dove le mavarie, i rituali e le superstizioni si confondono con la realtà. E nemmeno gli ingredienti hanno sempre lo stesso sapore, soprattutto se colti lontano dalla terra arida dove hanno messo radici, come le arance di uno dei personaggi più riusciti di questa personalissima Macondo etnea, Fofò:
“A mani nude, scavava e strappava via la gramigna e, quando era tempo, raccoglieva i sanguinelli. Che apriva, con le stesse mani ruvide, spremendone il succo rosso. Quel sangue dolce impregnato di tutti gli umori che le radici erano riuscite a rubare all’ardore della terra” (Radici).
Fofò fa parte di quella schiera di personaggi che per trauma, tara o ribellione abitano ai margini del piccolo presepe arroccato sulla sciara lavica: Angelina, la babba, Michele, tuccatu ra rannula, e Assunta, la Marchisa. L’autrice dà loro voce, insieme agli altri, senza sconti. E forse, oltre all’esergo dedicato a Battiato, fra gli ingredienti si potrebbe ricordare la poetica di De André.
Eppure, ancora, nulla si direbbe di Sciara se non si entrasse nelle alchimie sotterranee della lingua, di una prosa evocativa e immaginifica, impreziosita da incursioni dialettali, con cui l’autrice sostanzia il suo omaggio, malinconico e feroce, alla memoria della propria infanzia etnea. Una prosa certamente matura, non usuale per un’opera prima, con risonanze  poetiche di felice perfezione ritmica, che avrà certamente determinato la fiducia dell’editore. Fra due punti, quasi un haiku, certe immagini emergono nel racconto con la potenza metamorfica dell’inconscio:
“Le sue mani sono diventate radici di magnolia” (Sonnu).
Ancora, è  una sfera sensoriale primaria, l’olfatto, a rendere la porosità psichica del paesaggio, come nel racconto d’iniziazione adolescenziale:
“La città era nera, bruciava, emanava afrore di pietra lavica e piscio” (Pari o dispari).
Ad attraversare il testo è, in generale, la vividezza percettiva propria dell’eros e dell’infanzia. Ma forse è il gusto la sfera sensoriale più carica di implicazioni, con esiti specifici di disvelamento. Il sapore unto e rotondo degli arancini e del sugo di maiale, infatti, si mescolano più e più volte, nei diversi capitoli, a quello dolciastro della morte. Ma non prima di avere solleticato i sensi. È il caso della rosticceria fratelli Russo, luogo per antonomasia del desiderio gastronomico (Requiem per Giorgio Privitera, Arancini). Ma soprattutto, con implicazioni di sublimato cannibalismo, del sugo preparato da Carmela, la cornuta:
“ci siamo, il grasso si è mischiato al pomodoro. La carne comincia a staccarsi dagli ossi. Carmela afferra le salsicce, ne strappa un pezzo e lo divora avidamente. Sente la carne cruda sotto i denti, il pizzicore del pepe nero” (Il sugo della festa).
La scelta di legare una sfera primaria della memoria familiare, quella della cucina, ad alcune delle immagini più violente del testo, rimanda alla tonalità emotiva ambivalente, di malinconia e di repulsione, che attraversa tutto il racconto. Allo sguardo gentile e sensibile dell’infanzia si alterna l’ironia lucida e feroce della ragione, che, adulta, disvela l’impostura. Per inciso, questa tonalità emotiva connota, all’estremo, la protagonista nel primo e nell’ultimo racconto, Teresa.
Situata ormai al crepuscolo della storia del paese, all’esaurirsi del tempo vitale dei suoi abitanti, Teresa si affaccia alla vita adulta in un tempo prossimo al nostro. La sua vicenda è avvolta dall’ottundimento: del sonno, dell’afa, della noia. E forse, nello spazio del sogno che collega i due racconti, dal rituale familiare del pomodoro fino al dubbio di una dissacrante esecuzione, sta la chiave del rapporto con l’infanzia: uccidere i propri mostri, nominandoli uno a uno.
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