Il 3 luglio 2021 l’artista, poeta e scrittore Giovanni Prosperi si spegne improvvisamente, nella sua casa di Roma, accanto alla sua compagna Ivana Rinaldi. Una partenza fulminea, che lascia familiari e amici attoniti. Inizialmente, per tutti, c’è solo un grande vuoto con cui fare i conti; poi, nei mesi, l’esigenza e il desiderio di godere ancora della presenza di Giovanni, mediante l’ascolto della sua voce e la condivisione della sua scrittura. Nasce così la volontà di incontrare una figura ricca e complessa del panorama letterario italiano, attraverso una conversazione con Ivana, nostra collaboratrice tra le pagine di Bibliovorax.
D- Cara Ivana, questi mesi senza Giovanni sono stati difficili per te. Cosa ti manca di più e cosa torna prepotentemente alla tua memoria?
R- Domanda spiazzante, Gabriella. E’ sentirsi come un viandante nel deserto a cui manca l’acqua, ovvero tutto. Torniamo a terra. La nostra era una vita semplice, fatta di piccoli gesti quotidiani. Ecco: è la quotidianità che mi manca, i soliti gesti, i riti dell’esistenza comune, il sostegno reciproco, l’affetto, le lunghe discussioni sulla vita, la morte, l’aldilà, la politica, l’arte, le preoccupazioni del vivere che accomunano tutti. Una vita scandita da impegni e piccoli piaceri, una gita al mare, al lago, nei piccoli paesi del circondario e nelle Marche, qualche viaggetto, il cinema, una mostra, una cena con gli amici o i parenti. Non sono io a richiamare i ricordi, sono loro che si presentano in ordine sparso ma netti e precisi. Arrivano specialmente la sera nel tempo che precede il sonno.
D- Come ci descriveresti Giovanni, compagno di vita e Giovanni, intellettuale e artista?
R- Non riesco a distinguere Giovanni compagno di vita e Giovanni intellettuale e artista. Era un unicum che metteva l’arte nella vita e la vita nell’arte. Non ha mai rivestito ruoli, la libertà era la cifra della sua esistenza e in lui si conciliavano perfettamente il sé e il fuori di sé. Aveva una mente androgina, la mente creativa per eccellenza, diceva Virginia Woolf. Tanto è vero, che era innamorato di “Orlando” su cui abbiamo lavorato insieme a un adattamento teatrale. Era predisposto per “natura” alla generosità e alla cura degli altri, capace di ascolto e di attenzione, profondamente buono, qualità che lo hanno fatto amare da tutti. Sempre felice di scrivere una nota o una critica per i suoi tanti amici artisti, di offrire la mano a chi amava e a chi ispirava la sua simpatia ed empatia. Negli ultimi tempi osservava dalla finestra un senzatetto che dimora sotto casa nostra, per vedere se gli succedesse qualcosa. A Roma, dove si era trasferito dai primi anni del duemila, si faceva voler bene dai miei colleghi e compagni di partito, dai suoi amici artisti, dal parrucchiere, dalla farmacista, dal pizzicagnolo. Ha lasciato un ricordo indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociarlo sul suo cammino.
Mi chiedi di Giovanni artista e intellettuale. Tutto per Giovanni era arte. Dalla cucina, ai piccoli lavori di restauro, ai libri usati e recuperati dalle sue mani con maestrìa e poesia. “Faremo arte con tutto”, motto che credo abbia ereditato dal suo maestro ideale Emilio Villa, con cui era entrato in contatto e del quale amava parlare spesso, specialmente del loro incontro avvenuto a Roma negli anni Novanta. La sua formazione intellettuale era sterminata; se per la poesia visiva si sentiva debitore di Apollinaire e Villa, i suoi riferimenti letterari erano Rabelais e Cervantes, per il teatro il suo “idolo” intoccabile Carmelo Bene. Le sue letture spaziavano dalla letteratura, alla filosofia, fino alla teologia. Negli ultimi anni era particolarmente attratto dalla storia delle religioni e dei miti: la sua biblioteca si era arricchita delle opere di Robert Graves, Calasso, Kerényi, Zolla, Frazer al cui Ramo d’oro si era ispirato per una delle sue ultime opere “Laggiù qualcosa per Bene”. Frequentava con assiduità la biblioteca di quartiere Giordano Bruno da dove tornava con i testi di Heidegger, Levinás, Derrida, Husserl, Wittgenstein. Si chiedeva, quasi ossessivamente, se la filosofia avesse ancora qualcosa da dire. Ciò che lo stimolava era la filosofia del linguaggio, una ricerca estenuante che lo sfidava quotidianamente nella creazione artistica. Non posso entrare nel merito della sua scrittura, non ne ho le competenze, ma ho assistito a “parti”, alcuni semplici, altri dolorosi.
D- Qual era il rapporto tra Giovanni e il nostro tempo?
R- Un rapporto difficile, che si esprime in alcuni racconti e opere teatrali, specialmente. Per Giovanni era centrale l’esserci, la sacralità della vita, la bellezza, mentre la storia dissacra la vita. La poesia e la scrittura segnano il suo saper stare in presenza del mondo:”La poesia è male incurabile e contagioso, sfonda le pareti contorte del labirinto, tende alla sanità e si autocura, forse non è perfetta, non ha l’autofarmaco, non è rimediabile, ma, il ma non manca mai: è.” (Giovanni Prosperi).
D- Cosa ti piacerebbe che si conoscesse di più dell’attività e della produzione di Giovanni?
R- Mi chiedi cosa mi piacerebbe che si conoscesse della produzione di Giovanni. Io mi chiedo cosa piacerebbe a lui.
Ci sono lavori a cui teneva particolarmente come lo studio dell’Angelo antropomorfo nella storia dell’arte. Un saggio ispirato al pensiero di Aby Warburg e dedicato alla sua forza e passione. Avrebbe voluto continuare a lavorare per apportarvi “migliorie” e per vederlo pubblicato. L’unico che avrebbe voluto vedere in stampa.
Gli erano care anche le fiabe dedicate a sua figlia Martina. Non credeva invece che la poesia potesse avere uno spazio nell’editoria contemporanea, nonostante ogni occasione fosse buona per scriverne: su un conto di ristorante, una velina che ricopre le arance, un pacchetto di sigarette, un libricino creato da lui. Le sue poesie sono l’espressione che sento più vicina alla mia sensibilità, arricchite da un fiore, un coriandolo, un segno, un disegno, alcune semplici, alcune complesse, come la vita e come era Giovanni.
D-Ci salutiamo con alcuni testi di Giovanni a te particolarmente cari e con l’invito a scoprire il tesoro artistico e spirituale che questo autore ci ha lasciato.
R- Grazie Gabriella. Scelgo qualche verso inedito di Giovanni che ho pubblicato su facebook e che amo particolarmente.
Tu vai avanti
che il tempo
sviene
e
se lo porta via
la sirena dei ricordi
nella meridiana
del pendolo
o
del quarzo
.
(s. d.)
Anche nel più scuro
e acuto
dolore
vi è una scintilla
di felicità
che spacca l’angolo
e
illumina
l’estrema periferia
.
(s.d.)
Prova tu
a sognare
con passi zig zag
nel cuore.
E poi scendi
veloce
strette scale
pettinandoti
per un amore
nel passato.
Prova a stringere
una stella filante
per lanciarla in aria.
Prova tu ad avere
un ricordo cosi:
raro il sorriso
in quell’incontro
retto da soavi
ventate di timo.
Anima se oggi
ti inganni
dì al giorno
che converte
la notte
in alba
di prendere
il mio corpo
non dico in lui
ma appena
nell’alba
.
Venezia 1978
Piangendo e navigando,
onde
lieta la gioventù
cercava acqua
e accendeva fuochi
,
Sibilla
ecco il tempio
del decoro:
il labirinto che vola;
per un tributo
miserabile
ho tirato i dadi
con lo stile di una mano
che cede nel tempo:
offre il mistero
che nel monte
entra:
100 vie,
metà porte
e meno voci
per risposta
.
Ecco la soglia
e il dio
che compare
e muore
in volti
e colori
spettinati
fammi vedere
il tuo seno
!
Prima parte dell’opera “Laggiù una parte per Bene”
Difficile pensare qualcosa di più serio di due temi, comuni a tutti, essenziali, quali l’amore e la sopravvivenza. Difficile immaginare di parlarne attraverso la poesia con un tocco che, senza banalizzarli, può definirsi leggero ed incisivo allo stesso tempo. È quanto accade nel libro di esordio (poetico) di Viviana Viviani, “Se mi ami sopravvalutami”, edito da Controluna nel 2019. Nelle due sezioni, intitolate appunto “Amore” e “Sopravvivenza”, l’autrice scandaglia con acume e disincanto le complesse dinamiche dei rapporti interpersonali più importanti – di coppia, tra amici, tra genitore e figlio – in continua oscillazione tra un forte senso di empatia, soprattutto con i più deboli, e profonda solitudine. Con un atteggiamento mi verrebbe da dire infantile, in quanto scevro da sovrastrutture e contorsioni mentali (non perché non li conosca, ma perché ne è oltre), Viviana Viviani guarda e sente i movimenti degli altri e i propri nella loro essenzialità e, probabilmente, nella loro verità.
L’andamento della scrittura è quasi prosastico e colloquiale, ma ciò non esclude il dominio che l’autrice esercita sul testo dal punto di vista metrico e stilistico. Il tono e lo sguardo al tempo stesso divertiti e malinconici ricordano certa poesia del primo Novecento, catapultata in contesti fortemente connotati dalla nostra contemporaneità, dai suoi riti e dai suoi feticci.
Gli esseri umani in questi versi sembrano usare lingue differenti e parlarsi dai loro gusci, ermeticamente chiusi. I dialoghi sono spesso tragicomici tentativi unilaterali : “Se ci fosse una vita di scorta / starei appesa ai tuoi discorsi /inconcludenti e al tuo sorriso / saccente mentre dici weltanschauung / Ma ho una vita sola / e devo lavorare”. Parole e gesti di un teatrino di falsità, tanto tra amanti : “Ridi e parli di suicidio / e decomposizione / sorseggiando una birra, / bello come il sole / Poi te ne vai leggero / come un aquilone / lasciandomi qui / con la tua disperazione”, quanto tra amiche: “ Le amiche perdute / non si salutano al supermercato /poi s’incontrano per caso / a un matrimonio o un funerale / scambiano parole civili / ma non si sanno più”.
Il filo rosso della solitudine e dell’incomunicabilità, raccontate con ironia ma senza sconti, percorre tutto il libro: è dietro gli schermi di computer che quasi la presidiano, nel vissuto delle “vecchie signore” e del mendicante di strada, persino negli oggetti, come accade nel delizioso “La giovane stampante e il vecchio calamaio”, che racconta un improbabile incontro d’amore tra due strumenti di epoche diverse.
In bilico tra consapevolezza a tratti quasi cinica e delicata immaginazione, l’autrice disegna quadri in cui ogni cosa parla di libertà e di inevitabile condizione di solitudine, come in “Gregor non si fa prendere”, dove il ragno sfugge alla cattura e alle definizioni che lo costringono. Altre volte la poesia mette a nudo le contraddizioni di un mondo bizzarro e iniquo, di moralismi di facciata o epidermici, prêt-à-porter.
Con la stessa lucida onestà, l’autrice esprime il tormento di instaurare un dialogo con se stessi, con la paura di crescere, con la difficoltà di raccontare le proprie ansie: “qualcuno dirà che non conosco la morte (…) Il dottore dice sempre / tutto bene solo ansia / ma io sento che il mio corpo / mi insegue per uccidermi”.
Sono testi che ci interpellano su un nodo profondo: il bisogno di essere visti, in un mondo di performance, di etichette e di maschere, per quello che si è, nell’incontro che è stupore e gratuità: “tu indossami senza provarmi / comprami senza garanzia / se mi ami sopravvalutami”
C’è una dimensione epica e al contempo paradigmatica nel quotidiano, che l’arte talvolta riesce a cogliere e restituire, facendoci un grande dono, specie se quel quotidiano è logorante, spersonalizzante, quanto di più lontano dall’armonia, dalla sobrietà e, in ultima analisi, dalla gratuità. Appare così al poeta la sfibrante routine di un centro commerciale ipertrofico, caleidoscopio di luci colori suoni rumori sollecitazioni d’ogni genere, meccanismo senza anima che tritura tutto quello che contiene (merci, persone, idee, relazioni) in una catena senza respiro e sempre uguale a se stessa.
Il poeta in questione è Antonio Lanza, autore originario di Biancavilla, paese etneo, che quel contesto ha conosciuto bene, avendoci lavorato e avendolo osservato (e vissuto) nelle sue dinamiche. Il suo Suite Etnapolis, edito nel 2019 da Interlinea,è ambientato proprio nel centro commerciale di Etnapolis, alle falde dell’Etna, progettato dall’architetto Fuksas nel 2004, quinto in Italia per dimensioni e vivace attrattiva per molti abitanti della zona pedemontana e non solo. L’autore lo fa rivivere, nitido e spietato, in un libro complesso tanto dal punto di vista tematico quanto sotto l’aspetto formale, con una grande carica di umanità che non lascia indifferente il lettore.
Si tratta di un lavoro che può ascriversi al filone della poesia civile, nell’alveo di una tradizione ricca di contributi importanti (da Pagliarani a Di Ruscio, solo per citare alcuni nomi, fino alle più recenti uscite di Targhetta, Ilaria Grasso e l’antologia La nostra classe sepolta). Questo macrotesto, che al suo interno contiene trame intersecantesi e varie piste di riflessione, è però una realtà composita e sfugge ad una definizione univoca.
La prima scelta strutturale che balza agli occhi è quella di una sorta di prosimetro, che, a ben guardare, va oltre l’alternanza prosa-poesia e coinvolge modalità espressive diverse, dai messaggi social all’intervista, a tratti “censurata” alla Isgrò, dalla conversazione telefonica al monologo al flusso di coscienza, in una sorta di zapping, un susseguirsi e incastrarsi, in giochi di costruzione e decostruzione di senso.
Ne consegue un’interessante commistione di linguaggi, di materiali anche extra-letterari e di registri talvolta molto diversi tra loro, ma sempre funzionali ad una rappresentazione vivida, da presa diretta. Un’atmosfera tuttavia così onirica, atemporale, per quella ciclicità spietata che caratterizza la scansione del tempo nel centro commerciale, quasi novella creazione-coazione a ripetere di una serie di operazioni che tengono in vita quel mondo.
Il libro abbraccia infatti un arco temporale di una settimana lavorativa di Etnapolis, che inizia però dalla domenica, non a caso giorno di non riposo, in una cosmogonia centrata sulla vendita e sul profitto: “Santa e benedetta la domenica di Etnapolis, / santo il profitto santo lo sfruttamento santa la pena”.
È un mondo dentro il mondo, un’antonomasia, un congegno che si mette in moto, inesorabilmente uguale a se stesso, suadente e perentorio: “s’infratta distorto il messaggio: acquistare è buono. Tutta / Etnapolis è raggiunta da etnapolis, / non c’è angolo che scampi al suono / della sua voce”. Le ore, monotone e prevedibili, piatte e orizzontali nonostante il loro scorrere, sono scandite dagli annunci delle voci al microfono, la maschile, autoritaria, normativa, e la femminile, suasoria, invitante: “Il lavoro che sta per iniziare l’inizio / del lavoro il lavoro che sta per finire / la fine del lavoro tutto qui è predefinito / da voci registrate tutto qui è finalizzato / e che siano in sincrono tutte le attività”.
Nella bolla artificiale del centro commerciale “il tempo / pur passando anche di qui, qui / non lascia storia, perentorio / big bang di cemento da cui d’un colpo / questo bianco Etnapolis è sorto”.
Dentro questo ambiente si muovono personaggi molto diversi, ognuno con il proprio carico di sofferenza, ignoto al carosello che li circonda. I loro discorsi sono contraddistinti dall’uso di registri differenti tra loro: Alfredo, in crisi per l’imminente nascita di un figlio e con poche certezze nella vita, Samuele, dallo sguardo curioso e critico su ciò che lo circonda, Cinzia, che lo ama e condivide con lui la “prigionia” del lavoro di commessa, Vanessa inquieta neomamma, tormentata da una nuova immagine di sé- che non accetta- e dal pensiero di un bimbo che rivedrà solo a sera, Daria, assetata di vita, Laura, che vive nella paura di dover pagare cara la propria avvenenza, con l’ombra di uno stalker alle spalle.
Li accomuna l’opprimente sensazione di essere dei forzati del lavoro (“puntuale nel respiro / la coda dell’obbedienza”, “Etnapolis dei cani / sedati dietro le gabbie”), la “prigionia” (“Ti ricordi, con un misto / di eroismo e malinconia / il cielo com’era chiaro / prima di entrare / stamattina”, “Poi ci si ingrotta”), l’ansia sottile, persistente, della precarietà (“Un diffuso stato di allarme, inudibile / perché chiuso nel buoi dei polsi, / nei turni trascorsi / in solitaria: le lamentele, le minacce dei titolari perché / gli incassi sono al di sotto/ delle aspettative, la probabile / riduzione del personale”).
Accanto ai commessi, intorno, altre presenze che sembrano sagome, disegnate dai loro ruoli, ma che rivelano la propria umanità attraverso piccoli gesti, come la guardia giurata Nuccio o le addette alla pulizia, che, nel “coro” intitolato Le silenziose, esprimono attraverso la voce del poeta le frustrazioni di una vita: “(…) da ragazze, giovanotti / e buona sorte si alternarono in ginocchio, / i gradini delle scuole sembrando / un trampolino di tre metri da cui / staccarsi fiduciose per il tuffo: e poi, / come fu che poi l’aria a tradimento / si assottigliò”.
Sono tessere di un’umanità mortificata da tempi, ruoli, contesti che la costringono in una gabbia, reboante, di luci e ombre: “colonia penale, Etnapolis / pista di decollo, navicella spaziale, Ecclesia – / piàcciati entrare intera nel mio canto, / le luci come l’immondo”.
Originale, nel suo attingere alla tradizione, appare lo stile. E non è un paradosso, ma una delle operazioni più delicate che un autore possa decidere di compiere. Nella scrittura di Antonio Lanza troviamo rimandi alle narrazioni più antiche, dalle Sacre Scritture all’epica classica, poiché è costante tanto il richiamo alla forza declamatoria dell’epos quanto ad una sorta di nuova “sacralità” del contesto commerciale, entrambe in chiave non direi parodistica, ma comunque rovesciata e problematica.
Ecco dunque, da una parte, la descrizione dei personaggi mediante epiteti (i clienti “camicia a scacchi”), inconsueti patronimici (“Laura di Lovable”) e accusativi alla greca, la costruzione della frase con i gerundi e con calchi dell’ablativo assoluto; dall’altra parte, il tono salmodiante di alcune parti e il richiamo esplicito ai costrutti di Qoèlet (“Etnapolis di etnapolis” come “Vanità di vanità”). L’uso di artifici retorici si muove su una doppia linea di intenti: è aderente, quasi in modo mimetico, all’oggetto, nel caso dell’accumulatio, coerente al susseguirsi convulso di clienti, di merci, di scontrini; risulta invece “straniante” nel ricorso all’aggettivazione spinta, articolata in endiadi e in ossimori, che collocano Etnapolis in una dimensione atemporale e dialettica: “Materna e Moloch / Etnapolis, Mammona e Maschera / di lupa – Multisala, Multicefala” o le dedicano complesse litanìe: “Amaro e noia Etnapolis, pletora / di insegne Etnapolis, macropaese / di sconosciuti, Idolo, Edicola, / Obolo, Offerta Votiva”.
La bulimia di Etnapolis, “nuvola a vuoto dell’euro”, sembra inarrestabile: solo un evento o una presenza esterna, più volte confusamente immaginata, paventata e allo stesso tempo quasi desiderata dalla voce narrante, potrebbe portare un cambiamento di segno. Sarà quel che accadrà nella parte finale del libro, schiudendo nuovi scenari nei quali l’autore non si inoltra.
Al di là delle scene concitate (e profetiche) dell’epilogo, che non voglio anticipare, resta impressa nella memoria di chi legge la scena potente, centrale, nella quale si lacera la borsa degli acquisti con l’eloquente logo Hevel, termine che rimanda al campo semantico dell’inutilità, del non senso, ennesimo richiamo all’Ecclesiaste. La borsa della spesa si squarcia e tutte le merci si spargono caoticamente per terra: immagine emblematica del vano affannarsi ed accumulare, tanto nel micromondo di Etnapolis quanto, a più larga e drammatica scala, nel villaggio globale, iperattivo e miope del consumismo odierno.
Alcuni testi
Vergine e pubica la domenica di Etnapolis
pochi minuti prima dell’apertura
al pubblico, ma già la percorrono
i primi polpacci pelosi e carrelli
Iperfamila che sferragliano vuoti.
Al mattino le commesse hanno il volto
tagliato di sghimbescio da un tratto
rosso di uniposca e bevono decine
di caffè al bar di Prestipino.
La vita, poi, si attiva con precisa
lentezza dentro e fuori i negozi;
la vita è cieca, automatica: erompe
da gesti meccanici, mnemonici,
minimi, quotidiani, come la spazzata,
i numeri a tre o quattro cifre sul registro
dei corrispettivi, l’avvio dei computer.
*
“Ma ce l’abbiamo il tempo, ce l’abbiamo?”
ancora sott’acqua, sotto il lenzuolo
blu, la mente è un’alga
marina che si presta alle correnti
e le parole brillano su, a scaglie.
Cinzia è stesa su un fianco,
il viso disteso dal sonno
“Voglio dormire ancora” lamenta
“e poi fare l’amore” e imbroncia le labbra.
La sveglia: Zivago
e un fazzoletto sul comodino;
il corridoio, la cucina,
la rapida colazione, l’aperto
mattino all’imbocco
della SS 284, e le ombre
dei cavi elettrici
sull’asfalto, il bordo
della strada disseminato di cani.
Poi ci si ingrotta.
*
Il cliente ha bisogno
di sicurezza il cliente
ha bisogno di divieti il cliente
necessita di regole
il cliente vuole l’ora
esatta e l’esatta
sua posizione, che ci siano
le guardie con l’uniforme, le telecamere,
e che qualcuno gli rammenti le telecamere,
la squadra antincendio,
il pavimento pulito, che tutto
funzioni, confini certi,
che il sapone nei bagni, che di domenica
la messa, che le eventuali informazioni,
che i prezzi ben esposti, che tutto
torni.
*
DARIA (A CINZIA; ORA DI PRANZO, IN CASSA)
Bedda, ma come riesci a mangiartela tutta, quella bolognese è due volte la tua faccia! Un euro e cinquanta, grazie! Ma hai saputo che è successo? Come, no?! La macchina di Laura. Poco fa, non lo hai sentito? Le hanno fatto trovare tutti e due gli sportelli aperti e una bottiglietta di benzina sul sedile. Ma com’è che non hai sentito nulla?
*
MAMMA: Non sei tu, io lo vedevo che non eri tu, e lo vedo ora, ma adesso senti, un bar, non c’è un bar, che so, lì vicino, ti prendi un bicchiere d’acqua, che so, una…per non metterti subito a guidare, una fanta, troppo agitata sei per guidare, post parto, ossantiddio, così la chiamavano lì, perché non devo ricordarmi subito le cose, depressione post parto, quel programma che fanno dopo il tiggì, che tuo padre ogni volta, ma gioia mia credimi, non è niente, un bar, allora, ché lì vicino un bar ci deve essere, ti fai due passi, ti lavi il viso…
*
Chiaro e sorridente si apre l’allegro
carnevale di volti, chiaro
perché cola dai lucernari umana
una luce dietro cui Etnapolis per ora
un passo indietro si ritrae a
trattenere fiato e incantamenti.
*
Volge in sera
il pomeriggio (…)
(…) e per congiura manda
pane più buono la radio, la voce
roca di Bonnie Tyler che dichiara
che è stato solo un gioco folle
nient’altro che un gioco folle,
e a qualcuno dei distratti
o dei commessi potrebbe persino
avvenire di sentirsene punto,
lì dove più molle e non difeso
da ossa attende paziente il dolore
di essere vivi.
Tre domande ad Antonio Lanza
D: Da quale sostrato personale nasce Suite Etnapolis?
R: L’idea di scrivere Suite Etnapolis nasce da una esperienza lavorativa in una libreria di catena proprio a Etnapolis, dal 2011 al 2015. Nonostante la stesura del poema mi abbia preso soltanto gli ultimi due anni, tra l’agosto del 2013 e l’agosto del 2015, posso affermare che Etnapolis è stato da subito uno straordinario motore di immaginazione e di scrittura. L’ambiente lavorativo rilassato, le luci, la musica, la festa perenne mi suggerivano però storie, idee e temi improntati a un tono ironico, giocoso, al più sarcastico. E la poesia sembrava restarne fuori. Poi però è arrivata la crisi economica, con il conseguente dramma dei negozi che chiudono, degli amici che perdono il lavoro, dell’allarme sempre più prossimo che tra poco potrebbe travolgere anche te, appena sposato e con un figlio in arrivo. Mi trovavo al punto in cui storia personale e destino collettivo si incontrano, e contavo di poterlo raccontare, che ne valesse la pena, e stavolta sì, attraverso la poesia.
Ero ossessionato dalla poesia, ormai da anni, da sempre. La mia scrittura, mi sembrava, era uscita già da un po’, anche se in ritardo, da quel limbo che è il puro esercizio. Ero approdato a una più consapevole necessità espressiva, ma era come se non riuscissi ancora a incanalare bene una “forza” che avvertivo dentro, a darle una forma. Ciononostante, la presentivo. Il pensiero ostinato della scrittura, la cieca tensione verso la scrittura, ma senza che niente sgorgasse davvero, o quanto meno nulla che mi convincesse. Poi un giorno di agosto del 2013, “Vergine e pubica la domenica di Etnapolis”, il verso di apertura del mio poema, è stato insieme un dono venuto da chissà dove e una sfida lanciata e non più ritrattabile, il momento in cui per la prima volta mi sono sentito finalmente straniero a me stesso, e fino in fondo me stesso.
D: La scelta di una pluralità di voci, di linguaggi e di registri è nata a monte o in itinere, nel percorso di elaborazione dell’opera?
R: Probabilmente era proprio il sentirmi costretto all’uso di una sola voce – autobiografica e solipsistica – che ingabbiava la mia voce, il motivo per cui sentivo un abisso tra le risorse espressive che pensavo di avere e l’asfittico rivolo di scrittura che veniva fuori nella pagina nel corso delle prove precedenti, di cui non ero mai soddisfatto. L’insoddisfazione era del resto generale, investiva anche le mie letture di allora. Ero convinto che la poesia fosse un mezzo potentissimo di presa di possesso e di trasfigurazione del reale, eppure leggevo tanta poesia contemporanea che mi pareva rinunciare a quell’impresa, farsi pigramente frammentaria, monolinguistica e monostilistica, adagiarsi su alcuni facili trucchetti, giungere in fretta a una qualche epifania, fare bene il compitino, non sbagliare, non rischiare. Desideravo andare invece nella direzione opposta, anche se più esposta al rischio del fallimento. Nonostante avessi pensato inizialmente a un solo personaggio (quello del commesso di libreria, che per di più aveva il mio stesso nome) capace di portare su di sé il significato dell’opera, gli altri personaggi pirandellianamente reclamavano più spazio, desideravano muoversi, avere una loro storia da compiere, ciascuno era certissimo di poter arricchire con pari dignità il senso del libro. Sono quindi giunto presto alla convinzione che non sarebbe esistito un corifeo che parlasse al posto o per conto del coro. Non mi sono dato limiti, del resto. L’unico limite era: è davvero necessario questo o quell’espediente, questo o quel salto linguistico o stilistico? L’opera è cresciuta su sé stessa, portata dalla sua stessa forza, direi, fino a rompere gli argini della poesia e diventare, nella quinta sezione, quasi per naturale conseguenza, anche prosa. Suite Etnapolis mi è cresciuta come un albero.
D: Se dovessi pensare ad un’altra versione di Suite Etnapolis, come la immagineresti? Una rappresentazione teatrale, una versione cinematografica o altro?
R: Spero che chi legga Suite Etnapolis senta che l’autore, come notava Andrea Accardi in un suo intervento sul mio libro, stia in realtà muovendo una telecamera, che le “voci” che lo abitano non siano soltanto voci, ma personaggi che si muovono e interagiscono in uno spazio fisico, che infine “suite” rimandi già dal titolo alla musica, alle suite della musica rock in particolare. Ho sempre amato quelle opere che non abitano soltanto un genere, che riescono a sconfinare, a straripare, a trarre linfa da altri linguaggi: penso a un album come The Wall dei Pink Floyd, per esempio, diventato poi un film, o a Dogville di Lars Von Trier, recitato in uno spazio che potrebbe essere il palcoscenico di un teatro, scandito in capitoli e raccontato da una voce esterna, che può far pensare al narratore di un romanzo. Ho avuto già due contatti per una possibile riduzione teatrale di Suite, poi per vari motivi naufragati. Sarebbe un sogno, poi, se si potesse realizzarne una versione cinematografica, ma non oso sperare tanto. Da qualche tempo, invece, mi è saltata in mente l’idea di cercare contatti nel mondo editoriale del graphic novel. Insomma, come uno dei personaggi che mi è più caro di Suite Etnapolis, Daria, la cassiera del bar che infine compie una radicale, splendida “metamorfosi”, mi piacerebbe che anche il mio libro smetta di essere soltanto un poema.
La pandemia di Covid19 ha investito tutti come un’enorme nuvola tossica. Nostro malgrado ci siamo trovati ad abitare un tempo sospeso e incerto. Siamo stati ‒ e forse siamo ancora ‒ come comparse in un film di fantascienza senza ritmo, girato da un regista debuttante e finanziato da produttori a corto di liquidi. Poco ritmo, zero effetti speciali e soprattutto noia, tanta noia.In questo scenario apocalittico, causa la costante preoccupazione per il futuro, poche sono state le attività ricreative. In molti hanno cucinato e mangiato oltre misura.
Altri hanno recuperato letture fondamentali. Gli operosi hanno tinteggiato casa. I più fortunati, infine, hanno fatto sesso. Un sesso diverso, stavolta, perché adombrato o sublimato dalla possibilità che potesse essere l’ultimo.
“Il 24 febbraio 2020, due giorni dopo aver viaggiato su un treno da Roma a Milano che, solo per un caso, non era quello fermato alla Centrale perché trasportava attraverso l’Italia alcuni tra i primi casi di corona virus, mi sono svegliato all’alba. Mi succede spesso, non solo in tempi di pandemia. Verso le 6 ho scritto su Facebook un post in cui mi domandavo se non sarebbe stato interessante raccogliere racconti sul sesso in tempo di peste. Nel giro di due ore ho avuto più di settanta adesioni. A quel punto ho chiuso il post, in qualche modo operando anch’io una sorta di quarantena. Chi era dentro, era dentro; chi era fuori, era fuori”.
Dalla premessa del curatore Filippo Tuena nasce l’idea di questi racconti (più di 50 per altrettanti autori), ognuno dei quali risponde alla domanda: come è, o potrebbe essere, l’ultimo sesso prima della fine?
La pubblicazione, per ora, è prevista in solo formato digitale. L’e-book sarà disponibile sui maggiori store online a partire da sabato 13 giugno 2020.
I proventi dell’intero progetto editoriale saranno devoluti al Centro Senologico dell’ospedale “G. Bernabeo” di Ortona ‒ ASL Lanciano-Vasto-Chieti (Abruzzo)
Filippo Tuena è autore di saggi di storia dell’arte e di romanzi. Tra i suoi libri: Tutti i sognatori, Super Premio Grinzane-Cavour 2000; Le variazioni Reinach, Premio Bagutta 2006; Michelangelo. La grande ombra, 2008; Stranieri alla terra, 2012; Ultimo parallelo, 2013. Ha inoltre curato Robert F. Scott. I diari del Polo, 2009 e il fotografico Scott in Antartide, 2011.