di Gabriella Grasso
La poesia è epos dalla notte dei tempi: attraverso l’energia della parola intreccia trame di popoli, il noto e il mistero delle loro vicende. Oggi questa vocazione epica sembrerebbe scomparsa e forse, per molti motivi, improponibile. Potremmo ritrovarla, in chiave nuova e problematica, in alcune opere che illuminano aspetti critici della convivenza sociale nell’epoca post-industriale e digitale, quali la mercificazione e la spersonalizzazione dei rapporti, la precarietà delle condizioni economiche, lo squallore degli ambienti urbani, il carattere aleatorio degli spazi digitali.
Di contro, la poesia proposta da Guido Mattia Gallerani nel suo ultimo lavoro, I popoli scomparsi, edito da Pequod nel 2020, sembrerebbe riallacciare i fili dell’epica tradizionale. Non è del tutto così, come vedremo.
I protagonisti della lunga incursione che Gallerani compie nel passato, a ritroso nel tempo, sono gli antichi popoli succedutisi in aree ed epoche diverse e di cui, spesso, sono rimaste rare tracce. L’autore ce ne offre rapidi quadri, excursus che si coagulano attorno ad elementi salienti, caratterizzanti. Si parte dall’uomo di Neandhertal, con un esordio che la dice lunga sull’angolatura scelta dal poeta nel presentare lui e gli altri compagni della specie umana: “Si credeva la creatura più speciale, / ma era solo il più giovane / tra gli abitanti effimeri del mondo”. Il suo destino appare quasi ridicolo: “Da cacciatore a vittima, dietro le teche di un museo”. Si prosegue con le prime civiltà, scrigno di misteri e di graduali conquiste, puntualmente travolte dal movimento dialettico dell’apparire e della dissolvenza.
Quello che Gallerani mette in luce, con raffinata ironia, resta sempre il carattere effimero, transitorio di ogni acquisizione, la labilità di ogni traguardo. I Sumeri “non ebbero epiteti al loro nome / poi che il sole tramontò oltre le foreste dei cedri. / L’onda increspata dell’immortalità / non bagnò la loro fronte”. Gli Hyksos furono ingoiati dall’imbuto del tempo: “senza coltivare una memoria / lasciarono il campo a una nuova rivolta / e così come vennero senza incontrare resistenza / senza flettere la linea del tempo / saltarono l’ostacolo, tornarono nel nulla / da cui nacquero”
.É’ una vis interna alle dinamiche della storia, cancellatrice, che non risparmia nemmeno gli animali: “pur anch’esse in predicato di estinzione, / rapide nel tuffo ancora / s’inabissano le foche”. Talvolta il gioco perverso del caso si serve di qualcosa di invisibile, un batterio, come nel caso di Harappa: “Ma prima di precipitare nel clinamen / dei popoli scomparsi nell’Indo / avvenne la loro spoliazione / in un batterio. Perirono così, aspettando il bisbiglio / della pioggia e che le bolle del vapore / s’involassero, centellinassero dal cielo / un raggio di sole, / una bugia / sulla fine dell’epidemia”.

Un ritratto dell’autore Guido Maria Gallerani
Dei popoli si perdono i manufatti, le iscrizioni, la voce e i pensieri ad essi sottesi: “Ne sparì la voce e la scritta / con qualche chilogrammo di oggetti lavorati”, “Capitolano dalle arcate dei portici / i nostri come i loro voti e giudizi”. La polvere sollevata dalla storia travolge uomini e idee, corpi e parole. Si succedono imprese e sorti alterne, dubbi, fedi, responsi : “mentre i popoli più poveri (…) già attendevano ormai corrotti / una fede altra dagli oracoli”.
L’incontro-scontro con l’altro, che provoca la fine e il mutamento, non avviene necessariamente tra etnie: in gioco possono esserci gruppi sociali o categorie (di lavoratori, ad esempio i barilai, o di costume, come i punk) che subiscono il confronto con nuove realtà emergenti e le inevitabili novità che ne conseguono: “Sopravvissuto alla macchina fordiana / finì in distilleria qualche anno dopo il cooper, il mastro barilaio /(…) Sarebbero arrivate le industrie dei vuoti in bottiglia / per lui e la sua famiglia”(i barilai); “volendo annunciarne la fine, negli anni ’80 / divennero i cattivi di tutte le anime del progresso” (i punk).
Parallelamente, nuovi paesaggi sconvolgono gli antichi, inesorabilmente: “Erano un grattacapo a latere le pagode, una disarmonia per le vette di grattacieli – uno sbaglio cancellabile dalla gomma dei bulldozer”(Rohinga, Birmania).
In questo percorso, la parola poetica rappresenta il tentativo di riportare il passato in vita, forse, ma può farlo solo in termini di antilirismo, di narrazione disincantata. Certo, la ricostruzione puntuale e dettagliata genera nel lettore la sensazione di un viaggio nel tempo, esaltante. Tuttavia, è proprio la scelta di quegli elementi attorno a cui si sviluppa ogni quadro a rivelare l’originalità e l’atipicità (rispetto al genere letterario) dello sguardo del poeta. I popoli scomparsi, lo dice già il titolo, si sono succeduti, scalzati o sovrapposti, comunque inceneriti dall’incedere impietoso del tempo e dal gioco delle parti, mostrando le proprie fragilità.
Ieratici se visti da lontano, come l’epica classica e la storia ce li hanno sempre fatti vedere; incoerenti, a tratti bizzarri, instabili se visti da vicino, come accade leggendo questi testi. Unici se considerati singolarmente, simili nelle loro debolezze, se visti nella cordata del cammino dell’umanità.
Popoli scomparsi, mentre cancellato – nella polvere della storia – appare ogni confine, strenuamente difeso, ma, in fondo, banalmente riduttivo. Come ogni tassonomia che ci riguardi, del resto.
Alcuni testi
Uomo di Neanderthal
Si credeva la creatura più speciale,
ma era solo il più giovane
tra gli abitanti effimeri del mondo.
Nelle steppe spiluccava le bacche,
collezionava gemme colorate
accompagnato dal mugugno delle scimmie.
Ben prima della nascita dei miti,
fuggiva dietro le sue frecce
l’orso bruno, il Grizzly.
Velocemente la terra si raffredda,
le risorse decrescono e induriscono
di promesse. Uscito indenne
da un’altra glaciazione uno più intelligente
avvolto dalla corteccia cerebrale
avanza al riparo, acclimatato alle foreste.
Smise di mettere su bivacchi
al di là del vallo alpestre
e di comunicare cogli antichi gesti.
I fratelli lo abbandonavano,
lo guardavano con la famiglia scemare
anno dopo anno, separandosi solitario
dalla protezione del fuoco.
Da cacciatore a vittima,
dietro le teche di un museo
raffermo nella sua requie
di cera e tende di cartone
solleva compassione
nei visitatori. Nessuna parola
dalle sue vittorie, né leggenda
per un’anima preumana e impaurita,
con la sua cena ancora lì
lontana un passo nel diorama,
imbalsamata nella formalina.
*
Gli oracoli
L’oracolo spezzò i cieli, le nuvole,
le migrazioni del falco col bastone.
Se vedeva uno scorcio nel sereno
alle sue parole seguiva un fuoco,
un bagliore che avvertiva le torrette
in riva al mare e la legione.
Non accettava rimproveri
qualora il fato si mettesse di lato.
Ma ogni destino si svela al seguito
di un’orda ignota e del suo esodo.
Quando ritornò a volteggiare sulle teste
dalla cresta intangibile dei monti
il viaggio ingannò gli interpreti
del verso e solo vaticini ambigui
preservarono la città dalla follia
mentre fuori dalle porte abbandonavano
i popoli più poveri, che già attendevano
ormai corrotti una fede altra dagli oracoli.
*
I punk
Incerti tra il babelismo verticale
delle chiome e una scapigliata
fluorescenza delle tinte
andavano alla mascherata compatti
nel combattuto chiasmo del vestiario.
Portavano la cresta viola
come i cavalieri romani
e i corazzieri italiani.
Repulsione destavano
all’entrata nell’aula
davanti ai giudici in toga.
Volendo annunciarne la fine,
negli anni ’80 divennero i cattivi
di tutte le anime del progresso.
Accorpati alla classe dei nemici
a uno a uno li cacciarono
dal teatro urbano, molti ne dilaniarono
i dobermann dell’unità cinofila.
Furono fatti esplodere in bulbi di luce venosa
dai pugni e dai calci
di Ken il guerriero.
Vennero investiti da Mad Max
sulle strade australiane.
Sotto lo sguardo di fanciulli persi,
finirono giustiziati a morte
sullo schermo, pubblicamente
loro innocui gladiatori di spray,
precursori dagli elmi rosa.