Leggendo questo romanzo strutturato in quadri, fotogrammi di vita, mi è balenato in mente un oggetto che tutti possediamo: un album di fotografia del passato, di quelli che ricevono la polvere durante gli anni e che ogni tanto vengono sfogliati con rammarico, malinconia, nostalgia. Per vedere le immagini, devi rimuovere la polvere.
Rimuovere la polvere è un gesto che ritorna come un filo conduttore in questo romanzo a incastro, che ti conduce a interrogarti sul senso di questa azione. Mi vine in mente Chiedi alla polvere di John Fante, e anche io, leggendo, ho chiesto alla polvere cosa volesse dirmi. Forse la polvere non ha risposte ma ha il potere di innescare domande sul tempo, sul passato, sulle cose che passano e lasciano un segno indelebile. In questo modo si comporta la polvere del resto, è residuo quando si smette di vivere, è nuvola quando c’è un’immensa esplosione.
La polvere di Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri ( Edizioni Spartaco 2019) di Daniele Germani si muove tra questi due estremi: fugacità e permanenza. In mezzo, quell’accadimento che si chiama vita e che coinvolge un Pazzo, una donna stremata dalla vita e un uomo che vaga alla ricerca del senso. La pazzia, quella cosa che Foucault ha compreso essere un affare ben più complesso della deviazione dalla norma, è trattata con rispetto, con lucidità, ci ricorda che disciplinare la follia è rischioso.
Il Pazzo conduce il lettore in un tour orrifico, spalanca la porta dell’istituto psichiatrico, espone senza filtri le scene di tortura dei malati prima della legge Basaglia, gettati nella stanza fredda, tra gli escrementi, abbandonati nelle periferie dell’esistenza. I pazzi sono fuori, recitava la scritta di un quadro di Bruno Caruso, amato artista siciliano, lo stesso pensiero del Pazzo che spesso ripete come un ritornello : “Chi sono i pazzi?”
La polvere del Pazzo, la polvere della donna e le povere dell’uomo sono il deposito di un’esistenza che vive sulla soglia: il Pazzo costruisce bombe per fare giustizia nel mondo, per detonare le follie dei normali. Entra in campo un’altra pazzia, forse più corrosiva e ambigua, quella dei presunti sani. Lui sa com’è la vita prima di prima di essere “pazzo”. Ci sputa in faccia la verità, senza fronzoli:
“Sono finito in Istituto per un motivo particolare. Io sono frocio, omosessuale, pervertito, chiamatemi come vi fa comodo, come vi viene meglio, come vi fa sentire meglio”
In questa storia si legge il dramma di una società che ha stigmatizzato, ostracizzato e ancora prima catalogato l’omosessualità come devianza da punire. Si sente un’ eco pasoliniana, e più recentemente tondelliana, attraverso cui egli ci conduce alla radice di questa impasse storica, sociale, antropologica. Ed è qui la storia di un’Italia retriva, e fortemente ancorata alle certezze piccolo borghesi.
“La società non aveva spazio per quelli come me. Per noi non c’erano più treni diretti ai campi di concentramento, ma auto della polizia che ci portavano dritti dritti ai trattamenti sanitari obbligatori […] grazie a questi trattamenti ci hanno spiegato che eravamo malati e che dovevamo essere curati e per un po’ ci abbiamo anche creduto e, in cuor nostro, abbiamo accettato che saremmo potuti guarire: «Tornerete a esser normali» ci dicevano.”
Poi c’è Lei, la donna, fragile, inconsistente come quei pulviscoli leggeri che si trovano negli oggetti di casa perché non hai avuto proprio il tempo per spolverare, perché il tempo fugge e ti divora, senza che tu te ne sia resa quasi conto. Lei ha una dalla vita “ordinata” ha vissuto come si deve vivere, in quella medietà rassicurante che ci fa dimenticare l’essenza. Come nel racconto di Joyce – Clay- tradotto in Italia con Polvere, questa donna fa i conti con la sua esistenza: tre figli, uno arrivato per sbaglio dopo una notte ubriaca, il lavoro, la fatica, la routine, i pacchi pesanti della spesa e all’improvviso una granello di polvere alzato dal vento che le entra nella testa e scava, scava:
“Cercò di ricordare quando era stata davvero felice per l’ultima volta. La nascita dei suoi figli? Sì, ma. […] il mondo si evolveva, lei restava ferma , immobile, fedele al suo personaggio così distante dq quello che immaginava che Satie scrivesse musiche per i giorni di pioggia. Era come il canarino che suo marito aveva comprato a uno dei suoi figli: le faceva pena vederlo in gabbia , per cui un giorno che era sola in casa gli aveva aperto la porticina e lo aveva liberato.”
La sua soglia è quella dell’incompiutezza, del richiamo assordante di una vita non vissuta pienamente, di quella nota di Satie mai suonata e dei sogni che spesso vengono sepolti sotto la polvere del dover essere, delle formule costruite dagli altri. La nota stonata è la sua rovina e la sua salvezza: cercare l’accordo sul piano per cercare l’accordo col passato.
Poi c’è Lui, l’uomo qualunque che si risveglia grazie a un soffio di vento da un torpore che è durato tanto, troppo tempo. I figli, il caffelatte al mattino, la moglie che sembra una sconosciuta. Ingarbugliato tra le maglie della quotidianità, questo uomo è un nuovo pirandelliano che sta facendo i conti con la forma, sempre quella, che blocca e congela. La sua soglia è nel cortocircuito tra due mondi in contiguità, quello della normalità asfissiante e quello della vera vita che palpita, da qualche parte, tra le onde del mare mai visto:
“Come faccio a eliminare la polvere e i brutti pensieri”? […] Si guardò allo specchio e si sorrise compiaciuto. Era stempiato e la giacca di panno gli cadeva sulle spalle come su quei manichini del grande magazzino. […] Aveva quarant’anni e non era mai stato al mare […] perché ho fatto, perché non ho mai viaggiato fino a una spiaggia qualsiasi? E com’è fatta una cazzo di spiaggia? Di cosa odora? Ci saranno sassi o solo sabbia? Com’è la sabbia? E silicio, sì, lo conosco alla perfezione. Dopo l’ossigeno, è per abbondanza l’elemento più presente del pianeta […]”

Bruno Caruso- Punizione-
Un romanzo scritto con uno stile maturo e consapevole, costruito con dei quadri autonomi che si incastrano perfettamente in sfalsamenti temporali, anticipazioni, riprese. Un tentativo ben riuscito di trattare la malattia mentale allargando il campo di azione e di osservazione che non è più solo quello del malato oggetto o del malato soggetto che si racconta – di quello la letteratura del Novecento è stata maestra – ma nella relazione tra questi e la società, le famiglie, gli affetti. Il puzzle è più ampio e articolato: si invocano le responsabilità di chi “non ha capito”, di chi non ha agito in coscienza, di chi ha ignorato.
Il grande tema della guarigione diviene così occasione di una riflessione sulle cure e sulle metodologie terapeutiche, spesso violente e invasive, e soprattutto su quel crinale che la scienza più avanzata non riuscirà mai del tutto a decifrare tra la consapevolezza di essere “malati” e l’inadeguatezza a comunicare il proprio malessere. Una scrittura che si spinge sulle soglie: la malattia dell’anima, spesso si annida nella presunta normalità, nelle vite che scorrono lente, nei bei progetti di vita.
Ed è pure un bel romanzo di odori e profumi, quello delle mandorle amare, che nei gialli preludeva all’assassinio, quello del gelsomino, associato alla perdita, al dissolvimento, e quelle polveri di vario ordine che accompagnano i gesti del nostro esistere e che sono brutti pensieri, ma forse necessari. Un libro da leggere, da cui farsi toccare.