Luca Ricci- I difetti fondamentali-
Partiamo dalla copertina. Solitamente è un particolare che tralascio o dal quale mi faccio affascinare per il breve tempo che precede l’immersione nella lettura. Non è questo il caso: la copertina de Gli autunnali, (La nave di Teseo 2018http://www.lanavediteseo.eu/) è entrata a pieno titolo nella vicenda editoriale del romanzo. I lettori sono stati interrogati sulle suggestioni della copertina rossa che ritrae un frammento in bianco e nero di una foto. Una ragazza stesa su un prato, un soggetto maschile la riprende dall’alto, di lui si intravede soltanto una gamba. Mi viene in mente Blow up e quel particolare uso dell’obiettivo fotografico e dello sguardo maschile che nel film intreccia la storia di Thomas e della modella ritratta. Credendo che i collages mentali vadano seguiti pedissequamente, e che l’istinto critico sia sempre il miglior punto di partenza, decido, sicura di trovare una conferma, che quel link mentale potrebbe essere la chiave di lettura del romanzo e che quell’associazione sia tutt’altro che casuale. In effetti, a posteriori ho ritrovato ne Gli autunnali un simile percorso fantasmatico, retto dall’intreccio osmotico tra reale e immaginario che toglie l’ossigeno al verosimile per catapultarci nel regno dei fantasmi dell’aldiquà, quelli che talvolta abitano i nostri sottosuoli e che si incarnano in persone reali, di sangue e di ossa.
Gli autunnali infatti si biforca in due storie parallele: una incentrata sulla tipica stanchezza di una vita coniugale sfibrata dal tempo, dalle usuranti abitudini, e l’altra all’insegna di un vitalismo erotico nato da un insano capriccio della mente, un innamoramento tutto immaginario, ordito da uno scrittore che vuole forzare il caso la fantasia, attaccandosi ad una foto-feticcio della della musa del pittore Modigliani, per farne un doppio nel mondo del reale. Da questa velleità un po’ bambinesca, tipica di certi rituffi giovanilistici dei cinquantenni, nasce un insano amore, tutto ossessione e romanticismo d’annata, in una sorta di teatrino bohemienne che, aperti gli occhi, si rivela essere un banale tradimento piccolo borghese con una donnina insulsa, alla spasmodica ricerca di fare della vita quell’opera d’arte che essa non sarà mai.
L’opera d’arte da riportare in vita con tutto un rituale psicopompo, è un ritratto di Jeanne Hebutérne, musa del pittore Amedeo Modigliani con il quale la donna visse una relazione torbida e passionale, segnata da un tragico epilogo. Al protagonista, uno scrittore affermato nel pieno di una crisi coniugale, un misto tra Dr. Frankestein e Andrea Sperelli, manca però fare i conti con il torbido che da questa storia emerge. Avete del resto mai provato a spostare le foglie autunnali che formano quei tappeti croccanti e fragili lungo i marciapiedi delle villette urbane?
Lì vive un mondo parallelo, un sottobosco di microorganismi che cresce, si riproduce, mangia i nostri resti. Strani insetti, strane creature e disturbanti come certe azioni che “non potevamo immaginare”, ad esempio picchiare una prostituta a sangue per affermare il proprio diritto all’abiezione, per sentirsi assolto nel tradimento delle promesse, per essere riportati a galla dopo l’apnea del sesso coniugale, stanco opprimente, triste.
La poesia e la violenza non erano affatto in contraddizione tra di loro. In tutti gli uomini poetici coabitavano una rosa e una scure, come si diceva a proposito di Shakespeare. I drammi di Shakespeare, peraltro, erano la più lampante rappresentazione dell’impasto tra crudele e sublime che era la vita, e l’uomo poetico- l’uomo cioè schiantato e sopraffatto dalla poesia- non faceva che vivere più intensamente degli altri. Ecco perché mi ero già assolto, ecco perché quella violenza portava diritta alla beatitudine (e sì, poteva succedere anche il contrario).
In queste pagine non c’è memoria ma solo la celebrazione dell’oblio. Del resto eccolo l’autunno, il mese di mezzo, quello che non è estate non è inverno, non è abbastanza memoria e non è più speranza. È oblio, caducità, caduta perenne di foglie, come caduta di capelli, caduta delle carni, caduta degli ardori. Un topos letterario del resto, abbastanza comune, ma che qui riesce a creare globalmente quell’atmosfera e quel “colore “necessario” a tenere insieme questi intrighi.
È anche il romanzo del doppio, o del doppio sogno alla Schnitztler, citato in filigrana nella versione cinematografica di Kubrick, altra chiave di lettura, che soltanto alla fine della storia si rivela nella deflagrazione del reale dentro la costruzione immaginaria.
Un ingombrante e ben architettato apparato, questo, che tuttavia rallenta un po’ il ritmo. Se si respira sopra il testo in un pausa di riflessione, viene fuori il rasoio dello scrittore di racconti ( in alcune parti saccheggiati dalle raccolte precedenti) che fa il pelo e contropelo alle dinamiche della vita di coppia, all’intérieur di quel mondo borghese della vita coniugale, vera croce e delizia della penna di Ricci, suo campo naturale di indagine e dove l’autore brilla con le sue caustiche e perspicue incursioni.
Un intero universo scandagliato impietosamente nei minimi slittamenti, nei non detti che tutti alla fine dicono, nelle noie e nei sussulti e in quella promessa monogamica che diviene ben presto sacrificio, ma anche spinta compulsiva, artificio di immaginazione, pungolo al vivere “oltre” gli argini mantenendosi dentro gli argini.
Ogni volta che i coniugi si davano un bacio si allontavano di un bacio esattamente come si erano avvicinati di un bacio ogni volta che si erano dati un bacio i primi tempi . Erano terribili le leggi fisiche dell’amore, ed era un bene che nessuno avesse tentato di sistematizzarle, non ci fosse mai stato un Albert Einstein del cuore (al limite del cazzo e della fica) che avesse fatto una linguaccia all’inguaribile relatività sentimentale del genere umano.
Dentro questo recinto si consuma la passione d’amore, vissuta tra corpo ed evanescenza. La donna amata: un misto tra Sandra, la moglie, una commessa e Jeanne Heabutérne, infine è solo un ibrido ectoplasmatico; un’idea, una chimera. E tutto il romanzo è una specie di negromanzia dei sentimenti, riacciuffati in un altrove sotterraneo,- del resto Roma, chissà cosa ancora nasconde nelle sue viscere misteriose-.
In superficie si muovono due scrittori,una specie di padre spirituale, un Gittani/Virgilio dantesco molto disincantato e un più giovane scrittore cinquantenne, un Dante sul calar della crisi di mezz’età; assieme, spalleggiandosi sarcasticamente, conducono questa catabasi nei reconditi recessi delle loro vite, snocciolando i racconti della decadenza, delle verità scomode, dei disvalori, delle bassezze, delle miserie umane, che sono il succo della vita e della letteratura che rimane oltre le rovine del tempo.
Tutto diviene allora astorico atemporale, com’è tipico di una scrittura intertestuale quale è questa che intreccia citazioni e rivisitazioni letterarie del passato con il racconto di un quotidiano schiacciante. Il risultato è un mondo in cui convivono morti, fantasmi, e vivi, Maupassant e i sui epigoni, Modigliani, l’amante e le variegate reincarnazioni. E come ogni sincera intertesualità, essa vuole rintracciare un dialogo con il passato, senza riesumare ma, piuttosto, vivificare. Qualcuno direbbe vagamente postmoderno, ma di etichette siamo ormai pieni. Io dico viva la poesia e le perdute stagioni dell’amore.