Il viaggio è dentro. La poesia di Antonella Rizzo

di Gabriella Grasso

 

Una tensione elastica attraversa tutta l’opera di esordio di Antonella Rizzo, “Addio ai platani, minima raccolta poetica di 33 vite”, come la definisce la stessa autrice nel sottotitolo (Oistros, 2020). Sono oscillazioni tra poli, ma al tempo stesso tappe di un cammino spiraliforme, che assume a volte le forme di un ritorno, mentre contiene già in sé nuovi germi. Dal Salento a Milano, all’Africa amata nei suoi angoli e nella sua gente, a quella ritrovata in vesti nuove in altrettanti angoli della metropoli italiana.

Tutto il libro è mosso da una dialettica interna, dinamica, tra il moto e la permanenza, tra le radici e i paesaggi che mutano, elementi non in aperta antitesi, ma in continuo, fertile richiamo, perché il viaggio è innanzitutto un’attitudine e una conquista interiore, mai definita una volta per tutte: “Milano è un’altalena / è sempre là dove non sei più” e ancora: “Giunge la fine tra la pioggia e le alici / un venerdì di memorianegata /fino ai confini del mare. / Giunge e piove, senza dubbio / Sotto l’ombrello rosso / un cielo d’assenza scrive la fine. / Giunge doppia ogni vita, / una tace come morte / l’altra si impiega dopo l’inizio. / Giunge ogni cosa che finisce”.

Ogni movimento è un cambiamento, è una morte e una nascita, uno sguardo che si
rinnova sulle cose che si lascia alle spalle e su quelle a cui va incontro: “Quella
tovaglia ha l’odore delle cose perdute / rimettila nella credenza / accanto alle mie
assenze”, “Qui ogni cosa finisce al mattino / (…) Milano non sa che vado via, non
chiede. /Dopo la luce apre il ventre fino a sera /Se non dormi, / lei ti porta il profumo
dei platani. / Se ti accorgi che è bella, /ti toglie il sonno / e succede di notte”. Tutto è
inciso dentro, tutto è dato, ma allo stesso tempo lascia margini da scoprire, da
interpretare, per una continua, forse impossibile, ridefinizione: “Non sono morte / si
nascondono ancora le cicale, / in lontananza tornano a battere / la terra che ho
dentro”. I luoghi, evocati con la precisione dei nomi mentre assurgono a contesti dell’anima, non perdono la loro materialità, resi attraverso una sensorialità vivida, legata alle suggestioni che ogni ambiente suscita: la poesia di Antonella Rizzo è infatti una trama di profumi (limone, menta, arance), sensazioni del gusto (miele, latte, “storia fritta”, succo del mango, kebab…), dati visivi relativi sia a paesaggi urbani, sia a lande esotiche, tanto note e care all’autrice. Nel richiamo di luoghi e sapori tutto si confonde, senza perdere – che mistero – la propria identità. Un trionfo di sensualità che si celebra anche nell’incontro con l’altro e nella relazione d’amore e che si declina come stupore e devozione: “bacio i tuoi piedi come radici / la notte sbuccio i tuoi giorni”, “la mia notte ti ascolta devota / come la baia il mare”.Corpo, volizione, tensione del movimento si contrappongono alla stasi, all’immaterialità, queste ultime però non segno di resa, ma di resistenza: “Audace è andare / audace è stare / audace è il niente che qui succede”.

Che cosa lega contesti e vissuti, anche a volte molto distanti tra loro, cosa li rende molto più di semplici fotogrammi giustapposti nella memoria di chi li descrive? Li accomuna un filo profondo, quello della partecipazione e della fratellanza, anche nel dolore.Due temi ricorrenti sono infatti quello di un dio morto e ritrovato in un dialogo audace e confidenziale, oltre gli steccati delle etichette confessionali, nel ruggito vitale di un’anima, e quello della guerra. Ogni guerra ha il suo portato di sradicamento, di azzardo, di morte, il cui prezzo non sarà mai pagato dai “sazi”, ma dai fragili: sono bambini privati del nome, a cui solo il gesto poetico può tentare di restituirne uno, uno per tutti, Ibrahim. A lui la voce dell’autrice rivolge l’invito più accorato: “Ibrahim, canta!” La poesia germina proprio in queste anse della storia, nella spirale del ritorno e dell’incontro, nel movimento mai unidirezionale tra l’origine e la meta, dove tutto è mutare e ri-conoscere, nominare “senza dire, senza nome”. E’ così che l’arte può diventare creazione di nuove possibilità: “Fammi radice e frutto /dammi ragioni e follie /trasformami in Africa / perché il suo viaggio non abbia un ritorno lontano”.

Alcuni testi

Trieste al molo

Qui non succede niente.
Non può succedere niente.
Tutto è audace qui.

Audace è andare
audace è stare

audace è il niente che qui succede.

Salento

Non sono morte,
si nascondono ancora le cicale,
in lontananza tornano a battere
la terra che ho dentro,
quella addosso, quella che è carne.

Il limone con le foglie nere
fa frutti sul muro della vicina,
accanto all’agave.
Ancora.

Tante cose ho portato per tornare,
e qui non so più nulla.

Sto con la terra,
con il limone, in una luce che mi tiene ferma
a un passo dal tempo.

Dea

Tu non sai, uomo.
Io ho tradito,
io ho portato
oltre la vita,
oltre le parole
oltre ogni peccato,
oltre ogni regola,
oltre ogni regola.

Cosa dici al tuo Dio, ora?
Inshallah?
Tu non sai, credi a me.

Io parlo al tuo Dio.
Desidero,
corro,
mento
me ne frego.

Io e il tuo Dio, uomo,
sappiamo più di te.
As-salam aleikum. Amen.

Ibrahim, canta!
Dopo la pioggia Ibrahim prese soldi muti
e sua madre cadde nel blu.
La storia è rotta nei canti del mare,
ha racconti finiti quel giorno.

Un legno orfano
galleggia piano sull’acqua di un porto chiuso.
Dopo la pioggia nessun nome è storia.

Tre domande ad Antonella Rizzo

D: Quanto le radici sono un limite (se lo sono) e quanto una risorsa nel tuo fare
poesia?
R: Le radici in generale e le mie in particolare sono un luogo mitico, inesistenti
eppure essenziali per ogni inizio e ogni fine. In quanto tali esse per me sono
ovunque, in ogni storia che ascolto, in ogni vita che incontro. La scrittura
poetica per prima è radice e fine.

D: Trovo che l’esperienza dell’incontro sia protagonista in questo libro. Cosa
rappresenta nella tua vita e per la tua scrittura?
R: Accolgo questo tuo sguardo sulla raccolta e la proposta che per te l’incontro
sia centrale in essa. Non lo so se lo sia, se hai visto questo probabilmente è
anche così. L’incontro è per me un movimento di smarrimento, una ricerca
continua di aggiustamenti di sé, un esercizio fallito di tracciamento di confini.

D: Cosa intendi con l’aggettivo “minima” attribuito alla tua raccolta? Una scelta
stilistica o una postura esistenziale?
R: Fatico a vedere una differenza tra una scelta stilistica e una postura
esistenziale. Intendo “minima” una scrittura che è prossima al necessario pur
non essendo tale. Un po’ come una fonte di energia portata al suo limite
minimo, garantisce le funzioni o gli affari vitali, non superflui.

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