Partendo dai massimi sistemi, rinnegando la consuetudine di fare una carrellata sui dettagli, constato che questo romanzo si sviluppa tra le macro categorie del talento e del mestiere. Una storia di aut-aut. Una scelta di vita morale, se vogliamo, furbesca anche. Prima di iniziare scegli o al limite tiri i dadi: sei per l’uno o per l’altro? Successivamente passi alla seconda domanda: “Chi è Carlos Kaiser Henrique?” È un impasto. Un calciatore brasiliano. Uomo reale, fittizio, maschera allegorica. E il calcio? La cornice ideale del suo dispiegamento alla vita, celebrata dalla frase manifesto: “Sembra una storia di calcio, ma per come la devi raccontare, per farla uscire dico, gli manca una cosa che le storie di calcio hanno,devono avere. Devono avere un perdente”.
La contromisura alla consueta esaltazione della figura del calciatore, presente nei vari memoires e biografie prezzolate, nel romanzo di Marco Patrone Kaiser, edito da Arkadia editore nel 2018, assurge a presa di posizione: chi perde può anche vincere nel variegato mondo delle glorie sportive. Questo ad un primo livello. Si sa, infatti,che i libri di calcio non parlano mai realmente di calcio. “Lo sport è il formidabile tranello che mi consente di fingere di parlare di altro”.
Fever Pitch di Hornby è un ottimo modello a riguardo. Anche Pindaro e Leopardi videro nello sport e nelle palle rotolanti i segni di una società modello per l’uno, da sgretolare per l’altro. Per il nostro Kaiser la partita si gioca sul filo della fiction, del racconto, della narrazione di un mito moderno che pare concordato tra le forze sociali (procuratori, allenatori, squadre, pubblicità, giornalisti) ma che effettivamente è poco più che una falsa copia di un ideale.
Questa macchina del desiderio serve al pubblico, ai sognatori indefessi della squadra del cuore, agli scommettitori, al più a tutto quell’indotto plaudente che vive lavora nel non-luogo dello stadio in quella perpetua illusione che lo sportivo sia ancora il semi-dio, l’eroe pindarico che innesca il sogno collettivo. Peccato che questo sogno faccia acqua da tutte le parti: donne, malavita, malaffare sono gli ingredienti di questa ricetta mediatica. Un american dream giocato al rovescio, dove più ci arrabatta per il successo, più si scende negli abissi della propria inettitudine, fino a toccare i gangli vitali della costruzione del Kaiser show.
C’è un grande ma. Il disvelatore del teatrino è un giornalista, ed è a lui e alle sue abilità costruttive se questo mito prende corpo, si abbassa a parodia, si interseca con la vita, anche con la sua, di Dosto: “Quello è Kaiser, quello sono io e miei arrovellamenti” ; ne esce un quadro forse stereotipato del calciatore brasiliano, di origini povere, non molto dotato che tuttavia è riuscito ad imporsi furbescamente come prodotto vincente:
“ Loro vedevano una palla da calcio, e dietro c’era un sogno. Io vedevo una palla da calcio e dietro c’era una macchina, una donna, un divano in pelle, un portafogli pieno. Giornalista, insegnami una parola nuova. Utilitarista. Ecco, ecco, questa è difficile davvero. Credimi, non sono mai stato un romantico del calcio. Per me si trattava di fargli la corte come farei con una donna. Ingannarlo? Diciamo ingannarlo. Ho preso quel che ho potuto e dato quel che potuto, che non era molto”

Un’immagine del calciatore Kaiser Henrique Riposo a cui è ispirato il romanzo
Dosto, il nomignolo appioppato dai colleghi, nota forse stonata, un omaggio (oltraggioso o superironico?) al grande scrittore russo, – Fëdor rimaneggiava materiali giornalistici, la similitudine più banale che mi viene in mente- è di fatto un giornalista che cerca di risalire la china e di fare lo scoop della vita. Insicuro e indolente, cerca sempre di dire meno di quello che vorrebbe ma che una certa goffaggine intrinseca gli fa infine rivelare.Detesta François, il collega francese che gli fornisce il materiale grezzo sulla vita del Kaiser, a malapena accetta le proprie performances scrittorie, collocate strategicamente nella comfort zone della cronaca sportiva, ma con le sue stoccate di penna apre di fatto una breccia, raccontandoci il tipico psicodramma di chi ha il fuoco della scrittura nelle vene ma per un motivo o per un altro finisce per essere Bartleby.
Da questo nodo di intrecci e piani di realtà : gli appunti di François, l’autonarrazione ridanciana di Kaiser, con il suo linguaggio “appiattito e standardizzato”, la riscrittura del giornalista Dosto viene fuori un impiastro di verità relative e eteronome. A ciascuno la propria, di potrebbe chiosare pirandellianamente. :
“Questa è la storia di Kaiser ma è anche un po’ una MIA storia, una confessione o forse un arrovellamento, perché ho parlato di Sportswrighter, di Nothingwriter, di Nothingwriter ma ho dimenticato di dire Egowriter. Per il compiacimento, per il parlarsi addosso. […] ed è vero che c’è Kaiser, ma è chiara la difficoltà di lasciargli proprio tutta la scena.”
Ma qualcuno si ostina a cercare una verità. Patrone dà il tocco di giallo, giusto una pennellata: Kaiser l’attore, la falsa promessa, il mito costruito ha in serbo uno scandalo, una storia di violenza nei confronti di una donna. Come in ogni biografia di rock star calcistica la vittima sacrificale distoglie la storia dal suo binario biografico e la conduce al centro della miseria umana. Non si saprà mai se lo sportivo è turpe e macchiato del crimine; in fondo, sembra ripetersi in un mantra pungente Dosto il giornalista, tutto fa show, la verità è multipla:
Si potrebbe diagnosticare a Kaiser un disturbo narcisistico della personalità; ma il problema è che parrebbe che non si sia inventato niente. O meglio, ha inventato se stesso come Kaiser, e tutti (o quasi, io cerco di resistere) gli hanno creduto.
Una scrittura ad incastro, che risulta interessante e ben orchestrata nel complesso, permette a Patrone di muoversi liberamente tra frammenti di verità, mondi disconnessi che si trovano a dialogare, possibilità e probabilità di esistenze multiple all’interno di uno stesso campo di forze . La partita in campo non ha ruoli né regole, tutto si muove sul crinale della verosimiglianza e dell’artificiosità, storia e storiografia di maschere giocanti la partita della vita. Da questa incertezza morbida, “trasforma la cronaca in sociologia e sei un giornalista finito”, che non delibera né tantomeno discetta di cause ed effetti, di scelte etiche e weltanshauung, deriva una interessante prosa mista, che si muove tra piani paralleli, ora intersecanti.
Questa, una soluzione che diluisce la noia delle digressioni calcistiche e cattura l’attenzione verso i dettagli, le sfumature di pensiero, le minuziose analisi del sé, a tratti parossistiche, che le voci narranti intrattengono con se stesse.

Marco Patrone
Al netto delle comparazioni, questa ultima fatica letteraria sembra fluire più rapidamente del precedente romanzo (Come in una ballata di Tom Petty). Lì una maggiore immediatezza e un ritmo pop e giovanilistico, qui uno scorcio sulle postverità mediatiche e non e in filigrana una riflessione meta letteraria sul ruolo dello scrittore professionista .
Dove guadagna in struttura e maturità architettonica, perde in freschezza e vitalità. A dispetto del primo è comunque un lavoro nel complesso più muscolare nello stile , con un periodare più fluido e senza interrogazioni retoriche, pochi ma ben definiti personaggi. Il nostro giornalista è, alla tirata dei conti, il figlio o il fratello maggiore dell’uomo di “Tom Petty”. Ma probabilmente questa è la sintesi e i lavori di uno scrittore non andrebbero mai soppesati nella bilancia del migliore e del peggiore. È un lavoro che certamente si accoda ad un filone “pseudo calcistico” che accomuna scrittori come Luca Pisapia con il suo Uccidi Paul Breitner , romanzo incentrato sulle implicazioni politiche del calcio edito da Alegre e Dalla parte del bene di Martin Fahrner edito da Keller, interessante inrteccio di storia e vissuto personale ai tempi della Primavera di Praga.
Non chioso mai con “questo libro è consigliato”, ma per diverse ragioni, spero sufficientemente illustrate, farò un’eccezione. Anche per i non amanti del calcio, aggiungo. Resistete alla tentazione di bucare il pallone.