Tengo particolarmente a questa recensione per svariati motivi: il principale è che si tratta di un libro scritto bene e questa lungi dall’essere una captatio benevolentiae è la diretta conseguenza delle mie scelte, fatte con l’intenzione di non seguire mode e premi letterari, ma di scovare piccoli gioielli di scrittura e di idee che vagolano nelle bacheche e negli scaffali di ottime case editrice come quella che ha edito il libro di cui vi sto per parlare. La casa editrice è palermitana, Corrimano edizioni che ha sfornato negli ultimi anni delle pubblicazioni per palati raffinati che spesso fanno l’occhiolino al mondo della russità, cosa che non mi stupisce, ma che non è così ovvia e scontata per ciò che riguarda le scelte editoriali di una giovane casa editrice.
Il libro in questione d’altronde deve il titolo ad una citazione, un frammento di uno scritto di Pasternak, Lettere agli amici georgiani e, lo confesso, è stato il traino emotivo della mia lettura: La tua presenza è come una città, (Corrimano Edizioni 2016) scritto da Ruska Jorjoliani. Lei è una giovane georgiana che esordisce nel 2009 vincendo il premio Mondello Giovani-poesia e che scrive prevalentemente nella sua città d’elezione, Palermo, conosciuta dal 1995 quando in seguito ai conflitti tra Russia e Ossezia e ai bombardamenti su Tblisi, vi si trasferisce per iniziare una nuova vita.
Il plot della storia è abbastanza semplice, ma articolato in funzione di un’architettura di esistenze che si intrecciano alla luce del grande faro della storia, che è la prima protagonista di questa narrazione, ambientata in una città immaginaria, finzionale perché in questo caso rappresenta l’archetipo delle città erose e trasformate dalle generazioni, dagli avvicendarsi di idee controverse, dalle contraddizioni e dalle ricuciture. A Miroslav stanno due ragazzi, diversi per caratteri e visioni della vita, che crescono come fratelli, Viktor Almasov e Dimitrij Florensov. Il loro destino è segnato dalle scelte che compiono in merito alla causa del regime bolscevico appena instauratosi. Aderire o disertare? Dimitri non crede nel socialismo e mentre conduce una lezione in aula (è diventato professore), decide di staccare un ritratto di Lenin dalla parete e defenestrarlo. Chiaramente è l’inizio della sua fine, che lo condurrà in Siberia a scontare il misfatto. L’amico fraterno si prende carico della famiglia e ospita in casa la moglie e il figlioletto Sasha che crescerà insieme al figlio di Viktor dando avvio alla seconda generazioni di credenti e non credenti, ripetendo, in un certo senso, il destino dei loro padri. Sasha diventa bibliotecario e immerso in un mondo popolato da ricordi, lettere, libri, ricostruisce il suo passato rivedendo nell’amico Kirill l’alter ego del padre, impavido e distruttivo. Anche Kirill si ribella alla causa del regime e ne viene fagocitato. Tre generazioni di uomini, contornati da donne coraggiose e materne al tempo stesso, si incontrano al crocevia rovente della resa dei conti di uno dei periodi storici più controversi della storia. La tua presenza è come una città si conclude proprio con la visione di una città e con le poesie di Kirill, un monumento più duraturo del bronzo, che mi piace immaginare costruito sopra le macerie di tutte le città ferite e poi ricostruite.
Non mi dilungo oltre sulla trama perché voglio fare delle considerazioni tecniche che a mio parere sono necessarie per mettere in luce i punti di forza di questo romanzo e i piccoli difetti che non ne inficiano globalmente la qualità. Nel caso della Jorjoliani, le doti coincidono in parte con i limiti. Il suo romanzo è ambientato nell’epoca della grande rivoluzione russa, in una Russia che stava costruendosi come Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Dalla prospettiva in cui è scritto, esso è rivolto al mondo che sotto l’etichetta di ‘postsovietico’, in realtà accoglie un insieme di riflessioni teoriche che spaziano dalla memoria culturale all’ostalgie più spietata con tanto di culto feticistico degli oggetti, fino a movimenti artistici come la Sots art che irridono con sarcasmo miti e riti della rivoluzione. Inoltrarsi in questo mondo è abbastanza pericoloso ma nel romanzo la scrittrice vi entra con leggiadria giocando le carte, peraltro molto ben distribuite, della narrazione in chiave intimista: i protagonisti, Dmitrij e Viktor e i loro eredi, Kirill e Sasha, infatti si raccontano portando sulle spalle dei grandi e piccoli massi, come quelli del supplizio, che sono le responsabilità di una vita sotto il regime sovietico, aderenza e abnegazione per il filorivoluzionario Kirill e senso di oppressione e cupezza per l’amico Sasha cui, essendo affidata la voce narrante, spetta il grande compito di fare da filtro emotivo per il lettore. Questo tipo di memoria con cui si misura il romanzo è quella che Aleida Assmann definisce memoria” vivente”, che si stacca come un frammento dalle grandi epopee storiche per aderire ad un mondo personale e soggettivo. La microstoria, in tal modo si intreccia alla macrostoria, e il racconto che rischierebbe di appesantirsi se fosse interamente giocato sulla diade manichea sovietico/vs antisovietico, invece si alleggerisce aprendo a quelle che sono le maggiori doti della scrittrice, quelle liriche: qui sono affidate agli oggetti “parlanti” che da soli ci raccontano un mondo:
1. Una tokarev TT-33
2. Un taccuino foderato di pelle nera (con degli scritti indecifrabili ad occhio nudo)
[…]
5. Un fazzoletto bianco di stoffa con una piccola macchia di sangue a forma di uccello in volo (con molta probabilità appartenente a qualche rappresentante del gentil sesso, esclusa la moglie, dal momento che le iniziali ricamate in un angolo- O.M.- non erano sicuramente di Alina Petrovna.
6. La tessera del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
7. Una stampa d’epoca (un manipolo di cosacchi con le spade sguainate va all’assalto di una fortezza dai cannoni minacciosamente puntati).
8. Carta rossa lucida accuratamente piegata che un tempo doveva contenere qualcosa di zuccheroso, probabilmente cioccolato (da un lato era appicicoso).
Una trovata di stile, intelligente e accattivante, quella di far parlare gli oggetti per narrare una realtà che di fatto non si è vissuta personalmente, ma le cui si perpetuano le conseguenze nella vita personale (parlo dell’autrice). Così nei vecchi mugiki come nelle nuove generazioni, i grandi movimenti storici, come quello della rivoluzioni, plasmano le esistenze presenti e a venire ( parlo della voce dell’autrice nel testo).
Viene da pensare che l’immagine cardine del romanzo, il casus belli, il motore dell’azione, la grande scena iconoclasta che vede Dimitri prendere un mano un ritratto di Stalin (!) e scagliarlo violentemente dalla finestra, sia un implicito tributo al grande Vladimir Vojnovič di Propaganda monumentale, un romanzo fondamentale per chi voglia minimamente approcciarsi al curioso intreccio tra la politica, le immagini della propaganda e la vita quotidiana della gente in era sovietica. Anche nel caso non lo fosse, a me piace pensarlo che lo sia e credo che anche l’autrice sarebbe contenta di questa analogia, perché rompere un oggetto è privarci ora e sempre della sua aura (demoniaca o meno) e lei ce lo fa sentire bene:
Si fermò sotto il ritratto di Lenin, appeso tra quello di Turgenev e quello di Cekhov, i suoi due scrittori preferiti, e stette lì squadrarlo per un minuto buono: pensò che aveva qualcosa di un bambino, smarrito in mezzo a quei due anziani barbuti. Afferrò allora la sedia più vicina, la trascinò e l’addossò alla parete; vi salì e sganciò il ritratto dal chiodo. Si staccò qualche briciola di intonaco e gli si depositò sulle punte delle scarpe.
È questo un romanzo denso, mi viene da usare questo aggettivo. E nella densità ritrovo l’anima di una scrittrice “russa” nell’essenza e nello stile. E non mi riferisco alla “russità” della nouvelle vague di scrittori giovani e meno giovani che popolano le classifiche da Prilepin a Petrosjan che pure hanno contribuito a creare un postsovietismo letterario poliprospettico.
Il suo stile serio è il risultato di ottime letture, di un talento autentico, e di tante riflessioni sui grandi romanzi d’idea della letteratura russa: da Puškin a Dostoevskij, tanto per delimitare una parabola ideale di riferimenti. Ma anche Lermontov, Fet, Turgenev, fino a Florenskij e Majakovskij.
Trovo che la letteratura russa e i migliori tra i pensatori della cultura russa dell’ otto-novecento le abbiano fornito un canovaccio di un certo peso, e in fondo a confermarlo è proprio il bibliotecario Sasha che fa una dichiarazione di intenti quando afferma che “i libri gli fanno compagnia da più di quarant’anni”. È anche una dichiarazione estetica ed etica, che vale a dire: questo è anche un discorso sui libri, sui libri che ho letto, che fanno il mio immaginario, che salvano le vite dai disastri, che onorano la bellezza. All’interno una sorta di biblioteca borgesiana, la Jorioliani ci parla metatestualmente e anche intertestualmente, visti i numerosissimi riferimenti a note opere, talvolta esplicite, talvolta in filigrana, a classici delle letteratura e della poesia russa, non con l’intento di sfoggiare erudizione, ma per collocare in una temperie di spessore la sua narrazione, che raramente si lascia andare ad aperture ironiche, ma quando lo fa è davvero uno spasso, uno spasso molto “russo”: vorrei isolare due momenti, uno dei quali una deliziosa parodia della malattia del principe Myškin, protagonista dell’’Idiota quando in preda ad accessi di mal caduco, giungeva ad una sorta di visione mistica: qui, diventa tutta una scena isterica del pianto di Kirill:
Qui bisogna dire due parole sul suo pianto, non esattamente raro, che mio padre chiamava “Operazione Myskin”: attaccava coi piccoli sussulti e un’espressione deformata del viso che dapprima sembrava una risata, ma ben presto sfociava negli spasmi di un lamento isterico. Fece così anche quel giorno. Viktor alzò gli occhi al soffitto fuligginoso:- No, per favore, Myskin, no. Accetterei persino uno Smerdjakov in questo momento, ma non lui.
Un altro momento felice riguarda le pennellate liriche che fanno una vera e propria riscrittura della poesia russa, cogliendone, anche qui e ironicamente le sfumature più vivide:
Oggi tutti si sentono dei nuovi Majakovskij quando sono soltanto dei poveri rimatori o dei non poveri mascalzoni. Non che Vladimir Valdimirovič fosse stato chissà quale genio, ma il suoi carisma e un modesto talento poetico sono il minimo indispensabile per diventare oggigiorno un uomo di lettere di media statura. Il ragazzo che mi portò quei versi era semplicemente un povero rimatore, senza carisma, senza spirito. Una delle poesie si intitolava Al passaggio della bara del poeta sotto le mie finestre ed evocava i funerali di uno sconosciuto poeta di provincia, morto di vecchiaia , e descriveva gli stati d’animo di un giovane che aspirava alla pari fortuna nella vita e alla minore fortuna nella morte.
Al netto di questi riferimenti che a volte sanno di manierismo come ad esempio il riferimento quasi obbligato al sogno ( Oh! Sui sogni di area russa si potrebbero scrivere interi saggi) emergono punte di mature scelte stilistiche che denotano la capacità di creare un testo poliedrico e sfaccettato: l’uso dello skaz, (narrazione che mima l’oralità, semplificando) ma veramente ben orchestrato laddove innesta nel racconto tragico della morte del giovane Kira in Siberia, una deliziosa “Olesia dei boschi”- fiaba russa da raccontare ai figli durante una passeggiata- che contribuisce a creare una pausa emotiva; l’uso connotativo dell’onomastica, mai casuale: Kirill il suicida, (fa tanto pensare al Kirillov dei Demonî) il diacono Sergej, figura statuaria, forse riferito al prete Sergej Bulgakov e al suo controverso rapporto con la parte bolscevica, Dimitri(qualche goccia di sangue dei Karamazov?) e il capo della milizia Rogožin, di Riazan, che di fatto è la causa della condanna a Viktor per il furto della campana, aguzzino anche lui come il celebre predecessore dostoevskiano e potrei andare avanti con Valodja il pazzo, uno jurodivij a tutti gli effetti, uno che “conosceva la data della sua morte” e una chiosa alla Belij con uno sfondo di città perturbante tutta neon e cartelloni pubblicitari che “assomiglia ad un albero di Natale”.
Un materiale indubbiamente interessante che a volte provoca la vertigine bulimica del “tacchino ripieno di ogni ben di Dio” della cena di Gogol’ delle Anime Morte ma che denota da parte della scrittrice un’attenzione per i particolari, una tensione vivida verso le “idee” forti e un indubbio talento nella scrittura, peraltro scritta in un italiano che molti madrelingua potrebbero trovare invidiabile. Ruska Jorjoliani ha uno stile che rimane impresso: rigoglioso, fatto di ampi periodi, riempiti da fini metafore visive e frequenti slittamenti del senso. Il tutto si compie all’interno di una cornice descrittiva che rimane ancorata ad una ferrea realtà, tanto sinistra quanto “poetica”.
Credo pertanto che questo romanzo sia un esempio di come si possa puntare su una giovane scrittrice senza dovere indulgere a narrazioni di intrattenimento ma presentando una storia che parla di un passato con cui bisogna inevitabilmente fare i conti, con una visione aperta e critica, o come Ruska, con il coraggio della propria idea.