Il fanciullo presso Gesù (per l’albero di Natale.) *
Questo racconto concepito da F.M. Dostoevskij nel 1876 e trovò la sua collocazione nel Diario di uno scrittore dello stesso anno. Le pagine sono tra le più crude del Diario, quasi interamente dedicate al problema dei bambini abbandonati, i bambini orfani e quelli che vivono nella miseria, per strada. Dostoevskij parte sempre da un’accurata analisi della realtà attinta a piene mani dalla cronaca, di cui era un divoratore, per poi distillarla nella pagina narrata, che di quella realtà conservava il palpito, l’essenza, senza perdere minimamente quella vivida coscienza del mondo che lo circondava e che penetrava con i suoi occhi.
Il racconto si svolge in una tipica cornice urbana di fine Ottocento, nei giorni del Natale, in una Pietroburgo affaccendata e febbrile, un piccolo bambino gettato per strada, intirizzito dal gelo, prossimo all’assideramento, ” fa la manina” cioè chiede l’elemosina. In poche righe, – è uno dei più brevi- trasmette il dramma dell’abbandono minorile e della miseria di quel sottoproletariato che stava ai margini delle strade, che vivacchiava di elemosina e si riempiva di alcool a poco prezzo. Si sente vivo ancora il ricordo dei viaggi che Dostoevskij fece a Londra e che immortalò in Note invernali su impressioni estive, dove, ad Hay Market, tratteggiò l’immagine indelebile di una prostituta bambina che ciondolava con le vesti lacere per strada. Era il 1862 e in questo diario di viaggio o pamphlet, come lo definì Anna Grigorevna, Dostoevskij getta le basi per costruire il suo stile, in cui Dichtung e Wahreit , arte e vita, non soltanto non confliggono ma vivono in una sinergia che le potenzia.
Probabilmente non è il migliore racconto di Dostoevskij, i toni sfiorano il patetismo e tutta la scena è intrisa di particolari volti a muovere le corde dell’immedesimazione; tuttavia è un momento in cui l’arte e la realtà si incontrano e producono quella vibrazione tutta dostoevskiana che è calibrata su un equilibrio perfetto, il cui l’arte del romanziere arricchisce ed esagera il dato grezzo della realtà senza minimamente intaccare quel principio della verosimiglianza che rende tutto accorato, godibile, “empatico”:
Mi si presenta l’immagine di un fanciullo, molto piccino ancora, di forse sei anni o anche meno. Questo fanciullo si destò un mattino in un sotterraneo umido e freddo. Aveva indosso una specie di giubboncino e tremava. Il suo alito si sprigionava come un bianco vapore, ed egli, stando seduto in un angolo, su un baule, di proposito emetteva quel vapore e si divertiva a vederlo uscire dalla bocca. Aveva però una gran voglia di mangiare. Più volte, fin dal mattino, si era accostato a un tavolaccio, dove, sopra a un misero pagliericcio, e con un fagotto sotto il capo a mo’ di guanciale, giaceva la sua madre inferma. […] Da bere egli ne aveva trovato in qualche posto, nell’andito, ma una crosta di pane non aveva potuto scovarla, e già per la decima volta si era accostato alla mamma per destarla . Infine, cominciò ad avere paura del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma non era stato acceso un lume. Palpato il viso della mamma, si meravigliò che ella non facesse alcun movimento e fosse diventata fredda come il muro.
La dolorosa poesia della città si staglia su questo quadro di desolante solitudine e che ha al suo centro la sofferenza dei bambini, tema che sarà centrale nei romanzi maggiori, vero perno della metafisica del male e della teodicea nella formula accusatoria di Ivan Karamazov in cui egli restituisce il bilgietto dell’armonia universale se questa deve costare il sacrificio di un solo bambino senza colpe.
La trasfigurazione finale nel racconto, nell’abbraccio di Cristo, è una visione resurrezionista che Dostoevskij recupera nella fase finale della sua scrittura e che ha sempre i bambini come protagonisti: nell’ultima scena dell’ultimo romanzo I Fratelli Karamazov saranno i bambini, riuniti attorno alla tomba di un loro compagno morto prematuramente, a riunirsi in un abbraccio nel nome di un armonia semplice, fatta di un abbraccio d’amore, nel segno della visione di una generazione futura, fatta di bambini, come Dostoevskij annota negli appunti preparatori dei taccuini.
E per di più in questo racconto Dostoevskij chiarisce la sostanza del suo realismo, una formulazione particolare, eccentrica rispetto ai maestri del realismo russo- forse accostabile soltanto al grande Gogol’ di cui Dostoevskij fu infatti grande estimatore- che rifugge dalla letteratura specchio della realtà o fotografia oggettiva. Con la sua capacità di entrare nelle pieghe della psicologia dei sofferenti,Dosteovskij riesce a dare un colpo d’ala a quelle immagini di infanzia ferita- apprese da Dickens, tra gli altri- trasfigurandole in una potentissima architettura di pensiero e di idea, dove al centro stava la sofferenza innocente e incolpevole, a sua volte riproposizione del grande tema della passione cristica)
Il suo, un racconto fantastico risulta così esser ancora più reale di qualsiasi resoconto oggettivo perché parte dall’uomo, e attraverso i voli del pensiero- dell’invenzione- atterra sull’uomo stesso, col risultato di rendere ancora più vivida e vicina al lettore la verità di cui tutti conosciamo le intime ragioni :
Ma perché ho poi scritto una simile storia, così poco adatta a un usuale e giudizioso diario per giunta di uno scrittore? E avevo anche promesso dei racconti, in prevalenza, su cose avvenute! Ma ecco…Il fatto è proprio questo: mi sembra , ho l’impressione che tutto ciò sarebbe potuto accadere realmente, quello cioè che avvenne nel sotterraneo e dietro la legna: in quanto poi all’albero di Natale presso Gesù, non so proprio dirvi se ciò sia potuto accadere o no, mio Dio! Non è per inventare un poco ch’io son romanziere?
* Riporto il titolo nella traduzione di Eva Amendola Kühn edizione Rizzoli , 1983) da cui ho tratto i brani citati, anche se mi pare più convincente quella proposta da Ettore lo Gatto del Diario di uno scrittore, Il bambino di Gesù all’albero di Natale