di Gabriella Grasso
Se in principio era la Parola, questa era sicuramente in forma di poesia. E’ quello che ho pensato addentrandomi nella lettura de “Il canto della Moabita” di Sergio Daniele Donati (Ensemble, 2021), intenso dedalo di visioni, predizioni, locuzioni interiori, che il poeta rivolge alla figura biblica della Moabita (esempio di tenerezza, di fedeltà e amore incondizionato, capace di scelte coraggiose), a se stesso e al figlio, più volte nominato e destinatario di benedizioni. Come un flusso o un vortice, il percorso della parola si snoda in una dimensione atemporale, non semplicemente onirica quanto, direi, filogenetica, che, scavalcando l’esperienza del singolo, assume quasi la forma di un dettato proveniente da un Oltre: “Senza fine, senza inizio / ho sognato il grande sogno / e la Moabita e il cedro / e il canto e le radici / e il mio occhio nero / erano la stessa cosa”.
Quello che circola tra queste presenze e per tutta l’opera è un sapere che si tramanda e rinnova in una catena d’amore (Dio Padre, i Padri, l’autore nella sua veste di padre, il figlio) e che si traduce, paradossalmente, nella consapevolezza, da parte del poeta, della propria afonia, dell’essere recipiente di silenzio e di risonanze:
“ Se torno / le lettere migrano, altrove. / Nel cardo restano spine, /non più piume di ricordo /né promesse d’ascolto. /Resto là; /la parola afona, /e il sangue schiavo del silenzio”.
La risonanza, espediente testuale e, non a caso, anche pratica di meditazione, costituisce l’ordito di tutto il tessuto formale e sonoro dell’opera. L’elemento ridondante, il ritorno ciclico di parole, stilemi e concetti sono pratiche che attengono tanto al campo del salmodiare biblico quanto a quello delle narrazioni ataviche e dell’oralità primigenia, all’origine di ogni sapere e di ogni tradizione.
L’idea-immagine si palesa, poi scompare, poi ritorna nelle innumerevoli occorrenze e variazioni di significanti che rappresentano una porta appena schiusa verso significati intravisti, mai del tutto posseduti, ineffabili.
Innanzitutto, gli elementi della natura: il vento e ciò che attiene al suo campo semantico, per fornire solo qualche esempio (nuvole, pulviscolo, soffio), col suo richiamo biblico all’alito vitale e alla brezza che è presenza divina e forza creatrice:
“Esiste un vento, / un aliseo divino, / che rende brace / l’ossidiana delle mie pupille, / quando mi guardi (e io ti guardo) / e il tempo si ferma. / Mi copro pudico, / i volti, / allora, /e si dispiega alto / il nostro canto vitale”. Poi il cielo e i suoi corpi, il gioco del buio e della luce, il nulla fecondo che genera il creato; e ancora la notte, quasi palinsesto di antiche verità: “Restano tracce, / nelle notti di luna calante, /d’un passaggio sacro, /cieco e di sogno / tra le grida e le nebbie / della tua profezia”. E a seguire le lacrime, il pianto, il tentativo prezioso e fallimentare di dare una forma compiuta alle intuizioni del profondo: “ tramutando in strozzi parole antiche”, “E la lacrima bruna / del mio passato palustre / cade nel secchio, / guardia d’un abisso fertile”. Infine il mito, archetipo di un eterno ritorno: “Immergiamo nel mito, / dita bambine”, consapevoli che “s’appoggia sul mito / ogni dolore”.
D’altro canto, il poeta ammette la possibilità di una forma di conoscenza e di espressione, attraverso il canto e il sogno, ponte tra il passato e varco verso il futuro.
“Le nuvole in cielo sognano. Io canto il canto del futuro dal passato. Sia questo il tuo sogno”), che può tradursi in possibilità di un valido pronunciamento: “Fiori azzurri e frutti rossi / nella tua mano / e non c’è giustizia /nel “bianco o nero” / che sia la giustizia il tuo sogno / figlio mio”.
La parola resta la protagonista, nonostante tutto, di questo ipnotico, salmodiante lavoro: è afona, strozzata, impotente, si sgretola, si nega perché si nasconde nell’alcova di ciò che precede l’umano:
“(se) ci sedessimo su quella pietra, / ad ascoltare il canto, / che lento si fa strada, / sulla via della nostra fine, / se ci specchiassimo nei volti dei poeti / prima di rubare i loro lemmi, / e tentare voli di tacchino, / tramutando in strozzi parole antiche, /se guardassimo quelle pieghe della pelle, / dove tutto è scritto, / prima della parola, / prima dell’incontro e dell’incaglio, / prima della seduzione”. E tuttavia sa trovare il suo vigore originario, rivelandosi urlo: “La vita è un chiasmo. / La mia. /E nel punto di intersezione, /l’urlo mio di bimbo /sparito, spaurito”. Resta comunque la parola di chi è dolorosamente consapevole dei propri limiti, l’inciampo (termine non casuale, in un testo così impregnato di suggestioni della cultura ebraica) di chi si riconosce balbuziente e imperfetto, perché “di cos’altro vuoi parlare, / poeta, / che non sia il tuo inciampo?”
Alcuni testi
Teshuvah (il ritorno)
Se torno
le lettere migrano, altrove.
Nel cardo restano spine,
non più piume di ricordo
né promesse d’ascolto.
Resto là;
la parola afona,
e il sangue schiavo del silenzio.
*
Sesta benedizione per mio figlio mentre sogna
Fiori azzurri e frutti rossi
nella tua mano
e non c’è giustizia
nel “bianco o nero”,
che sia la giustizia
il tuo sogno
figlio mio.
*
Ali di falco
Ali di falco,
tagliano cieli
e separano e spezzano
e dicono «Luce»
al buio,
prima che luce sia.
Di cos’altro vuoi parlare,
poeta,
che non sia il tuo inciampo?
*
Errore
È un errore attingere sempre
allo stesso pozzo,
elevare l’assenza
a rango di saggezza.
È ora di tornare
al luogo sacro dell’ignoranza,
ed evitare nel cammino
i ghiacci sottili d’una scrittura
debole e seducente.
È ora di dirsi
finalmente vinti.
*
Sei milioni
Si crepano maschere d’argilla
sui miei volti
e lo sguardo si perde
su un orizzonte
assente;
avanzano lenti
i passi del silenzio
e ardono i fuochi
sacri
della memoria.
In alto,
sei milioni di voci evanescenti,
coperte da fumi e grida,
osservano e sostengono
una tenacia bambina.
Per loro solo
canto nenie primordiali,
inni d’elevazione nella notte
senza stelle.
Poesia pubblicata sul blog «Le parole di Fedro» in occasione della Giornata della Memoria 2021.