Chi guarda chi? Una piccola riflessione su “Las meninas” di Velasquez

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Uno dei quadri più importanti e ricchi di implicazioni e simbolismo della storia dell’arte moderna, è Las meniñas di Velasquez, del 1656.
 
Seguendo una linea che a me piace chiamare, della “perspicuità”, la pittura olandese del 600 è sempre stata accostata al realismo dettagliato e vivido, basti pensare a Vermeer, Van Dyck, alle loro luci precise, diurne. Vedere meglio, ma vedere anche oltre, i quadri di questi pittori ci catapultano non solo nel doppio della realtà come la vediamo, restituendo una copia che fa a gara con il reale, ma ci rendono pienamente partecipi dell’esperienza visiva, dell’esperienza della rappresentazione e della composizione dell’opera d’arte. Con Velasquez e Las meniñas questo processo giunge al culmine: siamo parte del quado che ritrae le giovani eredi del trono di Spagna. Come riesce a fare ciò ce lo spiega bene Foucault in una celebre lettura acuta del quadro.
Anzitutto ci invita a guardare agli attori che campeggiano in prima linea nel quadro: al centro è l’infanta Margherita, erede al trono di Spagna. Il palcoscenico sembrerebbe suo, ma è soltanto una fugace impressione. A lato le comprimarie della piccola, col loro seguito di pose e un cane che dorme beato.
A lato il pittore, che guarda. Chi per l’esattezza? Il re Filippo IV e la regina che si specchiano e si mostrano a dal riflesso? In questo momento, dice Foucault, egli esce dal quadro e dialoga con noi spettatori che lo guardiamo. Si apre il primo squarcio tra visibile e invisibile. Siamo già parte della rappresentazione del quadro. E anche il pittore, figura solitamente anonima una presenza assente per così dire, trova il suo spazio e la sua parola. Ma aggiunge, siamo veduti o in atto di vedere, soggetti o oggetti della rappresentazione? La presenza del cortigiano Josè Nieto, sullo sfondo mi sembra essere il vero punto di fuga della composizione. Nella rappresentazione del potere, e nel gioco degli sguardi multipli, Velasquez sembra darci la possibilità di uscire da questa parata. Mi sembra suggerire, “se volete uscire ecco pure la porta, se rimanete qui, viceversa, sappiate che il potere ha sempre lo sguardo altrui come alimento e mai potrà essere diversamente. Noi spettatori alimentiamo la corte e i suoi rituali. E lo specchio, vero protagonista e strumento della duplicazione semantica, è quasi dimenticato in un angolo. Come nell’altro celebre e magnifico quadro dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck,  sicuro modello del Velasquez.
 
Vale la pena ricordare la citazione sotto forma di ecfrasi inventata che fa Sciascia nel finale del romanzo Il contesto del 1971. Rogas , il commissario e Amar vengono trovati uccisi in due sale adiacenti della Galleria Nazionale, l’uno sotto «il quadro della Madonna della Catena di ignoto fiorentino del quattrocento», l’altro «sotto il famoso ritratto di Lazaro Cardenas del Velasques» In realtà questi quadri non esistono e il nome di Lazaro è quello di un rivoluzionario messicano. Ma il riferimento al pittore dei re è emblematico: prefigura la morte degli ideali in nome della rivoluzione che poi diventa immobilismo. E aggiungo, nel contesto, “Il travestimento comico di un’opera seria”, la grande riflessione sul potere si dipana nei mille rivoli della pusillanimità e dell’omertà, delle minacce velate, delle finte risate, delle smorfie consapevoli, in in tutta quella fisiognomica dello sguardo che tanto ricorda l’arte di Vealsquez.  E poi, come non ricordare Innocenzio X di Francis Bacon? Ma qui si apre un altro denso capitolo. Alla prossima.
 
#pilloledarte

Raffaele Rinaldi e il “wit” siciliano.

Raffaele Rinaldi

Raffaele Rinaldi

La fotografia è quanto di più fittizio possa esistere. Superata la falsa illusione di vedere rappresentata la realtà per quella che è, ciò che si chiede alla foto è di restituirci una frazione di esistenza, una sensazione labile, un mondo culturale, un progetto che diventa immagine. Guardando le fotografie di Raffaele Rinaldi, possiamo fare  questo esercizio di scomposizione e provare a capire qual è il suo mondo di riferimento e il filtro attraverso cui egli rappresenta le donne, i giochi della mente, e il trionfo barocco di certe immagini dal gusto siciliano. Palermitano di origine, classe 1973 formatosi all’ Accademia di belle arti di Firenze, vanta anche studi scientifici e musicali.

La sua “via di Damasco” sembra essere stata una passeggiata sul corso fiorentino, quando scorge da una vetrina di una pasticceria una torta esposta in bella vista. Nella sua mente la torta diventa un cappellino molto elegante, così nasce la foto della serie “Sweet beauty” in cui  una giovane donna  indossa  questa torta-cappellino con le iniziali del suo creatore. Tutta la serie nasce con l’intento di creare una metafora visiva incardinata sullo slittamento del senso. Citazione surrealista, certamente, ma originale la soluzione di utilizzare il cibo, già  di suo intriso di simbolismi, per farne un puro elemento decorativo. Per meglio dire, l’idea è riportare il cibo ad una funzione meramente estetica (forse schiacciando l’occhiolino al trend imperante del visual food) e sviluppare un senso di straniamento molto soft.  E ci riesce bene, a giudicare dalle immagini che ritraggono altre donne con altrettanti decori da mangiare: volute di liquirizia al posto di onde e riccioli dal gusto decò, meringhe come strutture posticce in una geisha postmoderna, trionfi di limoni siciliani a mò di corona, il cannolo, dolce per eccellenza della tradizione arrotolato ad una ciocca come un bigodino,  e una regale testa di moro femminile, coronata da fichi d’ india che tanto ricorda la corona della moglie di Federico II, Costanza d’Aragona

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Sicilia, surrealismo, ma c’è dell’altro. Prestiti dal mondo dell’arte, per iniziare, e non sotto  forma di citazioni, ché  il gioco sarebbe “facile”; ma di elementi stilistici, strutturali, per così dire: la pulizia delle forme del Rinascimento, la geometria armonica delle proporzioni dell’arte greca, una “pittoricità” delle immagini che mima la severa impostazioni delle forme artistiche, e la campitura netta dei colori che non dà adito a “modernismi” tecnici. Classico e tuttavia innovativo, nell’idea di fondo: elementi che rinverdiscono uno dei classici forse più citati dell’arte, la figura di Ofelia e che sono l’ossatura di fondo di altre foto come la donna con il falco, e la donna con il gatto nero dalla serie animal beauty. Chi detiene il potere in queste foto? Sapreste dirlo? È tutto uno scambio di ruoli tra uomo e animale.

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Raffaele Rinaldi fa, con la fotografia, ciò che in letteratura viene definito “pastiche”, cioè una combinazione di elementi  disparati con intenti espressivi che spaziano dal parodico all’ironico, mimetico etc. La sua capacità di fondere citazioni artistiche e stil (surrealismo, arte rinascimentale, elementi della tradizione locale, dell’immaginario siciliano), ad una iconicità prettamente autoctona, rendono le sue foto uniche nel suo genere, un esempio di creatività, ironia, stile. Uno spirito “wit” che spira dal Sud.

Ho fatto qualche domanda a Raffaele, ecco l’intervista. Continua a leggere