Memento mori e metti un like. Morte, immortalità e altre questioni. L’intervista al filosofo Davide Sisto

 

Partirei dal titolo del tuo nuovo saggio “ La morte si fa social. Immortalità  memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale” (Bollati Boringhieri 2018)  per sottoporti qualche mia riflessione. inizierei  dalla memoria, che mi sembra  in questo percorso una sorta di traghettatrice necessaria dell’esperienza della morte,- la morte deve essere comunicata- , un termine chiave della riflessione intorno all’esperienza della finitudine con la quale l’uomo si è confrontato sin dagli albori della sua esistenza. Mi viene in mente, in proposito, un racconto di Danilo Kiš dal titolo “L’enciclopedia dei morti” che Aleida Assmann cita nel suo poderoso saggio sula tema della memoria culturale. In questo racconto una donna si immerge in un mondo sotterraneo dove trova, tra le scartoffie di una biblioteca polverosa, un libro, un gigantesco  e minuzioso resoconto di vite che furono e che erano rimaste fuori dagli archivi ufficiali, quelli permanenti, tramandati nel flusso delle memorie collettive. Questo testo si presenta pertanto come una “enciclopedia controfattuale all’oblio”. Fuori dal racconto, mi sembra che questo approccio, questo tentativo di iscrizione della vita effimera dell”uomo comune” in un perenne archivio condiviso e collettivo sia l’anticipazione del racconto globale dell’era digitale e nello specifico della piattaforma social per eccellenza, cioè Facebook. Questo testo è del 1983 ma mi sembra predittivo di un bisogno che si è manifestato ancor prima di essere captato dalla tecnologia applicata. Pensi che tra eros e thanatos, che qui semplifico come istinto di vita e morte,  si possa annoverare questo terzo  bisogno di “esserci per gli altri”, di ancorarci ad un racconto globale che non sia soltanto  foscolianamente la lapide come commemorazione laica  ma anche una sorta di narcisismo –rivolto contro l’oblio-  che oggi ci fa vivere attaccati ad uno schermo?  Il sottotesto della domanda è: le nuove tecnologie hanno accolto un desiderio preesistente, disponendo le condizioni affinchè  esso si realizzasse? O lo hanno creato ex -novo?

Ti ringrazio per queste tue riflessioni, le quali cadono a pennello visto che il mio prossimo obiettivo di ricerca è quello di concentrarmi sulla cosiddetta “memoria digitale”.Sono assolutamente convinto che le attuali tecnologie digitali abbiano accolto il desiderio preesistente di aggirare l’oblio dell’uomo comune mediante una memoria interattiva e condivisa che può sulla carta durare per sempre. Ma lo hanno accolto inconsapevolmente. I social network sono nati come spazi interattivi, per lo più indirizzati a coltivare amicizie e a flirtare. Nel corso del tempo, si sono ritrovati di fronte al problema della morte e, di conseguenza, dell’eredità personale. Anni e anni di parole, immagini e voci dei singoli individui che maturano in un contesto intersoggettivo, ci trasformano in organismi informazionali e producono un lascito biografico sterminato. Nel libro parlo di Facebook come una sorta di scrigno tecnologico dei ricordi,una specie di biografia senza fine scritta a più mani. La cosa più interessante è il paradosso che ne consegue: se, da una parte, mai come oggi disponiamo di una memoria personale vastissima, per cui vi è la possibilità di lasciare un’infinità di ricordi dopo la morte, dall’altra invece vi è il pericolo di scomparire per sempre. Pensa alle conversazioni private su Facebook con utenti che hanno disattivato l’account: recuperare quelle conversazioni è molto complesso, se non impossibile. E in tutto il web funziona così: tanto vi è la possibilità di lasciare online una traccia eterna di sé, quanto vi è il rischio di scomparire per sempre a causa dell’obsolescenza tecnologica.

Sul tema della morte e dei social.  Mi pare che l’esperienza morte oggi abbia assunto una veste “pop.” I necrologi che abbondano sui social ne sono un sintomo evidente. Sembra che l’assunto sia parlare della morte, commentare, banalizzare, condividere con un corredo di  bombardamento di immagini, ma di fatto, mantenersi ad un livello superficiale, senza affrontare l’esperienza della morte vera, quella che Ivan Karamazov sperimentò dopo che ebbe sentito il puzzo del cadavere putrescente dello starec Zosima nella cella del monastero e che gli fece vacillare la fede nell’immortalità. La morte come deterioramento delle funzioni fisiche, marcescenza delle carni, come fine del corpo materiale, mi sembra insomma espunta da un orizzonte esperienziale diretto. Da parte mia penso che sia un residuo di una cultura postmoderna che nel complesso ha depotenziato il corpo e la materialità a favore dell’illusione, del virtuale e della meccanizzazione dei processi naturali.  Qual è la tua opinione in proposito?

L’assenza del corpo e dei sensi nel mondo online è significativa, poiché mantiene – volenti o nolenti – la distanza in qualsivoglia circostanza. Non ci guardiamo negli occhi, non ci tocchiamo, non sentiamo il nostro reciproco odore e questo, da un lato, ci disinibisce nel comunicare e, dall’altro, rende in parte superficiali le nostre interazioni. Sono, però, convinto che la disinibizione abbia un suo lato positivo: attutisce l’imbarazzo. Ciò, in presenza di una malattia tumorale o di una morte, può essere un vantaggio poiché permette alle persone di interagire tra di loro in un contesto – quello del commiato, per esempio – che nella realtà offline è segnato da notevoli difficoltà relazionali che ci rinchiudono in una bolla autistica. Vero che banalizziamo la morte online, ma è anche vero che creiamo le condizioni per sviluppare una forma di lutto collettivo che può far bene – a livello psicologico – al dolente nella dimensione offline. L’utilizzo di un social network per fare gruppo quando muore un amico o un personaggio famoso può diventare l’occasione per ripensare il nostro legame con la morte. La veste “pop” può, in altre parole, essere un punto di partenza. Certamente, la superficialità è sempre dietro l’angolo: ma non pensi che questa superficialità – di fatto – sia altrettanto presente nella dimensione offline?

In effetti qui come altrove, il virtuale è specchio del reale. Forse un amplificatore

A proposito di immortalità: lo stesso trattamento riservato al concetto di morte mi sembra sia stato riservato a quest’ultima. Mi riferisco al tentativo di considerare l’immortalità come una dimensione accessibile, anche divertente, una”possibilità” non più chimerica e futuribile come era prospettata nella science fiction di qualche decennio fa, ma una dimensione raccontabile e rappresentabile anche negli schermi televisivi, nelle serie tv e nei prodotti culturali di massa.  Anch’essa pop, se vogliamo. La recente produzione Disney “Coco” film di animazione per bambini, mi sembra un esempio lampante di questo atteggiamento: spiegare la morte ai bambini come una sorta di prolungamento della vita, in un aldilà che è l’esatta copia del mondo terreno e in cui non a caso è il filo della memoria ad impedire l’oblio totale dei defunti. Altra produzione destinata alla prima serata televisiva è la serie tv “Les revenants” di Federice Gobert una versione molto particolare del topos del ritorno dei morti viventi. Lungi dall’essere mostri con carni penzolanti e viscere in bella vista, questi “zombie” ritornano dall’aldilà perfettamente identici rispetto al momento della loro dipartita : integri nel fisico e nella mente con il loro carico di sentimenti, ricordi, desideri. Tutto ciò chiaramente crea una situazione ibrida tra l’aldilà  e l’aldiqua, un cortocircuito temporale che altera ogni legge naturale. Mi pare che questo tentativo di ricercare l’immortalità piuttosto che accettare la fine  sia la spia di un bisogno di una spiritualità depotenziata una sorta di religii9one senza culto, una paura della fine nuda e cruda. Quindi non si accetta la perdita dell’altro, più che l’esperienza della morte stessa. E di conseguenza non viene mai elaborato un lutto una gnoseologia del trapasso, di un altrove senza anima. Il trauma in sostanza non diviene esperienza ma solo narrazione.  Cosa ne pensi di queste narrazioni massmediatiche di forte impatto a proposito di temi così cruciali? Arricchiscono, impoveriscono, sono necessarie o inevitabili?

 Sono molteplici le chiavi di lettura. “Coco” ci insegna che, fino a quando qualcuno si ricorda del morto, questo – in un modo o nell’altro – rimane “vivo”. Se applichiamo questo insegnamento al web, allora possiamo considerare il web come la perfetta sintesi tra l’aldiquà e l’aldilà. Basta una connessione al wifi ed ecco che abbiamo una dimensione escatologica nel qui e ora, fatta di parole scritte, immagini e video che, registrate, si ripetono all’infinito. Quindi, le tecnologie digitali attuali rappresenterebbero il punto di arrivo del processo di secolarizzazione e della trasformazione laica dell’immortalità. La tal cosa è, a mio modo di vedere, molto interessante. In qualche modo, ci dimentichiamo di una possibile vita post mortem del caro estinto, per esempio in Paradiso, e ci accontentiamo di tenere stretto a noi il suo corpo digitale che sopravvive ad libitum. D’altro canto, il processo di autoaffabulazione è evidente: come sottolinei tu, questa quantità infinita di ricordi “mobili” online del morto rendono ancora più difficoltosa l’accettazione della perdita e della fine di un rapporto. Va oggi di moda, non a caso, il concetto di “retromania”: il web rende difficoltosa la distinzione cristallina tra il presente e il passato, impedendoci di guardare avanti verso il futuro. Sia a livello individuale sia a livello collettivo, viviamo in un’epoca che non accetta la fine delle cose e che, invece di creare qualcosa di inedito, continua a ripetere nostalgicamente ciò che è passato. Appunto, c’è sempre meno esperienza e sempre più narrazione.

Nel tuo libro si parla anche di un fenomeno singolare che riguarda la possibilità di designare un “erede”su Facebook che in caso di morte prenderebbe in carico il profilo per gestirlo autonomamente. Un erede virtuale che di fatto prolungherebbe la permanenza del defunto sul social. Sarebbe  una forma di rappresentazione della morte e  di contro della propria immortalità sul piano virtuale. La letteratura ha ugualmente imboccato questo percorso: l’eco dannunziana del proclama della finta morte che tanto fece scalpore nei primi del ‘900, si riverbera nell’autofiction contemporanea. Houellebecq fa il salto:  nel  romanzo “La carta e il territorio”, pubblicato da  Bompiani si fa “morire” consacrandosi di fatto ad essere immortale, come accade in ogni morte artistica letteraria, mediatica. Tra la morte “autoriale “ e la morte reale mi sembra che sussista la stessa distanza ontologica che permane tra la carta e il territorio, non a caso. Il reale e la sua rappresentazione. A vincere la partita è la carta  con tutte le sue seduzioni aggiuntive, mimetiche, poetiche. La mia domanda è, secondo te è possibile rieducare ad un discorso sulla morte come evento reale, senza mistificazioni e mediazioni? O, come suggerisce Houellebecq  abbiamo saltato il fosso?

Secondo me, la morte è un evento reale anche nel web. Abbiamo, finora, parlato di narrazione che prevale sull’esperienza, di retromania, di immortalità immanente, tuttavia non dobbiamo nemmeno dimenticare un altro aspetto importante: la rappresentazione visiva del morto su Facebook, tramite la registrazione delle sue parole scritte, delle sue immagini e dei suoi video, ci mette anche dinanzi alla realtà più cruda della morte. Vale a dire, la fine totale, radicale. Il profilo Facebook di un utente deceduto può, cioè, essere l’occasione utile per prendere – per esempio – il proprio figlio e insegnargli che cos’è la morte. Questo materiale visivo può diventare il mezzo per spiegare che cos’è l’esperienza effettiva della morte. Occorre, ovviamente, disporre di una buona capacità educativa. Motivo per cui sono convinto che occorra unire gli insegnamenti a un uso consapevole del web con quelli relativi a una corretta Death Education. Non so se sono riuscito a spiegare quello che volevo dire o se sembra mi sia allontanato dalla domanda.

Sì anche se personalmente, e avrei mille esempi per corroborare la mia tesi, penso che i bambini sappiano perfettamente cosa sia la morte.   Applicherei la “death education” alla rielaborazione della perdita e del lutto, quindi al trauma, in definitiva.Tuttavia credo che vi sia ancora una distanza tra la morte esperita attraverso la visione reale e quella virtuale. Non di certo a livello ontologico (sempre morte è) ma sicuramente emotivo e psicologico.

Trionfo della morte

Tu sei “tanatologo”, parola che di primo acchito potrebbe impressionare, ma per una siciliana come me capirai non lo è affatto, talmente avvezza a rinvenire nella nostra cultura degli stimoli tanatologici molto potenti. Chi ha visitato Palermo ha conosciuto, e se non lo ha fatto dovrebbe rimediare, due luoghi in cui la morte si mostra in tutta la sua vividezza. Uno è il palazzo Abatellis dove campeggia il celebre affresco del Trionfo della morte; l’altra è la cripta dei Cappuccini dove vengono custodite le salme imbalsamate dei cittadini morti nei primi del ‘900, alcuni in uno stato di quasi perfetta conservazione. La nostra cultura è insomma piena di segni e di miti e riti funebri. Penso che ogni cultura abbia il suo spazio  di simbolizzazione riguardo al tema della morte con differenze che caso mai riguardano la trasmissione alle nuove generazioni di questo tipo di cultura.  Quando e come è nata la tua passione per la tanatologia;  è legata ad un fatto  culturale o più personale?

La mia passione per la tanatologia lega insieme un fattore culturale e un fattore biografico. Da un punto di vista culturale, sono uno studioso di Schelling e del romanticismo tedesco, all’interno di cui la morte occupa un ruolo fondamentale per comprendere la vita. Da un punto di vista biografico, ho sempre pensato molto – fin da bambino – alla morte, soprattutto a quella delle persone a cui voglio bene. L’idea della precarietà esistenziale mi ha sempre fatto molto riflettere, essendo poi una persona tanto malinconica quanto disincantata. Aggiungi la passione per la musica hard rock e heavy metal, in cui il tema della morte è ricorrente, ed ecco perché mi occupo di tanatologia.

 

Promuovi il tuo libro in poche righe: perché dovremmo leggerlo? (anche se ormai i motivi mi sembrano più che evidenti).

 Perché non siamo ancora preparati ad affrontare il lutto online e non siamo ancora consapevoli di come gestire la propria eredità digitale. Il mio libro cerca di colmare questa mancanza, fornendo qualche spunto di riflessione. Inoltre, contiene numerose descrizioni di invenzioni piuttosto assurde che cercano di farci sopravvivere online. E la curiosità è sempre un buon motivo per leggere un libro.

 

Davide Sisto è ricercatore in filosofia teoretica presso l’Università di Torino. Oltre a numerosi saggi su riviste nazionali e internazionali, ha pubblicato: Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura (2009), Narrare la morte. Dal romanticismo al postumano (2013) e Schelling. Tra natura e malinconia (2016).