La “biscrittora” Maria Attanasio

di Ivana Rinaldi

La scrittura di Maria Attanasio, che sia poesia o prosa, è una scrittura a tutto tondo. Nata poeta, poi autrice di romanzi memorabili come La ragazza di Marsiglia, in lei ritroviamo il valore della parola che origina e da cui hanno origine tutte le cose, costruisce e ri-costruisce la Storia, che ha spazzato via popoli e civiltà, le storie che si con-fondono, l’amore e la pietas per gli ultimi presente ovunque nei suoi lavori. In Nero barocco nero la citazione di Democrito: < Bella in tutte le cose l’uguaglianza, l’iperbole e l’ellisse non mi piacciono>.

La parola di Maria Attanasio disfa l’ingiusto silenzio, non quello buono, intimo, creativo, ma quello che trama per nascondere e occultare, zittire il presente e il passato; crea senso, è capace di ricucire quella trama sottile tra il nostro sentire e il mondo, a contrastare frontalmente il linguaggio contraffatto, manipolatorio, che si prospetta alll’orizzonte e su ogni realtà, eclissandola, velandola di menzogna. Quando si ha il privilegio della parola potente come Maria Attanasio, allora sì che si può parlare di scrittura.

Nero Barocco Nero

La copertina di “Nero Barocco Nero”

Protagonista di Nero barocco nero, è Pellegrina Vitello, accusata di <magaria> (stregoneria) che rischiò di essere arsa viva davanti alla cattedrale di Messinanel 1555: subì solo(!)la tortura della corda e della fustigazione:

Nero barocco nero/ nel muro gocciolante sterco e gigli (…). Da una fessura sbuca l’assassino:/ un grande inquisitore con paramenti/incensi e attrezzi di tortura/ un freddo di spalle alle lamiere.

Sono tante le storie narrate da Maria Attanasio, quelle del passato e quelle del presente, dalle zolfare, lo zolfo è stato infernu veru negli anni ’50, alle Poesie d’amore in tempi di guerra. Probabilmente la seconda guerra del Golfo (2003); dalle vittime della Seconda Guerra mondiale, agli schiavi deportati dalla loro Africa, all’America del maccartismo, alla tragedia delle migrazioni e alla melanconia degli sradicati. Una parola che ha sempre tenuto testa alle storture della Storia. Un tentativo di mutare la tenebre in luce per mezzo di un io non più io: <Dire uomo torre martello/ Dire cosa/E’ mondo dire/che esce dalla notte/e di nuovo si incammina tra le forme>.

Rileggere e riscrivere del passato non è mero esercizio archivistico e neanche metafora del presente – come è ad esempio in Vincenzo Consolo, suo maestro – ma è un ritrovare una realtà che sostanzia il presente grazie a un empatico e ininterrotto dialogo tra vivi e morti.

Alla doppia scrittura di Maria Attanasio è stato dedicato un anno fa (14-15 ottobre 2022) un convegno internazionale all’Università di Valencia dal titolo Maria Attanasio. Quatro Décades de Bifronte Escritura Desobediente, i cui interventi sono stati curati da Giuliana Adamo e Miguel Angel Cuevas e pubblicati da Castevecchi nel 2023 e dal quale emerge nella sua complessità la persona, la poetica, l’opera.

La <biscrittora>, come ama definirsi, calatina, nata a Caltagirone nel 1943, ci viene restituita nella sua fedeltà a se stessa, al proprio talento creativo e alla sua etica. Tre aspetti che non vanno separati e costituiscono un unicum. Scrive di lei Sebastiano Burgaretti in Maria Attanasio madre di poeti, madre di libertà: <Io credo che Maria Attanasio sia nata poeta di vita, prima ancora che di penna e di carta. Solo una virtù petica e poietica ha potuto ispirare in lei il coraggio e l’impegno civile ne hanno sigilillato e contradistinto la vita>. (P. 82).

Qualche nota sui suoi romanzi.

La ragazza di Marsiglia è il più conosciuto. Narra la storia di Rosalìe Montmasson, seconda sposa di Francesco Crispi, da lui poi ripudiata, contro la legge che vietava la bigamia, mentre si univa in terze nozze illegali con un’altra donna. Il romanzo è costruito secondo le modalità della militanza narrativa di Maria Attanasio: rendere voce a coloro a cui è stata silenziata dalla storia ufficiale e denunciare l’impostura storica tramandata come verità. Lo stesso fa con Paolo Ciullo in Il Falsario di Caltagirone, che prima di diventare personaggio letterario, sconvolse la storia della Sicilia con la sua vita fuori dai limiti. Studente di disegno e pittura, anarchico e rivoluzionario, consigliere comunale, bohémien a Parigi, migrante in Brasile e in Argentina, falsario di bancanote e quindi frequentatore di manicomi e carceri, morì nel 1931, cieco e in assoluta povertà.

Da queste figure, possiamo capire chi siano i personaggi dell’autrice creati su carta e con l’inchiostro, ma terribilmente carnali. Sono tanti/e le scrittrici da cui Maria Attanasio <prende lezioni>, dal Manzoni di La colonna infamealla Yourcenar di L’opera in nero, fino a Sciascia e Consolo, suoi conterranei. Merito e paradigma della narrazione storica di Maria Attanasio, è aver inventato un metodo che coniuga il documento con l’invenzione verosimile rispetto ai fatti che restano nel buio e in silenzio. Tanto innovatrice nel raccontare, così nella poesia di cui abbiamo cinque raccolte tradotte, come i romanzi, in varie lingue, di cui segnalo Amnesia del movimento delle nuvole e Paesaggi. Sempre alla ricerca della lingua perduta.

Non so dove sei persa lingua
un tempo parlavi mille dialetti
ora balbetti inciampi
sibilante fax a vuoto nella stanza
segreto crepitare che di notte
senza segni di riconoscimento spinge
tra le atone dune,
l’implacabile vento.

Amnesia del movimento delle nuvole

Rosaria Catanoso, Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica

Di Ivana Rinadi

Il volume di Rosaria Catanoso  Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica, (Fondazione Giacomo Matteotti, 2021) è frutto di una lunga e accurata ricerca che con lo sguardo rivolto al passato fino al presente ha tracciato la figura dell’intellettuale nelle varie epoche storiche. Una ricerca accurata che emerge dalle numerose e puntuali note su cui ci si sofferma perché è da queste che sorgono le domande più interessanti.

L’autrice, docente al Liceo, collabora alla cattreda di Filosofia politica nel Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria. Si è dedicata a  lungo al pensiero di Hanna Arendt, l’ultimo suo studio è la monografia Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia (Giappichelli, Torino 2019). Ciò che le interessa in questa ricerca non è offrire uno sguardo acritico dell’intellettuale, bensì ri-definire il ruolo che i pensatori e le pensatricipotrebbero ancora avere in una fase in cui la politica è al suo tramonto e sulle cui cause continuiamoa interrogarci e forse provare a dare qualche risposta. Sicuramente è venuto a mancare quel nesso necessario tra passione e razionale organizzazione collettiva, un nesso indicato da Gramsci e che ha portato all’inarrestabile declino della forma partito come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso.
Ovvero, la crisi di quella forma della politica che pur avendo colto la necessità del soggetto collettivo, si lascia sfuggire la relazione. Se nel secolo scorso a tener viva la democrazia erano i corpi intermedi, partiti e sindacato, oggi ne siamo in qualche modo orfani. Ad essi si sono sostituiti i populismi di varia matrice che invece di produrre cultura politica e partecipazione creano divisioni più che coesione, consenso su slogan più che sui contenuti. Il criterio populista che unisce le classi
dirigenti (politici, giornalisti, opinion makers) è il disprezzo per la cultura, per le ragioni della storia, per la credibilità dei testimoni e della memoria, per la lucidità della parola e la complessità degli argomenti.

Nell’era globale assistiamo paradossalmente e ne stiamo vivendo i drammatici effetti al risorgere dei nazionalismi. Rifiorisce l’idea di confine, si alzano muri, risorge all’orizzonte la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Ancora più pericoloso è il non pensiero, inteso come mancanza di senso critico, di comode recezioni dei luoghi comuni, delle generalizzazioni che i media e i social ci propinano quotidiamente. Non meno grave della crisi della politica è lo scadimento dell’informazione: la nozione di sfera pubblica a partire da Mill, Tocqueville, Habermas, Arendt, è fondamentale per la democrazia che presuppone un’opinione pubblica informata, capace di scegliere; in realtà la società digitale ha svuotato di senso la figura critica e di custode della verità dell’intellettuale.

I messaggi ridondanti e veloci, il linguaggio semplice, essenziale, persino banale, ha fatto sì che la quantità prevalga sulla qualità. Il nuovo pensiero globale omologa e tende ad escludere voci critiche. Alla figura del mâitre a penser si è sostituita la figura dell’influencer. L’intellettuale da schermo, dice Alberto Aghemo nell’introduzione al volume, è diventata una presenza costante nei talk show, sui social, nei blog, divenendo funzionale al sistema. Insomma una nuova mutazione antropologica prima che culturale. In questo quadro in cui si inserisce anche la crisi dell’istruzione, delle scuole e delle università, luoghi politici per eccellenza, dove si dovrebbe imparare a pensare più che a conoscere, gli intellettuali, che siano filosofi, scienziati, storici, insegnanti stentano a trovare una loro collocazione positiva nel risvegliare l’intellettuale che è in ciascuno di noi.
Rosaria Catanoso ci ricorda quanto negli anni Sessanta e Settanta fosse importante la funzione intellettuale, un tramite tra il sapere,la cultura dell’élite e la cultura popolare. Lo fa soffermandosi sui tanti progetti che provavano a definire la funzione dell’intellettuale: ovvero colui/colei in grado di mettere a punto un apparato teorico da utilizzare sul piano politico. Ci ricorda le esperienze delle
riviste Critica marxista, Il Contemporaneo, Società, Il gruppo 63 e le tante voci che hannocontribuito a una democratizzazione del sapere.
In questo percorso non mancano le domande:

– Cos’è l’intellettuale? Chi è l’intellettuale? Come si chiedeva Eugenio Garin.
– Possono essere gli intellettuali guida del popolo? (Edith Stein)
– L’intellettuale deve essere chiuso nella sua torre d’avorio con i limiti denunciati da Panofsky e con le sue potenzialità, ovvero la possibilità di esercitare un controllo, segnalare i pericoli per la libertà?

Certo, sostiene l’autrice, l’intellettuale che sia filosofo, storico, giurista, filologo, scienziato, non dovrebbe mai rinunciare alla verità. Anche se questi non è mai figura neutra, entra in gioco con la sua soggettività, con il rischio di moltiplicazione di tante verità, comunque ci si aspetta che non proponga teorie ex-cathedra per le quali non fornisca un’indicazione. In passato abbiamo assistito alla rinuncia di alcuni intellettuali alla loro missione di custodi della verità: l’autrice ricorda le denunce di Ortega y Gasset che in La ribellione delle masse evidenzia la crisi della società spagnola dovuta al divorzio tra le èlite e masse; Croce in Italia che nella sua Storia d’Italia (1928) e in Storia d’Europa (1932) richiama gli intellettuali a non essere asserviti al regime fascista. E ancora Gramsci che ne I quaderni dal carcere e Gli intellettuali e la cultura invita all’uso pubblico della ragione, alla coerenza tra pensiero e azione, all’attenzione per l’altro. Infine Bobbio secondo cui l’intellettuale deve seminare dubbi, non raccogliere certezze. Dunque, la politica come gestione della Res publica non può rinunciare alla critica del pensiero. Il non riconoscimento della funzione culturale ha sottratto alla stessa le sue funzioni originarie, costringendola a trovare radici nell’economia, nella tecnica, nel digitale, nella medicina. Nostro compito è ripensare un ceto intellettuale in grado di elaborare criticamente l’intellettuale che in ciascuno di noi esiste. Non più arroccato nell’accademia, egli diventa anche organizzatore e costruttore della politica, non un politico di professione, bensì una figura che proponga un uso
pubblico del suo sapere professionale.

A conclusione del suo volume, Rosaria Catanoso ci offre una sua visione: la necessità di superare la tecnica e avvicinarsi al mondo con stupore poetico. Abitare poeticamente vuol dire che la poesia è alla base della nostra comprensione del mondo che si apre come spazio di stupore e di possibilità. Uno stupore che contrasta l’ideologia del fare, della tecnica, del capitale che ha condotto il vivere all’insignificanza e al non senso perdondo di vista il telos e il fine, pronto ad accogliere la differenza/le differenze. Per questo la politica ha bisogno della cultura e della sua critica perché diventi strumento di trasformazione e risponda a un desiderio di giustizia.
Da qui l’esigenza di riallacciare un legame tra ethos e polis. Allora l’azione sarà pensata e il pensiero agito. A conclusione dell’intenso e problematico percorso, l’autrice ci lascia un’immagine intensa che sa di auspicio e di impegno: “ Tra un passato perduto e un futuro da inventare, il presente è il tempo del cammino”.

Maria Occhipinti una donna “straniera” ovunque

 di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Maria Occhipinti

Mi sentivo straniera in patria, perseguitata, incompresa. Allora ho cominciato a girare per il Nord Italia, per la Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Hawaji, Messico. Facevo la bambinaia, l’aiuto sarta, la pellicciaia, ho saldato le corde delle navi per vivere”.

Così si raccontava nel 1975 Maria Occhipinti al giornalista Enzo Forcella, in un filmato RAI. Animatrice del movimento Non si parte, appena venticinquenne e incinta di 5 mesi, si stese a terra davanti alle ruote di un camion militare, opponendosi alla nuova leva dei giovani siciliani, chiamati a contrastare a fianco degli Alleati l’avanzata dei nazisti al Centro Nord. Per questo, sarà incarcerata e poi confinata a Ustica, schedata a vita come sovversiva. Da questo gesto il giovane regista modicano, Luca Scivoletto, è partito per girare il documentario Con quella faccia da straniera. Eppure l’esilio in lei non assume mai il sapore di un rimpianto (Nadia Terranova).

Nella sua autobiografia Una donna di Ragusa del 1957 (I edizione Landi editore, II edizione edizione Feltrinelli 1976) e in Una donna libera edito da Sellerio nel 2004, Maria racconta la sua vita. Era un’autodidatta che non aveva pratica della scrittura ma che trovò una lingua per raccontarsi. Nel suo primo libro, la giovane nata a Ragusa racconta della su “resistenza”. Mentre a Nord i Comitati di Liberazione combattevano, in Sicilia i governi militari alleatie poi quelli del “Regno del Sud”, provavano a ricostruire una nuova convivenza. La Resistenza qui è un’altra Resistenza, le lotte per il pane, le insurrezioni contro il richiamo alle armi, le lotte contadine per la terra. Maria era povera dove i poveri erano molti ed esserlo era molto di più di una privazione materiale: uno spaesamento generale dell’anima e del corpo. (Dalla nota introduttiva di Carlo Levi alla prima edizione). Nel secondo si concentra sul quotidiano, l’ordinario di una donna libera, appunto, che rivendica il diritto alla parola, alla manifestazione e alla testimonianza, in un contesto tradizionalmente avverso alle libertà femminili. Dopo essere stata espulsa dal Partito comunista dove si batteva per i diritti delle donne, perché i moti del Non si parte venivano bollati come azioni dettati da gruppi fascisti e separatisti, tornata a casa dal confino, trovò il marito che si era legato a un’altra donna. Decise allora di lasciare la sua amata Sicilia portando con sé la sua bambina. Solo gli anarchici le aprirono la porta e figure della politica e della cultura come Gianni Grasso e la giornalista e femminista Adele Cambria.

Nel centenario della sua nascita, il 5 novembre 2021, la Società delle Letterate, in collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma, ha voluto ricordare e diffondere la memoria di Maria Occhipinti e insieme “ la ricerca di una genealogia capace di modificare l’orizzonte politico e simbolico di un Sud ancora oggi percepito come subalterno”. A guidare l’incontro a cui hanno partecipato studiose come Elvira Federici, presidente della SIL, Adriana Chemello, Serena Todesco, e le scrittrici Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Gisella Modica, Nadia Terranova, è stato il tema “ Il Sud delle donne”, a partire dallo sguardo di Maria Occhipinti e dal suo orizzonte simbolico e radicale, con l’intento di ridare senso e visibilità ad altre straordinarie “madri del Sud” che dal dopoguerra ad oggi hanno messo di traverso il loro corpo contro il patriarcato, e per questo travisate o rimpicciolite dalle interpretazioni maschili.

Dice sua figlia Marilena nella nota di Una donna libera a lei dedicato: “Sappiamo poco o niente di cos’era veramente la vita delle donne quando adulterio e abbaondono del tetto coniugale erano reati, e il prete e il carabiniere prolungavano fuori casa il dominio del padre, del fratello, del marito”. Di quella zona grigia dal dopoguerra agli anni Settanta del Novecento, quando la Costituzione garantiva uguali diritti a tutti, ma costumi, tradizioni, leggi, poteri quotidiani, tenevano le donne in uno stato di sottomissione. Ne sappiamo poco perché quel potere era soprattutto sequestro di parola, di testimonianza e di memoria. E Una donna libera è l’autobiografia di un’invincibile ribelle, incapacace di concepire, prima che di sopportare un ruolo subalterno e disuguale per nascista e per sesso, la soppressione del proprio diritto di parola

La sua è una presa di parola politica e personale e riempie un vuoto, tiene a sottolineare Maria Rosa Cutrufelli al Convegno del 5 novembre. Un libro non molto letto, né accolto come doveva essere, confermando il pregiudizio che pesa su di esso. Racconta di sua madre, nata povera, vissuta povera, come lei, che non aveva mai attraversato lo Stretto di Messina, e quello di Maria è prima di tutto un attraversamento simbolico. L’accompagnano i suoi compagni anarchici; il Noi è la comunità politica di cui Maria racconta la generosità e anche le tante viltà. Narra di un’autodidatta nata in un ambiente in cui alle donne “mancava persino la forza di gemere”, diceva il siciliano Borgese. La sua vita è un eterno peregrinare: si ferma solo a Roma a causa della malattia e dove morirà nel 1996 a 75 anni. Antimilitarista sempre, manifesta contro le donne militari, raccoglie firme rivolte a Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Negli anni Ottanta è a Comiso, a manifestare contro l’installazione dei missili. Aveva nel frattempo incontrato il femminismo. In Una donna libera fa riferimento a un convegno femminista del ’77 e scrive: “In quegli incontri non trovai l’ardore. Il femminismo romano di Effe è anemico”. Mentre lei prima di andare a dormire amava guardare le stelle. Il continuo tornare al suo vissuto è un tentativo di tornare al sé e di essere riconosciuta da sua figlia. (Gisella Modica)

Fu l’ex prete Pietro Angarano, divenuto suo compagno, e con cui rimase per sette anni, a spingerla a scrivere. Per Maria la scrittura diventa catarsi, vi è una perpetua ricerca del sé, un’estensione del suo corpo nella scrittura, un suo stare in presenza del mondo, un sapere del dolore degli altri, essere vicina agli ultimi, ci ricorda ancora Gisella Modica. Autrice anche di racconti – Il carrubo e altri racconti (1993) e di poesie. In tutta la sua produzione sono sempre presenti le origini e conservate ovunque andasse. La sua poesia, ricorda la scrittrice Maria Attanasio, non resta mai relegata al suo io, ma si fa respiro del mondo, dettate dall’urgenza del suo sguardo.  Si fondono in essa l’io e il mondo, la bellezza e la giustizia, l’impegno motivato da una forte urgenza e il sentimento. Persino la sua disobbedienza non nasce da un’occasione ma dal sentire. “Ovunque fosse nata, sarebbe stata disobbediente”.

 

Lucia Sánchez Saornil. Un’anarchica femminista nella Spagna del secolo scorso

 

di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Lucia Sanchez Saornil

 

 

“L’archivio parla di “lei” e la fa parlare. Motivato dall’urgenza un primo gesto si impone: ritrovarla come si recupera una specie estinta, una flora sconosciuta, abbozzare il ritratto come per rimediare a una dimenticanza, consegnarne le tracce come si espone una morta”.

E’ con questa citazione di Arlette Farges, Il piacere dell’archivio, che si apre il saggio della giovane studiosa Michela Cimbalo, Ho sempre detto noi. Lucia Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile. (Viella, 2020). La storia di questa donna è magnetica e affascinante. Militante anarchica, femminista, sindacalista, fondatrice di Mujeres Libres, attiva durante la guerra civile, poeta, intellettuale autodidatta, cantadora dell’amore libero e omesessuale. Lucia è stata tutto questo. Così vero che in un  viale del Cemeterio General di Valencia, un gruppo di donne si riunisce ogni anno con mazzi di fiori, pugni chiusi e bandiere anarchiche, intorno a una lapide di pietra grigia sulla quale è incisa la frase: “Ma è vero che la speranza è morta?”. Negli ultimi anni l’interesse verso Lucia Sánchez si è fatto sempre più vivo e ha prodotto documentari, video, studi, tra cui quello di Michela Cimbalo, un testo che non si limita a ricostruire la sua vita – nata nel 1895 e morta nel 1970 – ma anche il contesto storico e culturale della Spagna del ‘900 e in particolare la condizione delle donne spagnole che non è molto diversa da quella delle donne italiane.

Lucia nasce a Madrid da una famiglia povera in un edificio basso, altrettanto povero, posizionato in cima a una strada ripida che scende dal paseo di Embajoderes, nella periferia sud. Rimasta presto orfana di madre, si deve far carico del padre e della sorella malata, ma non smette di leggere e studiare, tanto da iniziare a scrivere poesie e pubblicarle su un modesto settimanale, e a poco più di vent’anni diventa l’unica donna dell’ ultraismo, avanguardia aperta al futurismo e al dadaismo. Della sua poesia si è occupata Rosa María Martin Casamitjana attratta, nello studiare il movimento diffuso negli anni Venti in Spagna e in Argentina da Borges, da Lucia, unica tra tanti uomini a far parte dell’ultraismo. La giovane ricorreva a uno pseudonimo maschile, Luciano De San Soar, per firmare le sue poesie. Da dove viene la scelta di firmarsi con un nome maschile? Probabilmente per ottenere credito negli ambienti letterari, ma forse anche perché Lucia era omosessuale.

Lo testimonia sin da giovane il suo abbigliamento, il taglio dei capelli, e in seguito le sue scelte sentimentali: durante il periodo dell’esilio dopo la caduta della Catalogna nel 1939, vive con Ameríca Barros, detta Mery. Lucia e Mery si erano conosciute nel 1937 e non si sono più lasciate per tutta la vita. I parenti di Mery hanno accolto Lucia come una di famiglia, anche se per molto tempo la sua omosessualità viene sottovalutata da chi la studia: perché Lucia sembra avesse sempre mantenuto una certa discrezione sulla sua vita privata. Eppure i suoi versi sono ricchi di esplicito desiderio per il corpo femminile, le piace giocare con l’identità di genere e alludere alla propria sessualità “dissidente”in un’epoca in cui l’amore tra donne era visto come una malattia o una perversione.

Negli archivi esistono tracce deboli di Lucia Sánchez, eppure, tra vecchie riviste, fonti di polizia di più paesi, volantini e produzioni cinematografiche, corrispondenze di esponenti del mondo dell’anarchismo internazionale, spuntano i tracciati delle sue molteplici attività:

“Ogni tassello che si aggiunge alla ricostruzione della sua vita apre scorci su altre storie, su vicende talvolta sconosciute, in cui micro e macro si intrecciano, ponendo nuovi interrogativi e curiosità” (MichelaCimbalo, Lucia Sánchez cit., p. 15).

Lasciata l’attività e gli ambienti letterari alla fine degli anni Venti, si dedica anima e corpo al movimento anarchico militando nella Cnt (Confederación Nacional de Trabajo), il sindacato più potente di Spagna. Tiene lezioni per i lavoratori, scrive per la stampa anarchica tanto da entrare negli anni Trenta nella redazione del quotidiano nazionale del sindacato, anche in questo caso unica nel collettivo tutto maschile. Convinta sostenitrice della necessità di un’azione rivoluzionaria che abbattesse il sistema capitalista, avversa a ogni forma di potere statuale,  riteneva, come già Alexandra Kollontay in Unione Sovietica, che per giungere a una trasformazione radicale della società andava portato avanti un profondo cambiamento del rapporto tra i sessi, bisognava sovvertire lo status quo che teneva relegate le donne in un’intollerabile posizione di subalternità.

Nei suoi scritti Lucia affronta il tema del matrimonio, critica la doppia morale mai cancellata dall’aspirazione libertaria all’amore libero, afferma che la maternità rappresenta una delle tante possibilità di scelta per le donne e non un imperativo legato al destino biologico: una tesi avversata anche negli ambienti anarchici: “Una donna senza figli è un albero senza frutti, un rosaio senza rose”, sosteneva Federica Montseny.

E da queste premesse che nel 1936 nasce Mujeres Libres fondata da Lucia Sánchez, Mercedes Camoposada e Amparo Poch, insieme a una rivista dallo stesso nome. L’organizzazione femminile non è una sezione femminile per garantirsi il voto delle donne introdotto in Spagna nel 1931, ma fortemente autonoma, conduce le sue battaglie per la libertà e pratica un femminismo proletario e di classe, senza staccarsi dai principi dell’anarchismo. L’organizzazione composta di sole donne, arriva a contare più di 20.000 aderenti . Si prefigge sia l’intento di sostenere il fronte repubblicano, sia gli esperimenti rivoluzionari e le battaglie per l’autodeterminazione delle donne, doppiamente sfruttate, come lavoratrici, e in quanto donne. Da segretaria e redattrice della rivista, Lucia conduce le sue battaglie con articoli, reportage dal fronte, programmi radio, fino a diventare nel ’37 segreteria della Società Internazionale Antifascista. Creata dalla CNT per sollecitare all’estero aiuti e solidarietà.

Nel 1939, dopo la vittoria di Franco, anche Lucia deve intraprendere insieme ad Amėrica (Mery) Barroso la via dell’esilio, in Francia dove l’aspetta l’ostilità di un governo che disperde gli esuli in vari campi di concentramento. Nel ’42, dopo la minaccia di essere deportata nella Germania nazista decide di ritornare clandestinamente in Spagna, dove lei e Mery conducono una vita di difficoltà e privazioni rischiando di continuo di essere arrestate in quanto anarchiche, repubblicane e lesbiche.

Accolte nella casa di Valencia della famiglia Barroso si guadagnano da vivere con lavori modesti, confezionando retine per capelli, lavorando per un laboratorio di fotografia, finché Mery non viene assunta al consolato argentino e Lucia si inventa pittrice di ventagli. Sono di questo ultimo periodo le sue poesie più belle che rivelano il desiderio di non arrendersi, differenti da quelle del periodo ultraista: sono in parte raccolte in un volume curato da Rosa María Martín Casamitjana (Pre-Textos, 1996) in cui emergono le paure, i dubbi, la malattia, la sconfitta, mai la negazione di tutto ciò in cui ha creduto.

Sempre ho detto “noi”.

E la parola aveva l’ampiezza del coro

suonava come un organo dai mille registri.

Noi era una moltitudine

di calde mani tese,

pane condiviso

guanciale accogliente;

era un cuore unanime:

l’intescambio di lacrime e sorriso.

Era un campo di spighe

Che il vento inclina in una sol direzione

-ogni lettera una goccia di umanità profonda –

dire “noi” era consumare un vino

Di cordialità fino all’ubriachezza.

 

Claudia Salaris, Donne di avanguardia.

 

di Ivana Rinaldi

È da poco uscito in libreria Donne d’avanguardia, (Il Mulino2021) di Claudia Salaris, tra le più grandi esperte e studiose italiane di Futurismo, autrice di Storia del Futurismo (Editori Riuniti, 1985) e di Le Futuriste (Edizioni delle donne, Milano, 1982). In questo volume dava spazio alle letterate,  alle artiste, alle polemiste, fornendo un quadro della presenza femminile in uno dei più significativi movimenti di avanguardia dei primi anni Venti del secolo scorso. Una ricerca avviata con Pablo Echaurren, suo compagno di vita, appena usciti dai “fortunali” della politica per entrare negli “anni di piombo”. Dopo l’inasprirsi del clima, in seguito al rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro, racconta Salaris, trovammo nel privato e nella collezione di libri e documenti originali del futurismo la nostra zattera di salvezza.

Prese così le mosse una ricerca puntugliosa di tracce tra bancarelle, librerie antiquarie e visite ai protagonisti e alle protagoniste ancora in vita e ai loro eredi. Il risultato è la ricostruzione di numerose figure particolarmente emblematiche e su momenti di particolare discussione in cui le donne si sono pronunciate sui ruoli sessuali, la creatività e la politica. Reclamare il diritto all’espressione e all’affermazione della propria individualità, sostiene Salaris, non è secondario rispetto a quello del suffragio femminile. Il libro ci racconta di futuriste, ma non solo di loro, si concentra su esponenti del dadaismo e del realismo magico e non si limita a nomi già noti ma include nomi finora in ombra. Molte di loro erano state incluse nei lavori di Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Mario Verdone, Glauco Viazzi, e in un’ottica di riflessione di genere nei lavori di Giovannella Desideri, Anna Nozzoli, Simone Weller. E fu soprattutto la mostra L’altra metà dell’avanguardia di Lea Vergine che permise di lanciare questo tema (Milano, Palazzo Reale, 14 febbraio-18 maggio 1980).

L’apertura di femministe e studiose come Maria Caronia, Manuela Fraire, Elisabetta Rasy, fondatrici delle Edizioni delle donne e ancora Biancamaria Frabotta, poeta e femminista che dirigeva L’orsa minore e la rivista Memoria, permise la pubblicazione dell’antologia Le futuriste. Il movimento fondato da Marinetti era ancora argomento tabù in certi ambienti della sinistra. Donne d’avanguardia riprende dunque e amplia quel primo lavoro sulle donne futuriste arricchindolo di figure di donne che per il loro stile di vita, pensiero, creatività, hanno lasciato un segno nell’arte, nella letteratura, nella mentalità e costumi dei tempi, rompendo tabù, luoghi comuni, pregiudizi e silenzio.

un ritratto di Valentine de Saint Point

E qui impossibile ricordarle tutte. Accenno solo almeno alle più conosciute, prima fra tutte Valentine De Saint-Point, la prima futurista.

Non dimentichiamo che Filippo Tommaso Marinetti aveva inserito nei punti programmatici del Manifesto edito da Le Figarò il “disprezzo per la donna”, una dichiarazione scandolosa che suscitò immediate polemiche. Corso ai ripari, l’autore dichiarò che il disprezzo riguardava l’eterno femminimo come unica fonte di ispirazione letteraria e la visione ossessiva dell’amore a cui andavano soggetti i popoli latini. Sebbene l’affermazione di Marinetti potesse sembrare più uno slogan pubblicitario che una sua reale visione della donna, all’epoca si proiettavano due immagini: quella della femmina istintiva, priva di doti intellettuali, prossima alla natura, una concezione ampiamente diffusa nella cultura influenzata dal pensiero maschile, Arthur Scophenauer, Friedrich Nietzche, Paul Julius Möbius, Otto Weinenger, che ne calcola addirittura la carenza intellettuale in percentuali, fino a Karl Kraus; dall’altro quello dell’eterno femminino codificato dal pretrarchismo al romanticismo, fino a D’Annunzio.

All’inizio del Novecento, la francese Anne Jeanne Valentine Marianne Desglous De Cassiat- Vercell, nata a Lione nel 1875, in arte Valentine De Saint- Point, a Parigi conobbe il mileu della nuova cultura, rompe i canoni tradizionali con le sue poesia e la sua produzione letteraria enunciando un modello di donna sessualmente liberata. Di lei rimane Una donna e il desiderio, in cui mette a fuoco il tema dell’erotismo femminile.

Nel 1912, mentre i pittori futuristi esponevano a Parigi, Marinetti riuscì a convertirla al suo credo. Tra i due nacque una liason amorosa e Valentine concepì il Manifesto della donna futurista. Rispose a F.T. Marinetti, introducendo l’idea di femminilità e mascolinità, qualita di cui uomini e donne sono in possesso: “ogni superuomo (…) è composto da elementi femminili e da elementi maschili, cioè un essere “completo”. Confluivano nel testo le teorie dell’androgino di Péladon. E così, nell’individuare prototipi femminili antogonisti a quella della donna borghese, Valentine recuperava le eroine del mito e della storia: le Erinni, le Amazzoni, Semiramide, Giovanna D’Arco, Giudette Carlotta Corday, Cleopatra, Messalina, le guerriere che a suo avviso combatterono più ferocemente dei maschi. Il punto essenziale della sua analisi era rivendicare la liberta sessuale  per tutti: eterosessuali e omosessuali.

La difesa dell’omosessualità faceva parte di un sentire comune sia alla poeta che a Marinetti, che aveva già stigmatizzato la condanna a Oscar Wilde. Nel 1913 Valentine De Saint-Point era stata inserita da Apollinaire nel mileu dell’avanguardia internazionale con il suo manifesto L’antitradizione futurista.

Il primo nucleo di futuriste si costituì in piena guerra intorno alla rivista fiorentina L’Italia futurista (1916-1918), di cui l’animatrice è Maria Ginnanni, dove si riuniva un cenacolo di donne: Mari Carbonaro, Mina Della Pergola, Fanny Dini, Fulvia Giuliani, Magamal, Enrica Piubellini, Enif Robert, Rosa Rosà, tra le figure più significative, che si è espressa nella scrittura, nelle parole in libertà, nel disegno, nella ceramica e anche nella pittura. Di origine austriaca e nobile, il suo vero nome era Edith Von Hynau, frequentò i grandi artisti, Klimt, Beardsley, Toorop. In una crociera conobbe il giornalista italiano Ulrico Arnaldi che sposò trasferendosi a Roma. Durante la guerra, mentre gli uomini erano al fronte, Rosa Rosà scriveva: “Inutile ripetere che in questo istante milioni di donne hanno assunto- al posto di uomini – lavori che finora si credeva solo uomini potessero eseguire – riscuotendo salari che finora il lavoro onesto della donna non mai saputo ottenere”.

Alcuni  suoi temi anticipano il femminismo degli anni ’70. Tra le europee ricordo l’inglese Frances Simpson Stevens, trasferitasi a Firenze con il marito nel 1907, con il quale l’unione fini nel 1913. Rimasta sola con tre figli, usci dalla depressione frequentando il caffè le Giubbe Rosse, dove si riunivano Soffici, Carrà e lo stesso Marinetti. Le sue composizioni artistiche furono apprezzate da Duchamp, Man Ray, che la fotografò più volte, mentre lei ritrassse Brancusi, Freud, Joyce, Marinetti, Papini.

un ritratto di Eva Kuhn

Impossibile in questa cartografia delle donne che hanno rappresentato l’avanguardia non parlare di Eva Kühn, moglie di Giovanni Amendola e madre di Giorgio, il futuro dirigente comunista, di Růžena Zátková, signora X futurista, di Tina Modotti. Eva, nata a Vilnius in Lituania, era poliglotta: parlava russo, inglese, francese, tedesco e italiano.

Da giovane si innamorò di Schopenhauer che per lei divenne il vero maestro. Dopo i soggiorni a Londra e a Zurigo, vinse una borsa di studio con un saggio sul filosofo statunitense Henry Thoreau, il teorico della disobbidienza civile e della resistenza non violenta. Con questa somma si trasferì a Roma dove conobbe Giovanni Amendola, di estrazione sociale modesta. I genitori di lui impedivano il matrimonio e Eva soffrì di una brutta depressione che la contrinse al manicomio di Via della Lungara dove fu ricoverata per un anno, dal 1904 al 1905. Ritornata a Vilnius, Giovanni andò a farle visita, ma poiché la madre di lei, questa volta, non lo volle vedere ritendolo causa della depressione della figlia, i due giovani raggiunsero Berlino e poi Lipsia dove entrambi frequentarono un corso di filosofia. Finalmente tornati in Italia, Giovanni aveva trovato lavoro, poterono sposarsi. Nonostante la sua intensa vita familiare e due figli, Eva entrò in contatto con l’ambiente di La Voce e Prezzolini le offrì la traduzione di Dostoevskij, mentre Papini le affidò Schopenhauer. Tra le sue frequentazioni vi era Teresa Labriola, la femminista che più tardi teorica di un femminismo nazionalista, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo per cui il marito perse la testa. Eva divenne futurista con il nome di Magamal, nome che si rifaceva alla figura di un giovane guerriero africano di cui parla Marinetti in Mafarka il futurista. Scrisse Eva la futurista che non fu mai pubblicato, nel 1916 riuscì a pubblicare Velocità composto secondo la tipografia furista ispirandosi all’idea di simultaneità tra moto interno e moto esterno di Boccioni. Ormai anziana scrisse un inedito La pazzia e la riforma del manicomio a firma Eva Amendola, dove esprime la proposta di una riforma radicale delle case di cura, ovvero l’abolozione del sistema coercitivo dei manicomi.

Růžena Zátková è invece ceca, di Praga. Sposata con il nobile russo Vasilij Chvos̄o︣inskij, diplomatico zarista a Roma, fu amica e collega di futuristi italiani, Marinetti, Balla, Boccioni, Benedetta Cappa, Prampolini, per non dire del legame che la univa agli e alle intellettuali e artisti russi del suo tempo. Giovane pittrice, morì a soli 37 anni di tubercolosi. Nella sua arte si possono notare sia opere del primitivismo e del folclore che costituisce il dato autoctono dell’avanguardia russa, dall’altra il richiamo al futurismo italiano che , a sua volta, ha esercitato un’unfluenza sul cubo-futurismo dei russi.

Infine per concludere il suo interessante lavoro, Claudia Salaris dedica pagine molte belle a Tina Modotti, nata a Udine, ma presto trasferitasi in Messico dove ebbe rapporti di amicizia intensa con Frida Khalo e Diego Rivera. Fotografa, comunista, impegnata sia a livello artistico che politico, ha lasciato un patrimonio di opere d’arte, di scritti e disegni. L’incontro che cambiò la sua vita fu quello con il pittore Raubaix de L’Abuie Richey, detto Robo, a cui dedicò il Book di Robo.

Tina Modotti

 

Tina Modotti

Il periodo trascorso insieme a lui a Los Angeles dal 1917 al 1922 rappresenta per la giovane il confronto con il mondo intellettuale: il poeta e archelogo Ricardo Gómez Robelo, il critico d’arte giapponese Sadahiki Hartmann e il fotografo Eduard Weston che diventò il suo amante, attraverso il quale riuscì a diventare una professionista. Insieme ad altri artisti messicani diede vita ai murales che anticipano la street art. Ma da sola, non da altri, imparò a vedere il mondo degli emarginati con una comprensione che l’avrebbe portata verso la militanza politica. Nel 1927 si iscrisse al partito comunista messicano dopo l’esecuzione dei due anarchici Sacco e Vanzetti. Fu quello il periodo d’oro dell’attività politica e creativa. Tina tocca l’apice della carriera nel 1929 con l’esposizione organizzata dall’Università nazionale che rappresenta per lei l’ultimo atto pubblico in Messico. Nel febbraio del ’30 si imbarcò su una nave da carico olandese, diretta in Europa, dove sei anni più tardi sotto il nome di Maria, insieme al suo compagno Carlo Contreras partecipò alla guerra civile spagnola. Dopo varie vicissitudini, riuscì a tornare in Messico ma non riprese più in mano la macchina fototografica; Morì a soli 46 anni, nel gennaio 1946 per un arresto cardiaco. Attorno alla sua vita romanzesca, è nato un mito, continua ad alimentare iniziative e interesse dando vita a biografie, mostre, saggi. La sua rimane una vita fuori dai canoni.

A completare il lavoro di Claudia Salaris, molte foto di repertorio sia delle artiste che dei loro lavori più significativi. Un libro da non perdere.

 

Teresa, Camilla e le altre.

di Ivana Rinaldi

Anni fa, vi era tra i miei progetti una ricerca sulle donne del Partito comunista. Fui scoraggiata dal mio maestro, Enzo Santarelli, convinto che non ci fossero elementi per tracciare una storia “altra” delle dirigenti comuniste da quella dei loro compagni di partito. Il recente anniversario della scissione di Livorno ha rivelato, invece, quanto lavoro vi sia ancora da fare a questo proposito. Lo si deve fare per almeno due ragioni: sappiamo troppo poco delle donne del passato, anche di quelle che hanno avuto un ruolo fondamentale sul piano internazionale. Le biografie sono una strada obbligata per la storiografia che si occupa di donne dimenticate o uscite di scena. A questo proposito abbiamo un punto di riferimento in Joan Scott, Only Paradoxes to offer (Harvard University Press, 1996) e in Paola di Cori, Altre storie. La critica femminista alla storia (Clueb, 1996).

Joan Scott

Il secondo motivo non meno importante è provare a individuare come si collocano le vicende personali delle donne in un  contesto prevalentemente di natura maschile, come il partito, e quanto incida il diverso sentire femminile sulle scelte politiche dell’organizzazione partitica. Un problema ancora attuale e che andrebbe analizzato seguendo le categorie di uguaglianza e differenza. Detto in parole semplici, le atttiviste in politica si sono sempre impegnate per la parità di genere nel rivendicare l’uguaglianza dei diritti civili, sociali, politici, economici. In molte lo hanno fatto a partire dal loro essere donne non solo impegnandosi per le loro simili, ma portando alla politica un valore in più: la loro sensibilità, il diverso sentire e la loro esperienza. Questo lavoro di scavo e di “archeologia della memoria” (rubo l’espressione a Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi,( Iacobelli, 2020) andrebbe fatto per le donne del passato, per coloro che hanno avuto un ruolo nei partiti italiani di diversa matrice, ma anche per politiche e pensatrici nel contesto internazionale.

Molto è stato già fatto da studiosi/e che si si sono occupate di ricostruire la vita di grandi dirigenti come Rosa Luxemburg, Una donna chiamata rivoluzione di Sergio Dalmasso (RedStar press, 2019), abbiamo inoltre un lavoro di Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista (Carocci, 1999). Attraverso le carte di numerosi archivi, sia privati che pubblici, la studiosa ricostruisce molti e variegati percorsi biografici e politici, di modelli di militanza e dello scarto tra questi e la realtà esistenziale. Nel volume si racconta di tre generazioni di donne e di varia estrazione sociale: maestre, alle quali viene dedicato un ampio spazio soprattutto al lor tentativo fallito già nel 1922 di creare guppi femminili autonomi nel Pcd’I; operaie e proletarie molte delle quali passano alla clandestinità durante le ondate di arresti; le casalinghe; dall’altro lato, le dirigenti che sostituiscono gli uomini: i nomi più celebri, Camilla Ravera, Teresa Noce, Adele Bei, accompagnati da molte altre.

Il prezzo più alto che queste donne pagano negli anni duri della repressione fascista riguarda la scelta radicale tra militanza politica e sentimenti.In questo breve articolo, vorrei raccontare di  alcune militanti di spicco del Partito comunista sin dalle origini che hanno un ruolo determinante nel passaggio dal regime totalitario fascista alla Repubblica e la democrazia. In particolare Camilla Ravera e Teresa Noce, rivoluzionaria professionale come si definisce nel suo diario e sulla quale è uscito di recente il libro di Anna Tonelli, Nome di battaglia Estella. Teresa Noce una donna comunista del Novecento  (Le Monnier Quaderni di storia, 2020). La sua vita è un romanzo vissuta all’insegna dell’impegno politico, e non solo, e la sua biografia costituisce un modello

. Nata povera, non va a scuola, da bambina all’età di 11/12 anni lavora da sarta, poi da operaia. Partecipa alla svolta di Livorno, a Milano incontra Luigi Longo e si ritrova a 19 anni in attesa del loro primo figlio. La famiglia di Longo non l’accetta, il dirigente non può sposare una donna brutta, povera e comunista! Raggiunti i 25 anni si sposano e hanno altri due figli. Nel 1925, Teresa  si reca a Mosca. Nel ’26 fugge dall’Italia in Francia  con suo marito per organizzare la Resistenza. Carcerata, viene rilasciata su pressione di Mosca e poi successivamente internata a Ravensbrück in Germania, dove i sovietici la liberano materialmente. La soggettività di una dirigente come Teresa Noce, apre due dimensioni: l’antifascismo internazionale e l’emancipazione individuale e sociale.

Teresa Noce

La tessera del partito di Teresa Noce Longo

A fine guerra, inizia la sua vita ufficiale nel partito. Fa parte della commissione dei 75, quella che ha scritto la Carta costituzionale. Teresa è nella commissione affari sociali e familiari: le sue battaglie sono per il diritto al lavoro e all’assitenza delle donne, per la parità uomo donna. Nonostante le dirigenti sembrino rispondere alle logiche di partito, Teresa Noce è uno spirito libero  e indipendente. A Mosca aveva criticato Lenin e in Italia Togliatti. Si oppose anche all’articolo 7 della Costituzione che prevedeva il Concordato voluto dallo stesso e si astenne.

Punti fondamentali per lei sono l’articolo 3, gli  articoli 29-30-31 che prevedono la tutela della famiglia e della maternità, non solo evento naturale, ma con una sua funzione sociale. Successivamente, le donne comuniste capiscono quanto sia importante la battaglia per il divorzio, e Teresa è la prima a soffrire di una situazione familiare anomala e dolorosa. Luigi Longo aveva chiesto a sua insaputa l’annullamento del matrimonio, di cui lei viene a conoscenza attraverso il Corriere della Sera.

Le donne sono dunque  un nuovo soggetto dentro la sfera pubblica , insieme a operai e contadini e il loro ingresso e in particolare delle dirigenti è deflagrante.

La vita personale e politica di Camilla Ravera  non è meno degna di interesse di quella di Teresa, tutt’altro. Di lei abbiamo Lettera al partito e alla famiglia (Editori Riuniti, 1979), Una donna sola  (Lucarini, 1988; Diario di trent’anni 1913-1943 (Ed. Artigere Chiarotto,2012), Breve storia del movimento femminile (Editori Riuniti, II ristampa 1981); testi che ci permettono di ricostruire la sua biografia. Nata in provincia di Alessandria, nel 1889, seconda di sette figli, è profondamente influenzata dal padre, colto, ateo, filosocialista, e dalla madre che tramette alle figlie aspirazioni all’indipendenza e all’emancipazione. Dopo essersi diplomata, insegna lettere a Torino e si iscrive alla Scuola di magistero per approfondire gli studi di lettere e filosofia. Si avvicina al socialismo tramite suo fratello Cesare, attivo nella sezione torinese dopo i moti dell’agosto 1917, e che sarebbe diventato come lei comunista e avrebbe combattuto nelle Brigate internazionali in Spagna. Nel dopoguerra, perso un fratello, fa parte del gruppo dell’Ordine nuovo raccolto attorno a Gramsci e nel 1921 aderisce al Partito comunista, occupandosi della politica femminile. In Il nostro femminismo Camilla sosteneva l’aspirazione delle donne a conquistare l’indipendenza economica, senza trascurare il valore sociale della maternità. Nel 1922 è delegata dal Pcid’I al IV congresso dell’Internazionale comunista. Tornata a Torino, si dedica alla riorganizzazione del partito, scompaginato dagli arresti in massa dopo la Marcia su Roma: ben presto è costretta a raggiungere Umberto Terracini a Milano, rimasto solo nell’esecutivo del partito. Dopo il trasferimento del dirigente a Roma, Camilla è impegnata a riorganizzare il partito a Milano e riprende l’attività di giornalista su l’Unità e Compagna, da lei fondato.

Allontanata definitivamente dalla scuola per la “nefasta propaganda”, nel 1926 a Lione viene eletta membro del comitato centrale del partito. Nei quattro anni successivi, essendo l’unica rimasta libera, è incaricata di organizzare la nuova segreteria, assumendosi la responsabilità di prendere decisioni, il più delle volte da sola. Dopo l’arresto di Gramsci, il nuovo segretario è Togliatti, e Ravera è tra i più importanti dirigenti. L’organismo internazionale riteneva fosse giunto il momento di un cambiamento rivoluzionario anche in Italia. Dopo vari soggiorni all’estero, in Svizzera, a Mosca, e una lunga malattia ai polmoni, torna in Italia dove viene arrestata nel luglio 1930. E’ condannata a 15 anni di detenzione per reati di ricostituzione del partito comunista e propoganda sovversiva, è reclusa a Trani insieme a due altre comuniste, Felicita Ferrero e Giorgina Rossetti.

Passa il suo tempo leggendo riviste e libri; per il suo professato ateismo, veniva considerata “un’anima dannata”. Successivamente, la sua pena viene ridotta a cinque anni, ma nel 1935, la sua salute è molto precaria: destinata al confino in provincia di Matera, nel 1937 viene trasferita a Ponza dove ritrova tra i vecchi compagni Terracini, con il quale condivide l’esigenza di costituire un ampio fronte antafascista che si contrapponeva alla rigidità di dirigenti come Scoccimarro e Secchia. Allo scoppio della guerra, il direttivo emana un documento che aderiva alla tesi dell’Internazionale sull’equidistanza dagli imperialismi in guerra e escludeva l’alleanza con altri partiti antifascisti. La sua posizione e quella di Terracini, contrari al patto Molotov – Ribbentropp, costò ad ambedue l’espulsione dal partito. Nel biennio 43-45, liberata dal confino e malata, si ritira a Pinerolo, in Piemonte,  dove erano sfollate le sorelle; a fine guerra “riabbracciata” pubblicamente da Toglietti, riprende la sua attività nel partito come membro del comitato centrale dove è nominata dalla segreteria di Torino e dalle donne dell’Udi (Unione donne italiane). Eletta deputata, vuoi per la sua salute fragile o per gli strascichi della rottura del 1939, non riprese più nel partito comunista un ruolo all’altezza delle sue qualità. Come deputata è firmitaria di progetti di legge a tutela della maternità e per la parità di diritti e delle retribuzioni tra uomo e donna. Pertini, suo compagno di confino, la nomina senatrice a vita nell’82. Dopo pochi anni, nell’88 muore a Roma.

Infine, Rita Montagnana, moglie di Togliatti con il quale condivide le lotte politiche, nella clandestinità e nel lungo esilio in Unione Sovietica. Nata a Torino nel 1895 nel quartiere “rosso” di San Paolo da una famiglia ebrea e di chiaro orientamento socialista ha due sorelle e un fratello, Mario, personaggio di spicco della sinistra italiana. Anche lei costretta a imparare il mestiere di sarta, aderisce agli scioperi torinesi del biennio 1909-1911, e si iscrive alla Camera del lavoro, diventando dirigente del partito socialista e ricoprendo vari incarichi. Nel 1917 partecipa alla rivolta del pane e due anni dopo al movimento dei Consigli operai e alle occupazione delle fabbriche. E’ tra le fondatrici del Partito comunista italiano e anche lei successivamente è inviata come delegata al III congresso dell’Internazionale a Mosca. Con l’avvento del fascismo, entra in clandestinità con il nome di “Marisa”. In quegli anni conosce Palmiro Togliatti con cui si sposa nel ’24 e con il quale ha l’unico figlio, Aldo. Costretti all’esilio e a spostarsi tra Svizzera, Francia, Spagna, Unione Sovietica, Rita fu una delle poche a frequentare la scuola leninista di formazione dei quadri. Ritorna in Italia nel 1944 per partecipare alla Resistenza, come leader dell’organizzazione femminile del partito. Tra le fondatrici dell’UDI, è molto attiva nella battaglia per il suffragio femminile. Viene eletta nel ’46 alla Costituente, quasi cinquantenne: è insieme a Teresa Mattei, l’ideatrice del simbolo della mimosa in occasione della giornata internazionale della donna. Nel frattempo il suo matrimonio finisce, a causa della relazione di Togliatti con Nilde Iotti. Nonostante sia senatrice alla prima e alla seconda legislatura, pian piano viene emarginata dalla vita del partito. Nel 1958 torna a Torino per dedicarsi a suo figlio Aldo gravemente malato di schizofrenia. Si dedicò a lui fino alla sua morte, nel 1979. Una vita intensa e sofferta la sua, come quella di tante altre donne, divise e lacerate tra politica e vita privata, a dimostrare tristemente che per le donne non è mai facile conciliare la dimensione affettiva con quella pubblica. E che per noi la strada è sempre in salita

Per concludere questo breve excursus, e per festeggiare l’8 marzo, ridando parola alle madri fondative, vorrei ricordare Teresa Mattei, Teresita, eletta alla  Costituente a soli 25 anni, conosciuta per aver scelto la mimosa come simbolo della Giornata della donna. “La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte”. La sua storia è in La Costituente: storia di Teresa Mattei. Le battaglie della partigiana Chicchi, la più giovane madre della Costituzione di Teresa Pacini (Altraeconomia, 2011), con interviste a Luigi Scalfaro e Valerio Onida e uno scritto di Pietro Ingrao, dedicato a Teresa. La sua vita è tesa e emozionante. Nata a Quarto, Genova nel 1921, da una famiglia antifascista, suo nonno è Sigismondo Friedmann, lituano, glottologo che parla ben quarantadue lingue soleva dire: “Uomini imparate le lingue e non farete le guerre”; sua nonna materna, Teresita come lei, è laureata come le altre tre sorelle. Dopo un soggiorno a Milano la famiglia si trasferisce in provincia di Firenze; nella loro casa passeranno Natalia Ginzsburg, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Giorgio la Pira, Carlo Levi. L’opposizione al fascismo si realizza per strada,  nei luoghi pubblici, e nelle cassette della posta dove verranno depositati volantini antifascisti. Il 10 giugno 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, Teresa organizza una manifestazione a Piazza San Marco, a Firenze e nel ’42, insieme al fratello Gianfranco, aderisce al partito comunista. Durante la Resistenza è una staffetta, mentre suo fratello gappista viene catturato in carcere dove si suicida per evitare le sevizie. Durante la militanza partigiana conosce il suo futuro marito Bruno Sanguinetti, figlio di un industriale filofascista, mentre il giovane è un convinto marxista che “assomiglia a Orson Welles”. Durante un viaggio verso Roma, Teresa viene catturata dai tedeschi, picchiata, seviziata, violentata, viene salvata per l’intervento di un gerarca fascista. Il 3 giugno 1944 è incaricata di far saltare un convoglio tedesco e successivamente partecipa alla liberazione di Firenze. Laureatasi, viene eletta alla Costituente e anche lei fa parte della Commissione  dei 75, di cui è segretaria per l’elaborazione dell’Articolo 3. Si batte per l’inserimento delle donne in Magistratura, a questo proposito è rimasto nella storia uno scambio di battute tra lei e un deputato: “Signorina, Lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni le donne non ragionano? No, rispose Teresa, ma so che molti uomini come Lei non ragionano tutti i giorni del mese”. Impegnata per il lavoro delle donne, per la costruzione di una società più giusta, per superare gli ostacoli creati dalla mentalità corrente, dal costume, dalla tradizione, pagò sulla sua pelle l’arretratezza culturale che contraddistingueva anche il Partito comunista e i suoi dirigenti. Rimasta incinta di Bruno, il cui precedente matrimonio è in crisi, Togliatti la invita a abortire e l’addita come scandalo per il partito. Teresa, che ha già avuto forti dissidi con Togliatti per la sua linea stalinista, gli risponde: “Le ragazze madri non sono rappresentate in Parlamento, dunque le rappresenterò io”. Anche in questa occasione le donne si scontrano con il perbenismo ipocrita del PCI. Chicchi comincerà a infastidire la nomenclatura del partito e Togliatti la definirà una maledetta anarchica. Bruno e Teresa si sposeranno in Ungheria. Espulsa dal partito nel 1955 perché controcorrente e troppo autonoma, motivazione: “indegnità e politica e morale”, Teresa tornò così al suo lavoro di base, frequentando soprattutto donne da cui diceva di aver imparato la pratica di vita. Con Nilde Iotti non ebbe mai molto in comune sul piano personale. Su una cosa concordavano entrambe: “in politica le donne erano strumentalizzzate”.

Le loro vite rimangono un paradigma di impegno per le giovani, che mi auguro trovino spunti per approfondire queste esperienze.

 

Donne, guerra e resistenza. Una ricerca in movimento.

di Ivana Rinaldi

Negli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia della Resistenza incontra la storia delle donne e  fa debuttare la memoria negli studi sulla guerra, come ci diceva Anna Bravo. In una sorta di convergenza tra campi distinti di ricerca – storia sociale – storia orale – storia di genere – l’attenzione si è concentrata sulla soggettività femminile individuando nelle donne un agente di cambiamento nel contesto delle dinamiche sociali e politiche della guerra e del dopoguerra. Si sono analizzati i singoli percorsi esistenziali in relazione al tessuto sociale di appartenenza, alla vita quotidiana, ai mutamenti di costume e di mentalità che il secondo conflitto e l’occupazione nazista hanno prodotto. Non necessariamente esse affondano le proprie radici nella dimensione politica e ideologica, ma possono anche scaturire da elementi contingenti e “privati”. Giovanni De Luna, analizzando i singoli percorsi di vita nel suo Donne in oggetto. L’antifascismo italiano (1922-1939), parla di “antifascismo esistenziale” e mostra come la scelta antifascista sia piuttosto nata da una loro diversa visione del mondo.

In un mio lontano lavoro del 1996 “ Donne e resistenza. Una rassegna bibliografica” (in Storia e problemi contemporanei, n.17, a IX, 1996), sollecitato anche dal cinquantenario della Resistenza, emergeva una gran mole di lavoro, in parte decodificato, in parte da catalogare e interpretare. Tuttavia usciva dall’ombra l’universo femminile nel contesto dell’Italia del ’43-’45 e alla luce degli studi che introducevano la categoria di resistenza civile (Sémeline in Francia, Anna Bravo e Alessandro Portelli in Italia), non necessariamente contrapposta alla resistenza armata, si è potuta individuare la presenza delle donne nel conflitto. Molte sono le partigiane riconosciute, 35.000, 2.750 vennero fucilate, solo 15 ricevettero la medaglia d’oro. Moltissime svolgono un insieme di compiti essenziali alla comunità e per la sua tutela materiale e simbolica. Poche di loro usano le armi accanto ai loro compagni, sia per una certa avversione personale, sia per i tanti tabù, gli stessi che impedirono alle donne di sfilare insieme agli uomini dopo la Liberazione. Eppure alcune rivendicarono la loro scelta di farlo, sentendosi prima patriote e poi cittadine a pieno titolo. Durante i due anni di guerra di Liberazione, donne di ogni età e di ogni ceto sociale, antifasciste, intellettuali, operaie, studentesse, volontariamente si prendono l’incarico di provvedere al trasporto di armi, munizioni, della stampa, a tenere i contatti tra le formazioni partigiane e i comandi, e si impegnano in  tutti quei lavori di cura che appartengono all’esperienza femminile: dare rifugio agli sbandati, cucinare, preparare il pane, curare i partigiani feriti, recuperare i corpi dei caduti e seppellirli.

Ci sono due raccolte di testimonianze femminili che rappresentano uno spartiacque nella ricerca. Il primo del 1976 e riedito nel 2003 con la prefazione di Anna Bravo è La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, il quale segna il passaggio da una memorialistica commemorativa, commossa, retorica, alla prima vera e propria raccolta di testimonianze di donne resistenti. Dalle memorie risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, la capacità di soffrire, il rispetto dei fatti e dei sentimenti: la generosità, la modestia, la pietà, confermando quello che già aveva intuito Pirenne: i sentimenti influenzano la sfera pubblica, come questa, a sua volta, la sfera privata. I gesti e i sentimenti. Le donne nella Resistenza bresciana del 1990, a cura di Luisa Passerini conferma pienamente questa intuizione. Il lavoro affidato a un gruppo di studiosi e studiose, indica un metodo e un approccio più complesso e raffinato costituito da una griglia per la raccolta delle memorie, dove la parola esperienza è posta a capo di ogni capitolo ad indicare che un nuovo soggetto sociale caratterizzato da una sua diversità entra in gioco nella sfera pubblica e narrativa.

La bibliografia è costituita da numerose tipologie di fonti: scritte, come biografie, diari, autobiografie, epistolari, e orali. Tra queste, potremmo inserire anche i romanzi, primo fra tutti L’ Agnese va a morire di Renata Viganò,  il romanzo di Rosa Mangini, La rivoluzione forse domani, di cui abbiamo parlato di recente su Bibliovorax, edito da Divergenze nel 2019. Tuttavia di qualunque fonte si avvalga, la scrittura sulla guerra e la resistenza ha bisogno di tradurre nell’ordine del discorso la rappresentazione di vissuti, interni e esterni. Nello scenario plurale della guerra il mutamento di attori e ruoli è un elemento caratterizzante come lo è l’andamento narrativo al cui centro si colloca una moltiplicazione delle immagini, in cui si snoda il rapporto tra pubblico e privato, ma anche quello che Luisa Passerini ha definito la dialettica tra eventi e simboli. Il procedere per immagini è in molti lavori di storia sociale il modo più efficace di rendere una memoria spezzata e radicata nel trauma. Con il potere della memoria ci si salva in mille modi: la sofferenza, la paura, vengono allontanate ricordando episodi di tipiche virtù e astuzie femminili: quando si offre un bicchiere di vino al nemico o improvvisando una tarantella per evitare che venga requisito il vino comprato al mercato nero. Qualche volta, è necessario allontanare dal racconto i sentimenti e tenerli sotto controllo, con la funzione di salvaguardare dal dolore risvegliato. La reticenza a dire di sé è ancor più forte, quando si tratta di parlare delle violenze subite sia ad opera dei tedeschi che dell’Esercito di liberazione. A questo proposito abbiamo un lavoro uscito di recente di Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi (Iacobelli editore, 2020), frutto di una lunga ricerca sia negli archivi, ma sopratutto attraverso le voci delle  nipoti di quelle donne che nella Sicilia orientale, raccontano le violenze subite dalle loro antenate, per opera dei Goumiers  (marocchini e nordafricani dell’esercito francese guidati dal generale Alphonse Juin), durante l’operazione militare denominata in codice Husky.

A 75 anni da quei tragici eventi, le giovani hanno contribuito a scavare fino in fondo, a fare “archeologia della memoria” per capire questa moderna tragedia femminile: “perché ricordare significa conoscere e capire e questa è una storia che si è ripetuta e si ripete in ogni secolo e in ogni angolo del mondo” (p.11). Proprio in questi casi la memoria e la scrittura assumono una valenza salvifica, facendo risuonare la voce perduta, producendo visioni e immagini cancellate. In questo movimento all’indietro, la memoria entra in contatto con ciò che la guerra non riesce a distruggere. Se in qualche modo possiamo leggere le singole memorie come espressione di soggettività, possiamo anche interpretarle come una voce corale secondo le indicazioni di Irina Ṧcerbakova che usa la categoria di ipertesto a proposito della deportazione nei gulag: “le memorie (dei lager) sono talmente omogenee, con qualche correzione di carattere geografico e temporale che sembrano quasi perdersi in un unico ipertesto”.

Il discorso vale per le fonti orali, diversi sono gli scritti. Tra  di essi meritano un’attenzione particolare il Diario partigiano di Ada Gobetti, Pagine dal diario di Alba de Cespedés, Dal mio diario di Sibilla Aleramo, In guerra si muore di Anna Garofalo. Tale forma di espressione era riservata per lo più alle intellettuali e antifasciste politicizzate. I pochi testi, divulgati nel dopoguerra erano giunti alla pubblicazione in base a criteri di “rilevanza e dicibilità”. Lo stesso si può dire per gli scritti posteriori: Rivoluzionaria professionale di Teresa Noce (1974) o Un nocciolo di verità di Felicita Ferrero (1978). A testimonianza del rinnovato interesse per il tema abbiamo un recente libro della giornalista inglese Caroline Moorehead, La casa in montagna. Storia di quattro partigiane, in origine The Women who liberated Italy from Fascism, edito in Italia da Bollati Boringhieri nella traduzione di Bianca Bertola e Giuliana  Oliviero. Il sottotitolo “quattro partigiane” fa riferimento a Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Silvia Pons, Frida Malan, fili portanti della narrazione. Un libro che ha il merito di far conoscere all’estero un aspetto della guerra a lungo taciuta dagli Alleati, e in Italia, di aprire nuovi sguardi narrativi e di contribuire a cambiare il modo in cui il nostro Paese ha raccontato se stesso. Allo stesso modo, ma non esente da polemiche politiche, il libro di Rossella Pace, Partigiane liberali (Rubettino, 2020).

Con un’attenta analisi di fonti private e d’archivio, l’autrice ricostruisce la partecipazione delle donne liberali alla resistenza, che si realizza nel reperimento di rifugi e di vettovaglie, in lavori di segreteria. Vengono alla luce figure come Cristina Casano che a Roma raccolse attorno a sé numerosi personaggi dell’antifascismo, Mimmina Brichetto, Maria Giulia Cardini, Marcella Ubertelli, Lelia Ricci. Molte di loro ruotano attorno all’organizzazione Franchi di Edgardo Sogno. Rossella Pace ci dice che queste donne cresciute nei salotti aristocratici scelsero di stare dalla parte della patria, senza nessun dubbio. Lo fecero per lo più con azione ascrivibili alla resistenza civile. Decisero di non prendere armi, ma di appoggiare la resistenza armata. Secondo l’autrice alla fine della guerra,  con l’emergere dei partiti di massa, le liberali finirono nel dimenticaio della Storia.

Ben vengano dunque nuovi studi e ricerche che ampliano il campo della storiografia sull’argomento. Non abbiamo bisogno di opere imbellettate, né agiografiche, né di liturgia, ma l’esigenza di ricostruire i fatti superando gli scontri del dibattito politico.