Rosaria Catanoso, Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica

Di Ivana Rinadi

Il volume di Rosaria Catanoso  Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica, (Fondazione Giacomo Matteotti, 2021) è frutto di una lunga e accurata ricerca che con lo sguardo rivolto al passato fino al presente ha tracciato la figura dell’intellettuale nelle varie epoche storiche. Una ricerca accurata che emerge dalle numerose e puntuali note su cui ci si sofferma perché è da queste che sorgono le domande più interessanti.

L’autrice, docente al Liceo, collabora alla cattreda di Filosofia politica nel Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria. Si è dedicata a  lungo al pensiero di Hanna Arendt, l’ultimo suo studio è la monografia Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia (Giappichelli, Torino 2019). Ciò che le interessa in questa ricerca non è offrire uno sguardo acritico dell’intellettuale, bensì ri-definire il ruolo che i pensatori e le pensatricipotrebbero ancora avere in una fase in cui la politica è al suo tramonto e sulle cui cause continuiamoa interrogarci e forse provare a dare qualche risposta. Sicuramente è venuto a mancare quel nesso necessario tra passione e razionale organizzazione collettiva, un nesso indicato da Gramsci e che ha portato all’inarrestabile declino della forma partito come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso.
Ovvero, la crisi di quella forma della politica che pur avendo colto la necessità del soggetto collettivo, si lascia sfuggire la relazione. Se nel secolo scorso a tener viva la democrazia erano i corpi intermedi, partiti e sindacato, oggi ne siamo in qualche modo orfani. Ad essi si sono sostituiti i populismi di varia matrice che invece di produrre cultura politica e partecipazione creano divisioni più che coesione, consenso su slogan più che sui contenuti. Il criterio populista che unisce le classi
dirigenti (politici, giornalisti, opinion makers) è il disprezzo per la cultura, per le ragioni della storia, per la credibilità dei testimoni e della memoria, per la lucidità della parola e la complessità degli argomenti.

Nell’era globale assistiamo paradossalmente e ne stiamo vivendo i drammatici effetti al risorgere dei nazionalismi. Rifiorisce l’idea di confine, si alzano muri, risorge all’orizzonte la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Ancora più pericoloso è il non pensiero, inteso come mancanza di senso critico, di comode recezioni dei luoghi comuni, delle generalizzazioni che i media e i social ci propinano quotidiamente. Non meno grave della crisi della politica è lo scadimento dell’informazione: la nozione di sfera pubblica a partire da Mill, Tocqueville, Habermas, Arendt, è fondamentale per la democrazia che presuppone un’opinione pubblica informata, capace di scegliere; in realtà la società digitale ha svuotato di senso la figura critica e di custode della verità dell’intellettuale.

I messaggi ridondanti e veloci, il linguaggio semplice, essenziale, persino banale, ha fatto sì che la quantità prevalga sulla qualità. Il nuovo pensiero globale omologa e tende ad escludere voci critiche. Alla figura del mâitre a penser si è sostituita la figura dell’influencer. L’intellettuale da schermo, dice Alberto Aghemo nell’introduzione al volume, è diventata una presenza costante nei talk show, sui social, nei blog, divenendo funzionale al sistema. Insomma una nuova mutazione antropologica prima che culturale. In questo quadro in cui si inserisce anche la crisi dell’istruzione, delle scuole e delle università, luoghi politici per eccellenza, dove si dovrebbe imparare a pensare più che a conoscere, gli intellettuali, che siano filosofi, scienziati, storici, insegnanti stentano a trovare una loro collocazione positiva nel risvegliare l’intellettuale che è in ciascuno di noi.
Rosaria Catanoso ci ricorda quanto negli anni Sessanta e Settanta fosse importante la funzione intellettuale, un tramite tra il sapere,la cultura dell’élite e la cultura popolare. Lo fa soffermandosi sui tanti progetti che provavano a definire la funzione dell’intellettuale: ovvero colui/colei in grado di mettere a punto un apparato teorico da utilizzare sul piano politico. Ci ricorda le esperienze delle
riviste Critica marxista, Il Contemporaneo, Società, Il gruppo 63 e le tante voci che hannocontribuito a una democratizzazione del sapere.
In questo percorso non mancano le domande:

– Cos’è l’intellettuale? Chi è l’intellettuale? Come si chiedeva Eugenio Garin.
– Possono essere gli intellettuali guida del popolo? (Edith Stein)
– L’intellettuale deve essere chiuso nella sua torre d’avorio con i limiti denunciati da Panofsky e con le sue potenzialità, ovvero la possibilità di esercitare un controllo, segnalare i pericoli per la libertà?

Certo, sostiene l’autrice, l’intellettuale che sia filosofo, storico, giurista, filologo, scienziato, non dovrebbe mai rinunciare alla verità. Anche se questi non è mai figura neutra, entra in gioco con la sua soggettività, con il rischio di moltiplicazione di tante verità, comunque ci si aspetta che non proponga teorie ex-cathedra per le quali non fornisca un’indicazione. In passato abbiamo assistito alla rinuncia di alcuni intellettuali alla loro missione di custodi della verità: l’autrice ricorda le denunce di Ortega y Gasset che in La ribellione delle masse evidenzia la crisi della società spagnola dovuta al divorzio tra le èlite e masse; Croce in Italia che nella sua Storia d’Italia (1928) e in Storia d’Europa (1932) richiama gli intellettuali a non essere asserviti al regime fascista. E ancora Gramsci che ne I quaderni dal carcere e Gli intellettuali e la cultura invita all’uso pubblico della ragione, alla coerenza tra pensiero e azione, all’attenzione per l’altro. Infine Bobbio secondo cui l’intellettuale deve seminare dubbi, non raccogliere certezze. Dunque, la politica come gestione della Res publica non può rinunciare alla critica del pensiero. Il non riconoscimento della funzione culturale ha sottratto alla stessa le sue funzioni originarie, costringendola a trovare radici nell’economia, nella tecnica, nel digitale, nella medicina. Nostro compito è ripensare un ceto intellettuale in grado di elaborare criticamente l’intellettuale che in ciascuno di noi esiste. Non più arroccato nell’accademia, egli diventa anche organizzatore e costruttore della politica, non un politico di professione, bensì una figura che proponga un uso
pubblico del suo sapere professionale.

A conclusione del suo volume, Rosaria Catanoso ci offre una sua visione: la necessità di superare la tecnica e avvicinarsi al mondo con stupore poetico. Abitare poeticamente vuol dire che la poesia è alla base della nostra comprensione del mondo che si apre come spazio di stupore e di possibilità. Uno stupore che contrasta l’ideologia del fare, della tecnica, del capitale che ha condotto il vivere all’insignificanza e al non senso perdondo di vista il telos e il fine, pronto ad accogliere la differenza/le differenze. Per questo la politica ha bisogno della cultura e della sua critica perché diventi strumento di trasformazione e risponda a un desiderio di giustizia.
Da qui l’esigenza di riallacciare un legame tra ethos e polis. Allora l’azione sarà pensata e il pensiero agito. A conclusione dell’intenso e problematico percorso, l’autrice ci lascia un’immagine intensa che sa di auspicio e di impegno: “ Tra un passato perduto e un futuro da inventare, il presente è il tempo del cammino”.

Pirandello al quadrato

 

 Luigi Pirandello ritorna in Sicilia nell’occasione della morte della sua balia, e si imbatte nella compagnia dei tragicomici Onofrio e Bastiano, attore e aspirante drammaturgo di una compagnia di amatori in fase di realizzazione del loro spettacolo “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu”.

Questa la  struttura realista del film di Andò, che ripercorre la tappa siciliana di Pirandello, il suo incontro con Verga, e conclude con la prima di  Sei personaggi in cerca di autore, fischiato dal pubblico romano del teatro Valle, poco prima che il dramma diventasse il modello di un nuovo teatro, nel podio dei piu grandi drammaturghi europei, fino al Nobel.   Interviene poi nella struttura a cornice, la storia parallela, innervata dalla stranezza, la stranizza tutta siciliana, visionaria e obliqua, che spezzetta la realtà in frammenti disseminati che tutti assieme hanno il loro senso, la loro “quadra”. È un senso che esige l’abbandono della verosimiglianza, delle regole classiche del teatro, di tutti quei patti narrativi che hanno permesso all’arte di svolgere il suo mestiere e al teatro di essere catarsi e rispecchiamento. La stranizza, come la rottura della quarta scenica è una folata di scirocco che ci rende tutti pazzi, ma lucidi, come Enrico IV alle prese con il suo sdoppiamento.  Non va compresa ma “intesa”, respirata, come tutte le piccole follie siciliane che Sciascia (cui peraltro è dedicato il film come si legge nei titoli di coda) ha tratteggiato, con la precisione di un cesellatore, di modo che apparissero- borgesianamente-  reali più del reale stesso. Andò tenta allora di applicare il metateatro pirandelliano ai personaggi che animano questo film, ne fa visioni, personaggi del processo creativo, follie animate, macchiette spiritate.  Gli appaiono, sono reali e surreali, immagini e persone, sono maschere anch’essi.  Il serbatoio di questo processo  che porta i segni del cortocircuito tra vertà e arte- già maturo –  è quella Sicilia che è rappresentata soprattutto dalla farsa, dalla battuta mordace, dallo stereotipo che si fa carne pensante, da quell’apparente semplicità che è complessa come il sorriso della balia morta, l’irrisione della morte, ancestrale e tragica. Come è arcaico, del resto, il legame con il farsesco e la commedia: non è forse stato Plauto ad anticipare il metateatro e la rottura della quarta parete? E si ride allora, con i magistrali Ficarra e Picone deuteragonisti invasati da una gioia della recitazione che si percepisce a ogni singola battuta. Si ride di noi, della vita che ci supera, di Pirandello che ci ha raccontato le nostre maschere, i nostri amari sorrisi, la nostra “stranizza”. E’ un film che ha reso meno cerebrale Pirandello e lo ha giustamente annodato a radici terragne che probabilmente, come tutti i siciliani emigrati, tendono a diventare vagheggiamento nostalgico. Un affastellarsi di grumi spazio temporali che – e ci sta pure- riportano tempo e memoria a uno stato coscienziale più che reale. Non cercate insomma la genesi dei Sei personaggi n Sicilia, non cercate il viaggio nostalgico di Pirandello, perchè la stranezza, come il flusso della vita,  non la puoi rinchiudere nelle forme.  Interviene la leggerezza della boutade siciliana a raccordare tutto, riuscendo nel suo intento primario.

 

La Sicilia “weird” di Sigonella Secrets

Sigonella secrets, sequel del precedente Sigonella Files è il nuovo  romanzo di Vincenzo Sacco (Biblioteka 2022) che si muove nell’alveo della tradizione del thriller, sci-fi, del distopico e che al contempo attinge a una ricca fonte di ispirazioni, molto eterogenee, tra le quali spicca sicuramente il romanzo americano contemporaneo. La sua  fisionomia ibridata ha una base autoctona: Sigonella Secrets, infatti, è ambientato nella base militare di Sigonella in Sicilia e da lì prende avvio una fittissima trama di eventi che ruotano attorno al tema della cospirazione, del complotto dei poteri forti  di stampo terroristico e dei giochi di potere. L’intreccio tra America e Sicilia si spoglia degli abiti logori della tradizione migrante  novecentesca e si apre a nuovi e originali scenari: questa cellula di americanità incistata nella terra sicula diviene occasione per guardare in faccia, senza infingimenti, “l’innata rabbia cieca dell’America”, per dirla alla Roth, autore che spicca nel sottotesto del romanzo spesso e volentieri.

 Pastorale americana e La macchia umana sono sicuramente testi che sovvengono a un lettore attento che voglia andare oltre per leggere nelle anime dei protagonisti le vere contraddizioni  di un sistema di vita che non è soltanto americano ma che è occidentale, col suo carico di automatismi e aberrazioni. Lo sguardo narrante è affidato a voci spesso irriverenti- anche nel linguaggio- che portano il loro carico di esistenza prima di diventare macchine da guerra: tra tutte, spicca una voce femminile che è lontana dallo stereotipo di genere almeno tanto quanto lo scenario siciliano che fa da sfondo alle azioni dell’agente segreto; lei si chiama Violet Mc Bain, una donna  dal passato tormentato, temprata dalla vita che non le ha risparmiato nessun dolore fisico e morale. La sua personalità scompagina ogni ordine precostituito, chiunque si infranga nel suo mondo frastagliato, nel suo modo maschile, violentemente sensuale,  ne rimane segnato,  sebbene “detesti che le diano del maschiaccio”. A metà tra le Tank girl e  le virago del fumetto americano anni ‘60,  l’agente Mc Bain si rivelerà fondamentale per dipanare con intuito e determinazione un’ intrigata storia che vede curiosamente uniti carabinieri, militari e agenti segreti. Nessuno si aspetti un’eroina salvifica, la sua missione è in fondo un tentativo di recuperare individualisticamente un senso, di là dal progetto. Se il mondo è finzione, complotto e maschera, la scrittura di Sacco tenta di restituire una verità scomoda e indicibile.

Non ci sono assunti manichei in questo romanzo: il genere  umano si abbevera alla fonte del bene tanto quanto a quella del male, l’impasto che ne deriva vive nella sua zona grigia senza interventi moralistici. Il romanzo di Vincenzo Sacco è scritto come se al posto della penna ci fosse una videocamera; i riferimenti filmici sono tanti e non sono ridondanti citazioni, fungono da raccordo visivo a una scrittura veloce,  da action movie , che snocciola un mondo a scatole cinesi, dove gli eventi nascondono sempre un significato altro, da ricercare tra  i grandi marchingegni del potere o tra le pieghe intime dei personaggi sempre ben delineati psicologicamente. Vincenzo Sacco riesce a ricostruire l’identità siciliana in uno scenario contemporaneo dove l’isolitudine siciliana si confronta con stimoli di diversa estrazione; ne viene fuori una Sicilia “weird”, che si riconosce solo dopo uno sguardo attento, dopo aver collocato l’american dream ai margini della nostra aspra Trinacria e averne colto le ceneri ancora fresche. Da leggere con un Americano in mano.

“Ho trecce indocili d’aglio”. La poesia di Margherita Ingoglia

Di Gabriella Venera Grasso

 

Un tessuto poetico che è contrappunto tra norma ed eresia, appartenenza e libertà eslege, ‘abiti buoni’ in un imbroglio di corpo’: è questa la trama attraverso la quale si snoda la scrittura di Margherita Ingoglia, autrice pluripremiata all’Etnabook 2022. Strega vestita di “un nero profondo che è luce”, alla perenne, inquieta ricerca di un codice che possa essere ponte con l’altro, ma senza quei compromessi che portano inevitabilmente a “mentire di sguardo e parola”, false soluzioni che lei aborrisce.
Nella scrittura di Ingoglia, il gioco delle antinomie è veicolato da un lessico mai piatto, spiazzante (“sono azzima”, “sono candeggiata”) e punteggiato spesso da allitterazioni che rimandano a scioglilingua, al gioco divertito e apparentemente anarchico, quasi in fertile lotta con il linguaggio e con la vita.
Gabriella Grasso

Alcuni testi di Margherita Ingoglia

Non so trovare un dio.
Le chiese sono vuote.
Il cielo è freddo,
il lampione stanco, balbetta.
La strada è caduta nell’incantesimo.
Ho la febbre,
la fede malata.
Un’amara stanchezza di gioia.
*
Per la cena di famiglia mi vesto con gli abiti buoni:
organdi vermiglio con strascico;
integerrimo nero a righello;
blu scorrevole in omaggio alle Muse
o gladiolo di cielo filato.
Ho la scelta dell’imbarazzo,
l’eleganza di etichetta e sbiadisco al solo pensiero.
Mi addobbo per manifesta apparenza,
l’appartenenza al ramo di ruoli.
Arruolata all’interpretazione del nome
sono candeggiata come l’ultima liturgica star
nel salmo della Messa in quaresima:
l’ultima o una qualunque.
Sono azzima.
Sono l’apparizione fulminea e frugale di tirlindana.

Una santacecilia in esca d’esibizione.
Un latte grasso di capra munta,
rinverginita. Chiodata alla specie del cognome tramandato.
La passerella mi increspa come la carta
per i fantocci di carnevale.
Ciarlo
con i cenci dei ceci accoccati dai ceti
per apparire leziosa
e mi incarto
in un’ impronunciazione d’annodamento verbale.
Nera come i fondali dei mari,
sono un querulo questuo.
Vorrei astrarmi. Mi sformo e deformo, per apparire diversa.
Ma finita la fiera del turpiloquio torno al covile,
al gramaglio di nervi agganciati alla gruccia.
Mi rimetto il mio imbroglio di corpo
e nella mia giara di carne pastello,
tra le rovine,
mi rifaccio medusa.
Ora sono me stessa.
*

Grazia, aggraziata, graziosa
non sono mai stata,
di grazia!
Mi manca l’abbiccì delle buone maniere.
Porto nel ventre un animale superbo.
Sono stata intagliata
con fine scalpello
nella corteccia dell'albero scemo,
e nel ventre nutro clemenza
in spine di rosa.
Ho la pelle secca delle vedove illacrimate.
Potrei diventare pia
forse,
o come il XII che non si oppose al massacro
e appoggiò la Shoah, venerata.
E fu papa.
Ma non ambisco a tanto clamore di Storia,
temo possa io fare la fine di Zoilo, San Valentino o  Stuarda Maria la regnante,
con la testa che rotola nel piatto dei cani.
Povere bestie!
Mi piacerebbe piuttosto scoprire
come avviene il passaggio al simpatico,
la conversione alla avvenenza.
All’addomesticamento.
Quella maestria di ridente scioltezza che a me ha sempre atterrito.
Chi lo sa, me lo insegni.

È un cambio di stoffe? un doppio lavaggio e centrifuga?
un passaparola all’essenza di gioia?
Come accade la malìa
per essere sempre gaudenti e accoglienti?
Sono cresciuta avvezza alle mal educate cose di niente,
pestando madonnari nel porto
camminando in parsimonia di giudizi precoci,
con vesti poco curate e capelli in disordine di spartiti.
Ho negli orecchi suoni zigani,
zingari per essere precisi. Il temine non sia offesa,
per me che mi chiamano negra e finocchia
è vezzeggiativo espansivo.
Mentire di sguardo e parola,
mi ferisce più che cadere sui sassi.
Indosso un nero profondo che è luce,
i tacchi li indosso per colpire le noci più dure.
Sono come Locusta: bestiale, e avveleno.
Ho affinità con le aspidi,
mi difendo con gli artigli.
Delle madri passate ho ereditato le stelle ingiuriose,
delle condanne ho il segno dei denti sulle caviglie.
Non ho mai imparato a giocare.
Forse sono corrotta di senno e di vene.
Parlo ai defunti per lasciarmi insegnare a fuggire
dalle parole melliflue che non so pronunciare
senza provare scontento:
un arrotolamento di intestino a coccarda.
Custodisco nelle teche, in dono di donne,
quella brezza sinistra e traversa
che orna la sopravvivenza,
diserta le trappole
e declina gli inviti alle cene con commensali sgraditi.
Ho trecce indocili d’aglio.
Sono nata nel mese delle orchidee
nella notte della luna nuova: dicono sinistra.
Partorita di scarto
nel doppio can can della sorte.
Ho lasciato il tetto per andare coi lupi, nel bosco.
Mi tengo la maleducazione dei secoli,
questi capelli di raffa, le gonne sotto i talloni
e la malagrazia delle femmine folli.
Voi che potete e ne siete capaci, siate gentili.
Con me, siate chi siete.

Voci – Incursioni nella poesia contemporanea

a cura di Gabriella Grasso

 

Antonino Bondì. Osceno mobile (Oèdipus, 2019)

 

metafisica per il XXI Secolo

 

Adesso non puoi addormentarti sulle verità

se non dietro il sogno di facce distratte,

e nemmeno stornare lo sguardo

dallo spettacolo di un grattacielo in frantumi.

Lì, nella vertigine di una storia,

l’eco di genti ha sfiorato lo sguardo di un bonsai

che si annienta inebetito;

e altrove, fra diamanti, cadaveri e cascate

un volo di pellicani si mette a disegnare

una vecchia ombra di morte

sopra le terre più sbigottite.

Ci hanno fatto cenno di scappare

e cancellare le tracce dell’uomo

da una lavagna insanguinata in ogni modo.

Ma sogna di essere un tentacolo

la mano dell’uomo fra amore ed assassinio.

 

***

 

volto

Alzo gli occhi e punto in direzione di una nave

che si ingrassa addormentata nel porto.

E’ gonfia una scatola di parole

e fitta di segreti, consunti in un ingranaggio

d’elementari ripetizioni.

Respiro nell’asma straziante del tuo amore

e m’impunto su un dettaglio d’universo

idiota:

una goccia di pioggia,

un bottone di camicia

in corsa verso un tombino.

Allora punto i piedi in groppa a un sogno

a forma di stella filante,

mentre sento scivolare sulle tende

un odore agro che non riconosco;

e quasi quasi pure gli occhi scivolano

su uno stuolo mangiucchiato dal tempo

dove un veleno mai gustato s’allinea al desiderio:

trattengo il respiro che strazia d’asma

il tuo cuore non allenato.

Allora, timida e querula voce trasferita

al vano del silenzio, mi rivolto in uno spicchio

incomprensibile di mondo e assomiglio

– caricatura e rischio – a un muratore nomade:

le mie case si chiudono e si aprono

se c’è vento.

 

Valentina Calista. L’abbraccio che manca al giorno (Delta3, 2022).

 

La linea bianca 

C’è una linea bianca che traccio la sera

tra il buio della velocità fuori la porta

e labbra che non baciano più labbra né mani

che prendono visi o mani.

Fatemene una colpa se ho l’anima antica,

vecchia donna curva

che raccoglie sole e grano.

Di questi occhi ho fatto corazza

quando nella notte non ho di che difendermi

quando il sonno si ribella alle mie vite passate.

 

***

 

Che le cose che aspetti siano tue, sue 

Che le cose che aspetti siano tue, sue:

per tutte le parti della gola rimaste afone

per tutte le cellule del corpo mancanti d’aria.

Che le cose che ami siano tue, del creato:

per tutte le rollate d’aria sui campi riarsi

per tutte le fiamme del sole scagliate sui rami.

Lascia la lingua gettare sillabe

all’aria divampante il suono allo spazio,

al tempo superbo che sa tutto, anche l’Ora.

Lascia, lascia, lascia.

Che le cose possedute siano lasciate, abbandonate e

ritrovate nel cassetto delle sciocchezze.

Che le cose mai avute siano possedute e lasciate

dal pensiero, dal sogno e dal desìo che non tace.

E che l’aria sia l’unica vita nella vita.

 

Loriana D’Ari. Silenzio, soglia d’acqua (Arcipelago Itaca, 2021)

 

il ramo sussulta, stacca e plana la foglia

appena un dorato fruscìo. culla d’aria

la fine di qua dalla soglia

 

***

 

perdona voce bianca mia chiara

di luna nota d’ortica strinata

crepa, perdona verde linfa tra

i denti filo d’erba corda

tesa in eclissi perpetua di fiato

questo nodo scorsoio che stringo

e allento, l’estrema torsione

di abisso e canto

 

***

 

sei andata via, ma la voce resiste

e propaga infinita oltre la fonte

tutto il mistero della cosa viva.

per sempre rideremo dei capelli

arruffati, dirai per sempre a presto

dall’ultimo vocale, nell’azzardo

del respiro la piena dell’affanno,

prenderemo per vere le parole

 

***

 

ma se vedere è restituire

qui di te ogni cosa è salva

dov’è un lampo l’innesto

del suono, e ti sono

nel cono d’ombra appesa

ciondolando. sarai nido

di frontiera in ogni giuntura

 

Pasquale Pietro Del Giudice. Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019).

 

La manutenzione 

Sono vivo, un cantiere aperto,

una macchina usata, un mostro precario

civilizzato, puntualmente i peli mi rispuntano sul viso,

il sebo si accumula nei pori,

il mondo è la criniera di un cavallo,

ogni cosa necessita di manutenzione e del suo stalliere,

della sua lametta e del suo giardiniere,

di revisioni, di versioni, di una controllatina

ai freni, alla tenuta dei bulloni;

la vegetazione, le unghie ricrescono, la pelle decade,

ciclicamente sono necessarie

radiografie, controlli delle pompe

del sistema e del livello di putrefazione raggiunto,

è opportuno ridurre a ordine umano

la matematica delle sterpaglie,

più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi,

più perdi illusioni, più i tuoi gesti

si sommano negli errori degli anni,

hanno avuto incidenza, hanno ferito e perdonato,

hanno deluso e smentito se stessi.

Esposta alle intemperie e alla consunzione del tempo

la vita è un cadavere sezionato

dunque le cose muoiono con gusto

e ogni giorno implica lo sforzo

di tenere a bada il loro disfacimento,

la loro fuga, la loro tentata ribellione

rimandando la loro fine,

ritinteggiando le porte, i capelli e le pareti.

La manutenzione tiene sveglio il mondo

il suo bisogno di cure, morte che ci tiene in piedi,

che stimola, smuove a mettere in ordine la stanza

a usare le ore nel migliore o nel peggiore dei modi,

sperperando quello che resta in affronto al tempo

e a se stessi, costantemente ridare

senso dove si era dato senso,

nei rapporti sociali

nei propri spazi, nel cassetto

delle delusioni, opponendosi alla forza

centrifuga che mette in moto la macabra pantomima.

Bisogna immaginare Sisifo barbiere,

crollare è darla vinta alle liane, alle piante rampicanti

quando ti sommergono i piatti da lavare,

quando la tua casa si arrende

alla forza riassorbente dell’edera

e del muschio, delle erbe infestanti, dei nidi di ragno,

dei topi, delle formiche, dei rifiuti dei passanti.

 

***

 

Pattumiere 

L’astuccio degli occhiali, dei pastelli

il borsellino, il raccoglitore delle monete

dei trucchi e dei gioielli, bare

dove riposano ordinatamente le cose

buche, raccolte di comunità

tenute insieme da precise caratteristiche

che ne determinano la cerchia e la fratellanza,

i cassetti invece sono fosse comuni

di spaghi, biglietti, calzini

graffette buttate a casaccio, periferiche usb

cassettoni dell’immondizia a cui siamo destinati

noi buste di organi aperti e sezionati

dopo la morte, dopo un’autopsia, da una zip

un’incisione che lascia la cicatrice

supini sull’ultimo lettino

contenitori misti di liquidi, carne e ossa

per i cani che verranno, denti

che torneranno a battere, a spezzare

la parentesi di ciò che siamo stati,

scatolette di tonno, sardine parlanti

battibeccanti, appassionati di ingiurie,

foderi di pelle senza padrone

sputacchianti impuniti parole senza pudore.

 

Un ricordo di Giovanni Prosperi

di Ivana Rinaldi

(a cura di Gabriella Grasso)

Il 3 luglio 2021 l’artista, poeta e scrittore Giovanni Prosperi si spegne improvvisamente, nella sua casa di Roma, accanto alla sua compagna Ivana Rinaldi. Una partenza fulminea, che lascia familiari e amici attoniti. Inizialmente, per tutti, c’è solo un grande vuoto con cui fare i conti; poi, nei mesi, l’esigenza e il desiderio di godere ancora della presenza di Giovanni, mediante l’ascolto della sua voce e la condivisione della sua scrittura. Nasce così la volontà di incontrare una figura ricca e complessa del panorama letterario italiano, attraverso una conversazione con Ivana, nostra collaboratrice tra le pagine di Bibliovorax.

D- Cara Ivana, questi mesi senza Giovanni sono stati difficili per te. Cosa ti manca di più e cosa torna prepotentemente alla tua memoria? 

R- Domanda spiazzante, Gabriella. E’ sentirsi come un viandante nel deserto a cui manca l’acqua, ovvero tutto. Torniamo a terra. La nostra era una vita semplice, fatta di piccoli gesti quotidiani. Ecco: è la quotidianità che mi manca, i soliti gesti, i riti dell’esistenza comune, il sostegno reciproco, l’affetto, le lunghe discussioni sulla vita, la morte, l’aldilà, la politica, l’arte, le preoccupazioni del vivere che accomunano tutti. Una vita scandita da impegni e piccoli piaceri, una gita al mare, al lago, nei piccoli paesi del circondario e nelle Marche, qualche viaggetto, il cinema, una mostra, una cena con gli amici o i parenti. Non sono io a richiamare i ricordi, sono loro che si presentano in ordine sparso ma netti e precisi. Arrivano specialmente la sera nel tempo che precede il sonno.

D- Come ci descriveresti Giovanni, compagno di vita e Giovanni, intellettuale e artista? 

R- Non riesco a distinguere Giovanni compagno di vita e Giovanni intellettuale e artista. Era un unicum che metteva l’arte nella vita e la vita nell’arte. Non ha mai rivestito ruoli, la libertà era la cifra della sua esistenza e in lui si conciliavano perfettamente il sé e il fuori di sé. Aveva una mente androgina, la mente creativa per eccellenza, diceva Virginia Woolf. Tanto è vero, che era innamorato di “Orlando” su cui abbiamo lavorato insieme a un adattamento teatrale. Era predisposto per “natura” alla generosità e alla cura degli altri, capace di ascolto e di attenzione, profondamente buono, qualità che lo hanno fatto amare da tutti. Sempre felice di scrivere una nota o una critica per i suoi tanti amici artisti, di offrire la mano a chi amava e a chi ispirava la sua  simpatia ed empatia. Negli ultimi tempi osservava dalla finestra un senzatetto che dimora sotto casa nostra, per vedere se gli succedesse qualcosa. A Roma, dove si era trasferito dai primi anni del duemila, si faceva voler bene dai miei colleghi e compagni di partito, dai suoi amici artisti, dal parrucchiere, dalla farmacista, dal pizzicagnolo. Ha lasciato un ricordo indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociarlo sul suo cammino. 

Mi chiedi di Giovanni artista e intellettuale. Tutto per Giovanni era arte. Dalla cucina, ai piccoli lavori di restauro, ai libri usati e recuperati dalle sue mani con maestrìa e poesia. “Faremo arte con tutto”, motto che credo abbia ereditato dal suo maestro ideale Emilio Villa, con cui era entrato in contatto e del quale amava parlare spesso, specialmente del loro incontro avvenuto a Roma negli anni Novanta. La sua formazione intellettuale era sterminata; se per la poesia visiva si sentiva debitore di Apollinaire e Villa, i suoi riferimenti letterari erano Rabelais e Cervantes, per il teatro il suo “idolo” intoccabile Carmelo Bene. Le sue letture spaziavano dalla letteratura, alla filosofia, fino alla teologia. Negli ultimi anni era particolarmente attratto dalla storia delle religioni e dei miti: la sua biblioteca si era arricchita delle opere di Robert Graves, Calasso, Kerényi, Zolla, Frazer al cui Ramo d’oro si era ispirato per una delle sue ultime opere “Laggiù qualcosa per Bene”. Frequentava con assiduità la biblioteca di quartiere Giordano Bruno da dove tornava con i testi di Heidegger, Levinás, Derrida, Husserl, Wittgenstein. Si chiedeva, quasi ossessivamente, se la filosofia avesse ancora qualcosa da dire. Ciò che lo stimolava era la filosofia del linguaggio, una ricerca estenuante che lo sfidava quotidianamente nella creazione artistica. Non posso entrare nel merito della sua scrittura, non ne ho le competenze, ma ho assistito a “parti”, alcuni semplici, altri dolorosi.

D- Qual era il rapporto tra Giovanni e il nostro tempo? 

R- Un rapporto difficile, che si esprime in alcuni racconti e opere  teatrali, specialmente. Per Giovanni era centrale l’esserci, la sacralità della vita, la bellezza, mentre la storia dissacra la vita. La poesia e la scrittura segnano il suo saper stare in presenza del mondo:”La poesia è male incurabile e contagioso, sfonda le pareti contorte del labirinto, tende alla sanità e si autocura, forse non è perfetta, non ha l’autofarmaco, non è rimediabile, ma, il ma non manca mai: è.” (Giovanni Prosperi).

D- Cosa ti piacerebbe che si conoscesse di più dell’attività e della produzione di Giovanni? 

R- Mi chiedi cosa mi piacerebbe che si conoscesse della produzione di Giovanni. Io mi chiedo cosa piacerebbe a lui. 

Ci sono lavori a cui teneva particolarmente come lo studio dell’Angelo antropomorfo nella storia dell’arte. Un saggio ispirato al pensiero di Aby Warburg e dedicato alla sua forza e passione.  Avrebbe voluto continuare a lavorare per apportarvi “migliorie” e per vederlo pubblicato. L’unico che avrebbe voluto vedere in stampa.

Gli erano care anche le fiabe dedicate a sua figlia Martina. Non credeva invece che la poesia potesse avere uno spazio nell’editoria contemporanea, nonostante ogni occasione fosse buona per scriverne: su un conto di ristorante, una velina che ricopre le arance, un pacchetto di sigarette, un libricino creato da lui. Le sue poesie sono l’espressione che sento più vicina alla mia sensibilità, arricchite da un fiore, un coriandolo, un segno, un disegno, alcune semplici, alcune complesse, come la vita e come era Giovanni.

D-Ci salutiamo con alcuni testi di Giovanni a te particolarmente cari e con l’invito a scoprire il tesoro artistico e spirituale che questo autore ci ha lasciato.

R- Grazie Gabriella. Scelgo qualche verso inedito di Giovanni che ho pubblicato su facebook e che amo particolarmente.

 

Tu vai avanti

che il tempo

sviene

e

se lo porta via

la sirena dei ricordi

nella meridiana

del pendolo

o

del quarzo

.

(s. d.)

 

Anche nel più scuro

e acuto

dolore

vi è una scintilla

di felicità

che spacca l’angolo

e

illumina

l’estrema periferia

.

(s.d.)

 

Prova tu

a sognare

con passi zig zag

nel cuore.

E poi scendi

veloce

strette scale

pettinandoti

per un amore

nel passato.

Prova a stringere

una stella filante

per lanciarla in aria.

Prova tu ad avere

un ricordo cosi:

raro il sorriso

in quell’incontro

retto da soavi

ventate di timo.

Anima se oggi

ti inganni

dì al giorno

che converte

la notte

in alba

di prendere

il mio corpo

non dico in lui

ma appena

nell’alba

.

Venezia 1978

 

Piangendo e navigando,

onde

lieta la gioventù

cercava acqua

e accendeva fuochi

,

Sibilla

ecco il tempio

del decoro:

il labirinto che vola;

per un tributo

miserabile

ho tirato i dadi

con lo stile di una mano

che cede nel tempo:

offre il mistero

che nel monte

entra:

100 vie,

metà porte

e meno voci

per risposta

.

Ecco la soglia

e il dio

che compare

e muore

in volti

e colori

spettinati

fammi vedere

il tuo seno

!

Prima parte dell’opera “Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Tu che onori

Scienza e Arte:

onora il poeta

l’ombra sua

torna

sorridi

parliamo

di cose

che al tacere

è bello:

un prato

di fresca verdura

,

Toh

Ecco

!

Tutta la filosofia

che molte volte

al fatto

il dire

viene meno

e in molti

canti

si divide

 

.

Ultima parte di

“Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Lettera a un numero

 

Piove a casaccio

senza luce e tono

alza almeno un braccio

di saluto

o

arresa

verrà il tutto a farti da sponda

E’ tempo di mettere ordine

nella credenza

dopo

nevica

grandine bianca

sopra numeri in palline.

scordati della periferia

delle pagine

mai arriverai alla fine

senza la decenza del caos

Roma, 2020

 

I giorni

se ne vanno

alcuni indifferenti

altri commossi

come la chiusura

di un libro

.

(s.d.)

Il “mandato dello scrittore”

 

Un ritratto di P.P. Pasolini- bibliovorax

Un ritratto di P.P. Pasolini

di Francesca Tuscano

 

 

Vorrei esser capito dal mio paese,

ma se non dovessi esserlo,

ebbene

sopra al mio paese passerò in disparte

come passa una pioggia obliqua.

 

Così scriveva Majakovskij, negli anni della crisi, prima del suicidio.

E così scriverà Pasolini, nel corso della sua crisi – che non lo avrebbe abbandonato mai, dagli anni Cinquanta fino alla morte, non meno tragica di quella di Majakovskij:

 

se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo

e ancora

La morte non è

nel non poter comunicare

ma nel non poter essere più compresi

 

Per Majakovskij, come per Pasolini, il ruolo del poeta è politico. Non ha senso scrivere, “comunicare”, se non si è capiti, perché essere poeta significa creare, con i propri versi, un dialogo e non un monologo

In tal senso, “comunicare” è amare, e il poeta, per Majakovskij come per Pasolini, scrive per il disperato amore che ha verso gli uomini, senza l’ascolto dei quali non ha senso la propria opera.

E non è un caso che Pasolini, nel corso della propria attività di artista e intellettuale, avrebbe avvertito l’affinità con il ‘cantore dell’Ottobre’, nella scrittura come nella comune sorte dell’esclusione, politica ed esistenziale, fino a sceglierlo (con Esenin, ma più di Esenin) come riferimento ideale nella ricerca di una nuova lingua per un nuovo teatro, ricerca politica e, dunque, stilistica (come era stato per Majakovskij, autore a sua volta di un teatro politico, che era stato la spina nel fianco della normalizzazione sovietica post-rivoluzionaria). Certo, nell’ambiente letterario comunista, Majakovskij – e il suo mandato – era stato un modello in quanto poeta della Rivoluzione, autore del poema su Lenin. Ma Pasolini non lo avrebbe amato per questo. La figura che lo attraeva non era quella fatta passare dall’apparato, ma quella formalista degli anni Venti, quella del poeta sperimentatore e nello stesso tempo (o proprio per questo) attento al mandato, all’essere, cioè, voce autonoma, autorevole e non dogmatica dei lavoratori, dei proletari. Un poeta, insomma, marxista, ma non stalinista. 

Jakobson aveva scritto, a proposito del mandato di Majakovskij:

L’attuale disunione, la contraddizione tra la costruzione concreta e la poesia, “la questione delicata del posto del poeta nelle file operaie” è uno dei problemi più acuti per Majakovskij. “A chi serve, diceva, che la letteratura occupi un suo angolo particolare? O occuperà tutto il giornale ogni giorno, in ogni pagina, o non ce n’è affatto bisogno. Mandate al diavolo una letteratura che viene servita come dessert.”

 

In fondo, questo affermava anche Pasolini, nel momento della crisi denunciata in Empirismo eretico (e in seguito, fino alla morte). Se il ruolo del letterato non è più centrale, perché il momento storico che lo ha generato non esiste più, non si può ignorare la crisi che ciò produce. L’arte non può essere un “dessert”, e perciò deve avere dei valori di riferimento, che trova nella realtà che “esprime”:

Ogni artista si adempie secondo un complicato e fitto reticolato di proiezioni che partono dal momento storico che lo determina e che egli conosce ed esprime: quando questo momento storico è zero, l’artista impazzisce: è in uno stato di confusione, o di pseudo-sicurezza su valori ormai superati.

Come Majakovskij, che aveva dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Rivoluzione d’Ottobre, così Pasolini avrebbe dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Resistenza:

Le avanguardie riempiono di insulti gli scrittori tradizionali (impegnati), e chi gli risponde ha quasi sempre fatalmente torto. Nuove violentissime terminologie descrittive (la “tecnologia”, la “massa” ecc.) hanno preso il posto delle cognizioni in profondità dei problemi sociali secondo uno schema marxista tipico, ecc. ecc. Non c’è più una rivista letteraria autorevole che esprima il pensiero degli artisti di sinistra, molti dei quali cercano nuove formule d’impegno destinate all’assoluta impopolarità: altri dichiarano finito il mayakovskiano “mandato dello scrittore” (Fortini). (…) E’ finita (…) un’epoca storica – e ne comincia un’altra. Finisce l’Italia pseudo-nazionale dell’industria monopolistica, e comincia un’Italia nuova, che fonda la propria reale nazionalità sul reale potere dell’industria neocapitalistica e tecnocratica.

   

Dalla rivoluzione i poeti avevano “ricevuto il mandato di costruire realmente nel nostro tempo”, e Majakovskij lo avrebbe affermato fino all’anno della morte, il 1930. Così sarebbe tornato su questo punto, proprio nel 1930, in una conversazione tenuta a Mosca per i venti anni della sua attività:

Se oggi non sono nel partito, non perdo la speranza di fondermi un giorno con esso.

Questa speranza, che Majakovskij avrebbe perso insieme alla vita, Pasolini sarebbe stato costretto a perderla già a partire dall’anno della sua espulsione dal PCI. La “speranza di fondersi col partito” sarebbe risultata vana nel momento stesso in cui lo scrittore aveva affermato con più forza la necessità di creare un nuovo mandato. E a Fortini, che a sua volta cercava di trovare una spiegazione per la “fine del mandato dello scrittore”, Pasolini avrebbe indicato la strada che lo avrebbe condotto sempre più radicalmente verso lo scandalo, politico e scientifico – “la ricerca linguistica”:

Nella sede socio-moralistica in cui Fortini compie le sue indagini non sono abbastanza chiare le ragioni storiche di tale “fine del mandato”: forse in una sede neutrale e in qualche modo più scientifica qual è la ricerca linguistica, si può osservare meglio, a maggiore distanza, la serie delle causali.

 

Il mandato, (ossia la responsabilità del poeta che rimane “cittadino”), doveva essere ora sottoposto ad un’ideologia i cui strumenti cambiavano, o meglio si allargavano a scienze umanistiche che potevano leggere la realtà con il rigore dell’oggettività, e senza correre il rischio del dogmatismo e del moralismo (riflessione che avrebbe condotto Pasolini verso il Formalismo, lo Strutturalismo e Jakobson). Majakovskij, rivolgendosi agli amici formalisti dell’Opojaz, nel 1923, li aveva ammoniti così:

Il metodo formale è la chiave per lo studio dell’arte: Ogni pulce-rima dev’essere presa in considerazione. Ma guardatevi dalla caccia alle pulci nel vuoto. Solo con l’analisi sociologica dell’arte il vostro lavoro sarà non solo interessante ma anche indispensabile.

Majakovskij- bibliovorax

Un ritratto di Majakovskij

Proprio ciò che Majakovskij aveva chiesto sarebbe stato ciò che il secondo Pasolini avrebbe ritenuto fondamentale dopo la crisi del mandato – individuare un metodo “formale”, da applicare anche, metalinguisticamente, alla propria arte, senza dimenticare, però, l’esigenza di una parallela “analisi sociologica”, ancora più “indispensabile” nel pieno della Dopostoria. È così che l’impegno veniva equilibrato da un’attenzione umanistica verso l’arte, che impediva gli ingenui dogmatismi delle neoavanguardie:

Distrutto il “disimpegno” delle avanguardie dal nuovo impegno “attivistico”, pragmatico, delle nuove sinistre (i movimenti studenteschi), c’è ora il pericolo di un eccesso di impegno: ossia di quello “zelo” politico che può al limite definirsi come una sorta di insopportabile “neo-zdanovismo”.

Evitare l’impegno stalinista, senza rinunciare al proprio mandato, sarebbe stata dunque la scommessa di Pasolini, che, in quanto poeta, si sarebbe impegnato innanzitutto a riflettere sul suo principale strumento di lotta, la lingua, per combattere su due fronti – lo “neo-zdanovismo” delle avanguardie e il neocapitalismo. Entrambi i fronti parlavano (e parlano), infatti, la stessa lingua, tecnocratica, superficialmente sperimentale, omologante, massificante. La difesa della poesia popolare autentica, dell’idioletto jakobsoniano che diventava radicalizzazione del dialetto, la difesa, insomma, della lingua dei barbari sarebbe stato il mandato, antico e modernissimo, del poeta marxista, negli anni del Boom.   

Dal momento in cui sceglierà questa strada per affrontare la crisi, prendendo, conseguentemente, le distanze dalle neoavanguardie, Pasolini non potrà che rivestire il ruolo, autentico, di compagno di strada. La definizione trockista lo rappresenterà perfettamente, perché sarà ormai manifesta la sua volontà di continuare ad essere comunista (e fino all’ultimo anno di vita si dichiarerà tale), ma in una posizione radicalmente autonoma ed eretica. Pasolini continuerà ad essere un “compagno”, ma rifiutando categoricamente ogni apparentamento con lo stalinismo dei dogmatici. D’altronde, il ruolo del poeta, esattamente come aveva affermato con passione Majakovskij, è quello di “parlare proprio nel momento in cui il politico tace. Questo è il suo sgradevole, inopportuno, irritante apporto alla lotta.”

Non volendo rinunciare a “parlare”, Majakovskij era stato progressivamente isolato e messo nelle condizioni di non poter più esprimersi. E persino il suo suicidio sarebbe diventato argomento di condanna e di scherno (per i burocrati del Partito come per gli anticomunisti occidentali).

Pasolini, continuando ad esigere il diritto all’autonomia, in quanto poeta, avrebbe subito, (e continua a subire), attacchi feroci da parte di molti “compagni” dell’intelligencija di sinistra (così bene e spietatamente descritti in Petrolio). Accusato di dilettantismo, narcisismo, addirittura di fascismo, anche la sua morte, com’era successo a Majakovskij, sarebbe stata ridotta a logica conseguenza di un borghese bisogno di amore ‘proibito’.

Ma Pasolini – come Majakovskij, che tante volte aveva anticipato artisticamente il suicidio – aveva cominciato a sperimentare la propria morte a partire dalla fine del mandato:

Come un partigiano

morto prima del maggio del ’45,

comincerò piano piano a decompormi,

nella luce straziante di quel mare,

poeta e cittadino dimenticato.

Maria Occhipinti una donna “straniera” ovunque

 di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Maria Occhipinti

Mi sentivo straniera in patria, perseguitata, incompresa. Allora ho cominciato a girare per il Nord Italia, per la Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Hawaji, Messico. Facevo la bambinaia, l’aiuto sarta, la pellicciaia, ho saldato le corde delle navi per vivere”.

Così si raccontava nel 1975 Maria Occhipinti al giornalista Enzo Forcella, in un filmato RAI. Animatrice del movimento Non si parte, appena venticinquenne e incinta di 5 mesi, si stese a terra davanti alle ruote di un camion militare, opponendosi alla nuova leva dei giovani siciliani, chiamati a contrastare a fianco degli Alleati l’avanzata dei nazisti al Centro Nord. Per questo, sarà incarcerata e poi confinata a Ustica, schedata a vita come sovversiva. Da questo gesto il giovane regista modicano, Luca Scivoletto, è partito per girare il documentario Con quella faccia da straniera. Eppure l’esilio in lei non assume mai il sapore di un rimpianto (Nadia Terranova).

Nella sua autobiografia Una donna di Ragusa del 1957 (I edizione Landi editore, II edizione edizione Feltrinelli 1976) e in Una donna libera edito da Sellerio nel 2004, Maria racconta la sua vita. Era un’autodidatta che non aveva pratica della scrittura ma che trovò una lingua per raccontarsi. Nel suo primo libro, la giovane nata a Ragusa racconta della su “resistenza”. Mentre a Nord i Comitati di Liberazione combattevano, in Sicilia i governi militari alleatie poi quelli del “Regno del Sud”, provavano a ricostruire una nuova convivenza. La Resistenza qui è un’altra Resistenza, le lotte per il pane, le insurrezioni contro il richiamo alle armi, le lotte contadine per la terra. Maria era povera dove i poveri erano molti ed esserlo era molto di più di una privazione materiale: uno spaesamento generale dell’anima e del corpo. (Dalla nota introduttiva di Carlo Levi alla prima edizione). Nel secondo si concentra sul quotidiano, l’ordinario di una donna libera, appunto, che rivendica il diritto alla parola, alla manifestazione e alla testimonianza, in un contesto tradizionalmente avverso alle libertà femminili. Dopo essere stata espulsa dal Partito comunista dove si batteva per i diritti delle donne, perché i moti del Non si parte venivano bollati come azioni dettati da gruppi fascisti e separatisti, tornata a casa dal confino, trovò il marito che si era legato a un’altra donna. Decise allora di lasciare la sua amata Sicilia portando con sé la sua bambina. Solo gli anarchici le aprirono la porta e figure della politica e della cultura come Gianni Grasso e la giornalista e femminista Adele Cambria.

Nel centenario della sua nascita, il 5 novembre 2021, la Società delle Letterate, in collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma, ha voluto ricordare e diffondere la memoria di Maria Occhipinti e insieme “ la ricerca di una genealogia capace di modificare l’orizzonte politico e simbolico di un Sud ancora oggi percepito come subalterno”. A guidare l’incontro a cui hanno partecipato studiose come Elvira Federici, presidente della SIL, Adriana Chemello, Serena Todesco, e le scrittrici Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Gisella Modica, Nadia Terranova, è stato il tema “ Il Sud delle donne”, a partire dallo sguardo di Maria Occhipinti e dal suo orizzonte simbolico e radicale, con l’intento di ridare senso e visibilità ad altre straordinarie “madri del Sud” che dal dopoguerra ad oggi hanno messo di traverso il loro corpo contro il patriarcato, e per questo travisate o rimpicciolite dalle interpretazioni maschili.

Dice sua figlia Marilena nella nota di Una donna libera a lei dedicato: “Sappiamo poco o niente di cos’era veramente la vita delle donne quando adulterio e abbaondono del tetto coniugale erano reati, e il prete e il carabiniere prolungavano fuori casa il dominio del padre, del fratello, del marito”. Di quella zona grigia dal dopoguerra agli anni Settanta del Novecento, quando la Costituzione garantiva uguali diritti a tutti, ma costumi, tradizioni, leggi, poteri quotidiani, tenevano le donne in uno stato di sottomissione. Ne sappiamo poco perché quel potere era soprattutto sequestro di parola, di testimonianza e di memoria. E Una donna libera è l’autobiografia di un’invincibile ribelle, incapacace di concepire, prima che di sopportare un ruolo subalterno e disuguale per nascista e per sesso, la soppressione del proprio diritto di parola

La sua è una presa di parola politica e personale e riempie un vuoto, tiene a sottolineare Maria Rosa Cutrufelli al Convegno del 5 novembre. Un libro non molto letto, né accolto come doveva essere, confermando il pregiudizio che pesa su di esso. Racconta di sua madre, nata povera, vissuta povera, come lei, che non aveva mai attraversato lo Stretto di Messina, e quello di Maria è prima di tutto un attraversamento simbolico. L’accompagnano i suoi compagni anarchici; il Noi è la comunità politica di cui Maria racconta la generosità e anche le tante viltà. Narra di un’autodidatta nata in un ambiente in cui alle donne “mancava persino la forza di gemere”, diceva il siciliano Borgese. La sua vita è un eterno peregrinare: si ferma solo a Roma a causa della malattia e dove morirà nel 1996 a 75 anni. Antimilitarista sempre, manifesta contro le donne militari, raccoglie firme rivolte a Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Negli anni Ottanta è a Comiso, a manifestare contro l’installazione dei missili. Aveva nel frattempo incontrato il femminismo. In Una donna libera fa riferimento a un convegno femminista del ’77 e scrive: “In quegli incontri non trovai l’ardore. Il femminismo romano di Effe è anemico”. Mentre lei prima di andare a dormire amava guardare le stelle. Il continuo tornare al suo vissuto è un tentativo di tornare al sé e di essere riconosciuta da sua figlia. (Gisella Modica)

Fu l’ex prete Pietro Angarano, divenuto suo compagno, e con cui rimase per sette anni, a spingerla a scrivere. Per Maria la scrittura diventa catarsi, vi è una perpetua ricerca del sé, un’estensione del suo corpo nella scrittura, un suo stare in presenza del mondo, un sapere del dolore degli altri, essere vicina agli ultimi, ci ricorda ancora Gisella Modica. Autrice anche di racconti – Il carrubo e altri racconti (1993) e di poesie. In tutta la sua produzione sono sempre presenti le origini e conservate ovunque andasse. La sua poesia, ricorda la scrittrice Maria Attanasio, non resta mai relegata al suo io, ma si fa respiro del mondo, dettate dall’urgenza del suo sguardo.  Si fondono in essa l’io e il mondo, la bellezza e la giustizia, l’impegno motivato da una forte urgenza e il sentimento. Persino la sua disobbedienza non nasce da un’occasione ma dal sentire. “Ovunque fosse nata, sarebbe stata disobbediente”.

 

VOCI – Incursioni nella poesia contemporanea

 

a cura di Gabriella Grasso

 

Michele Nigro – Pomeriggi perduti, Kolibris, 2019

 

Acqua di ritorno 

Adorava i temporali

estivi, tra sprazzi e lazzi

erano meme bagnati

su gambe scoperte

alla sua natura autunnale

dimenticata tra eccessi di

sole e promesse di viaggi.

Ora le campane chiamano

all’ordine di civiltà domenicali e

tuoni ribelli e grondaie impreparate

ad acque inattese alla vita ormai persa

che scorre nel mare calmo

della morte che accoglie,

sperando di ritornare

giovane umidità

e nuvole

e di nuovo pioggia

tra i vivi di domani

 

*

 

Poesia a sua insaputa 

Non sarà ora che le vedrai

mentre ti chiedo di leggerle

ma in un giorno qualunque

venute fuori per caso, a dorso di libro

da pagine cadute in terra

riverse a mo’ di mort’ammazzati

e aperte sulla fatalità

di un attimo tra tanti,

ritornerai su parole ignorate

come è normale che sia

da rimasticare

eppure sempre presenti

tra pazienze impolverate

e le cose da fare

senza pretese, a sperare di essere

se stesse, nient’altro che verbi d’anima

amate per quelle che sono

umili

silenziose

già eterne a loro insaputa.

 

*

 

Palestra di vita 

Non credo più nei riti

musicati del fitness

effimeri miracoli

in mostra al sabato sera,

il corpo modellato

dalla vita

dal dolore ben portato

da scelte coraggiose

a lungo andare incise

lì dove conta,

mappe graffiate sul volto

nel timore di perdersi

tra le vie

di una finta bellezza,

è come un libro

letto e riletto, unto, macchiato trascritto,

abbandonato strappato,

da qualcuno amato sottolineato

sfogliato dal vento

di nuove avventure

che sommate alla storia di altre pelli

cadute e rinate intaccano inattese

l’adipe convinta

della premorte in divano.

Siamo tutto quello che viviamo,

e la carne

in silenzio

lo sa.

 

 

 

 

Roberto Crinò Ineffabile mutazione, Ensemble 2019

 

E’ tuo dovere

E’arrivata

la bella stagione

l’ho vista passeggiare

stamattina

baciata

dal sole e dalla leggerezza,

teneva in un lembo

di stoffa,

dondolava, saltellava,

libera, incantevole

com’è suo costume,

sapeva di frutti

promesse,

profumava di gioie,

speranze.

Stamattina la vita

s’è cambiata d’abito

per celebrare

un nuovo inizio.

Mi hai guardato,

un sorriso,

mi ha detto

“E’ tuo dovere”

 

*

 

Check Point 

L’anima ha una linea di confine

una linea di demarcazione,

una frontiera che non può

essere oltrepassata a piacimento,

perché essa non è terra di conquista.

 

Nessun’anima è suolo di calpestìo

per saccheggiatori e vandali

e non è colonia di eserciti

dalle scintillanti fallaci armature.

Si passa solo con trattati di pace.

 

Ugo Mathuè Il silenzio non tace, Ensemble, 2019

 

c’è l’assenza di peso

d’ogni passata stagione

 

calendario di atti

unici come ogni atto

 

c’è il loro greve sipario

sceso senza discrezione

 

*

 

infiniti sono gli dei

infinito è il disamore del mondo

 

*

 

il mio miglior nemico sono io

io che mi do del tu

 

*

 

dimmi tu da cosa sono preso

forse da senile spreco del vivere

oggi che mi sento stranamente febbrile

 

*

 

terza quintetà

seduto su una sedia

guardava il passato

senza esserne ricambiato

 

Nunzio di Sarno – Mu (Oèdipus edizioni 2020)

 

Rimetto ogni immagine

Al vuoto

 

Perdono

 

Nel vuoto mi perdo

Non un dono che perdo

 

*

 

A una procidana 

Il mare

Del primo contatto

A cui non posso

Che ritornare

Lo trovo in un particolare

Mio palpitare

Al di là di spazio e tempo

E ciclico incespicare

Come ciò che ci lega

E non si può

Tagliare

 

*

 

Capodanno 

Spaghetti di riso

Verdura e spigola

In piatti vecchi

Su una tovaglia

Stinta

 

Ancora

Malesseri condivisi

Di una famiglia nuova

E un fratello acquisito

A compartire

 

Soli

In quattro stanze

Chi cerca di risplendere

Chi di non morire

Solo

 

Ognuno

A disagio con la forma

Si accosta cauto

Al fuoco

 

Chi si accontenta del calore

Chi si abbaglia alla luce

 

Pochi

Disposti

A bruciare

Avranno

In cambio

Cenere

 

 

 

 

ANJA  E  FËDOR

di Francesco Cocorullo

 

Tutto iniziò il 3 ottobre 1866. Quel giorno, come sua abitudine, Anna Grigòr’evna Snitkina andò a seguire la lezione di stenografia del professor Ol’chin, uno dei migliori insegnanti del sesto ginnasio maschile di Pietroburgo, del quale lei stessa era tra le allieve più valenti. Aveva venti anni. Non appena prese posto nell’aula, prima dell’inizio della lezione, l’insegnante le si avvicinò: “Anna Grigòr’evna” disse “per caso accettereste un lavoro di stenografia? Mi hanno incaricato di trovare uno stenografo ed ho pensato a voi”. La domanda spiazzò completamente la ragazza, che pur sognando di trovare un’occupazione, ammise di non avere una velocità eccessiva di stenografia temendo di scontentare quindi il potenziale committente. Il professore, tuttavia, la rassicurò sulle sue capacità, invogliandola ad accettare l’offerta; fu allora che Anna chiese chi fosse lo scrittore per il quale avrebbe dovuto stenografare. “Dostoevskij” rispose Ol’chin. “Sta lavorando ad un nuovo romanzo, il compenso sarà di cinquanta rubli”.

Sentendo il suono di quel nome, la giovane ebbe un sussulto. Si trattava dello scrittore preferito di suo padre, ed anche a lei piaceva molto; aveva letto le Memorie di una casa morta e si era commossa fino alle lacrime; timorosa ed allo stesso tempo emozionata, accolse la proposta e ricevette dal professore un piccolo foglietto ripiegato in quattro parti, sul quale vi era vergato “Vicolo Stoljàrnyj, angolo Màlaja Meschanskaja, casa Alonkin, appartamento nr. 13, chiedere di Dostoevskij”. L’insegnante le chiese di recarsi l’indomani all’indirizzo indicato, esattamente alle undici e mezza, né prima né dopo. Poi salì in cattedra e cominciò la lezione. Mentre parlava, Anna non riuscì ad ascoltare nemmeno una parola, persa nel baluginio di emozioni che provava. La sua mente volava all’imminente incontro con un monumento del calibro di Dostoevskij, ed al modo in cui avrebbe dovuto rivolgersi a lui, oltre alla paura di non ricordare i personaggi dei suoi romanzi.

 

Il giorno seguente, all’ora stabilita, giunse al luogo dell’appuntamento, non prima di aver acquistato una scorta supplementare di matite, fogli, e di essersi vestita in modo da sembrare un po’ più grande dei suoi venti anni; annunciandosi alla cameriera che aprì la porta, fu fatta accomodare in una grande stanza con due finestre, un divano rivestito da una stoffa marrone, ed un tavolo ricoperto da un panno rosso: era lo studio di Fedor Michajlovic, e dopo qualche istante di attesa apparve lui in persona. Al muro un quadro raffigurava una donna ossuta vestita di nero. Il grande scrittore le si sedette accanto e, scusandosi per l’attesa, iniziò ad interrogarla sulle sue competenze stenografiche, chiedendole informazioni circa il corso che frequentava e da quanto tempo lo seguiva. A prima vista, ad Anna parve piuttosto vecchio, statura media, portamento eretto, capelli impomatati con cura, ma ciò che più colpì la ragazza di quel primo incontro fu lo sguardo del genio moscovita: aveva degli occhi molto strani, diversi l’uno dall’altro. Uno castano, mentre nell’altro la pupilla era talmente dilatata da non far vedere più l’iride; tale differenza conferiva al suo sguardo un’aria strana, enigmatica. Fedor Michajlovic: durante una violenta crisi epilettica, cadde ferendosi gravemente ad un occhio. Per curare la ferita, gli furono prescritte le gocce di atropina, responsabili della dilatazione marcata della pupilla. Altri dettagli che colpirono Anna al primo incontro furono il colorito pallido e malsano del volto, la giacca consunta, che collimava con una camicia candida e pulita; mentre parlava, lo scrittore camminava nervosamente per la stanza, fumando sigarette a catena e cambiando frequentemente argomento, rendendo quindi difficile per Anna seguirlo nei suoi discorsi. Proprio questa stranezza diede alla ragazza l’impressione che la collaborazione con Fedor Michajlovic non avrebbe avuto luogo nella maniera sperata; tuttavia, lo scrittore volle concedere alla giovane stenografa l’opportunità di lavorare per lui, e le propose una prova, dettandole un racconto, per valutarne le capacità. Poco prima di congedarla, si rallegrò del fatto che Ol’chin gli avesse mandato una donna invece di un uomo: “se fosse arrivato un uomo” le disse “certamente avrebbe iniziato a bere, e voi di certo non bevete”.

 

Cominciò così un sodalizio artistico sensazionale che porterà in soli trenta giorni alla conclusione del romanzo Il giocatore che Dostoevskij doveva terminare per onorare il contratto capestro stipulato con l’editore Stellovskij (un nuovo romanzo oppure la cessione perpetua dei diritti d’autore al suddetto Stellovskij). Anna Grigòr’evna diventerà non solo la fidata collaboratrice di Fedor Michajlovic ma soprattutto la sua seconda moglie: si sposarono il 15 febbraio 1867, quattro mesi dopo la loro conoscenza. Viaggiarono per l’Europa, vivendo all’estero i primi anni di nozze e toccando anche l’Italia: Anna cercò di allontanare il marito dal demone del gioco d’azzardo, e soprattutto gestì la situazione economica della famiglia, all’inizio estremamente precaria, dimostrandosi una persona molto intelligente ed in gamba. La coppia ebbe quattro figli: Sofia (1868, vissuta solo tre mesi), Ljubov’ (1869-1926), nati durante gli anni trascorsi all’estero, e, dopo il rientro in patria, Fedor (1871-1922) e Alexej (1875-78).

 

In seguito alla morte di Dostoevskij nel 1881, Anja (come affettuosamente la chiamava il marito) non volle più sposarsi e trascorse il resto della sua vita nel ricordo del geniale consorte, rispondendo in questo modo a coloro che le chiedessero come mai non si risposasse: “chi mai potrei avere dopo Dostoevskij? Forse Tolstoj, ma è già coniugato”. Morì a Jalta nel 1918 e fu sepolta nello stesso cimitero dove riposa l’autore dei Fratelli Karamazov, il Tichvin di Pietroburgo, a poca distanza da lui.