“Ho trecce indocili d’aglio”. La poesia di Margherita Ingoglia

Di Gabriella Venera Grasso

 

Un tessuto poetico che è contrappunto tra norma ed eresia, appartenenza e libertà eslege, ‘abiti buoni’ in un imbroglio di corpo’: è questa la trama attraverso la quale si snoda la scrittura di Margherita Ingoglia, autrice pluripremiata all’Etnabook 2022. Strega vestita di “un nero profondo che è luce”, alla perenne, inquieta ricerca di un codice che possa essere ponte con l’altro, ma senza quei compromessi che portano inevitabilmente a “mentire di sguardo e parola”, false soluzioni che lei aborrisce.
Nella scrittura di Ingoglia, il gioco delle antinomie è veicolato da un lessico mai piatto, spiazzante (“sono azzima”, “sono candeggiata”) e punteggiato spesso da allitterazioni che rimandano a scioglilingua, al gioco divertito e apparentemente anarchico, quasi in fertile lotta con il linguaggio e con la vita.
Gabriella Grasso

Alcuni testi di Margherita Ingoglia

Non so trovare un dio.
Le chiese sono vuote.
Il cielo è freddo,
il lampione stanco, balbetta.
La strada è caduta nell’incantesimo.
Ho la febbre,
la fede malata.
Un’amara stanchezza di gioia.
*
Per la cena di famiglia mi vesto con gli abiti buoni:
organdi vermiglio con strascico;
integerrimo nero a righello;
blu scorrevole in omaggio alle Muse
o gladiolo di cielo filato.
Ho la scelta dell’imbarazzo,
l’eleganza di etichetta e sbiadisco al solo pensiero.
Mi addobbo per manifesta apparenza,
l’appartenenza al ramo di ruoli.
Arruolata all’interpretazione del nome
sono candeggiata come l’ultima liturgica star
nel salmo della Messa in quaresima:
l’ultima o una qualunque.
Sono azzima.
Sono l’apparizione fulminea e frugale di tirlindana.

Una santacecilia in esca d’esibizione.
Un latte grasso di capra munta,
rinverginita. Chiodata alla specie del cognome tramandato.
La passerella mi increspa come la carta
per i fantocci di carnevale.
Ciarlo
con i cenci dei ceci accoccati dai ceti
per apparire leziosa
e mi incarto
in un’ impronunciazione d’annodamento verbale.
Nera come i fondali dei mari,
sono un querulo questuo.
Vorrei astrarmi. Mi sformo e deformo, per apparire diversa.
Ma finita la fiera del turpiloquio torno al covile,
al gramaglio di nervi agganciati alla gruccia.
Mi rimetto il mio imbroglio di corpo
e nella mia giara di carne pastello,
tra le rovine,
mi rifaccio medusa.
Ora sono me stessa.
*

Grazia, aggraziata, graziosa
non sono mai stata,
di grazia!
Mi manca l’abbiccì delle buone maniere.
Porto nel ventre un animale superbo.
Sono stata intagliata
con fine scalpello
nella corteccia dell'albero scemo,
e nel ventre nutro clemenza
in spine di rosa.
Ho la pelle secca delle vedove illacrimate.
Potrei diventare pia
forse,
o come il XII che non si oppose al massacro
e appoggiò la Shoah, venerata.
E fu papa.
Ma non ambisco a tanto clamore di Storia,
temo possa io fare la fine di Zoilo, San Valentino o  Stuarda Maria la regnante,
con la testa che rotola nel piatto dei cani.
Povere bestie!
Mi piacerebbe piuttosto scoprire
come avviene il passaggio al simpatico,
la conversione alla avvenenza.
All’addomesticamento.
Quella maestria di ridente scioltezza che a me ha sempre atterrito.
Chi lo sa, me lo insegni.

È un cambio di stoffe? un doppio lavaggio e centrifuga?
un passaparola all’essenza di gioia?
Come accade la malìa
per essere sempre gaudenti e accoglienti?
Sono cresciuta avvezza alle mal educate cose di niente,
pestando madonnari nel porto
camminando in parsimonia di giudizi precoci,
con vesti poco curate e capelli in disordine di spartiti.
Ho negli orecchi suoni zigani,
zingari per essere precisi. Il temine non sia offesa,
per me che mi chiamano negra e finocchia
è vezzeggiativo espansivo.
Mentire di sguardo e parola,
mi ferisce più che cadere sui sassi.
Indosso un nero profondo che è luce,
i tacchi li indosso per colpire le noci più dure.
Sono come Locusta: bestiale, e avveleno.
Ho affinità con le aspidi,
mi difendo con gli artigli.
Delle madri passate ho ereditato le stelle ingiuriose,
delle condanne ho il segno dei denti sulle caviglie.
Non ho mai imparato a giocare.
Forse sono corrotta di senno e di vene.
Parlo ai defunti per lasciarmi insegnare a fuggire
dalle parole melliflue che non so pronunciare
senza provare scontento:
un arrotolamento di intestino a coccarda.
Custodisco nelle teche, in dono di donne,
quella brezza sinistra e traversa
che orna la sopravvivenza,
diserta le trappole
e declina gli inviti alle cene con commensali sgraditi.
Ho trecce indocili d’aglio.
Sono nata nel mese delle orchidee
nella notte della luna nuova: dicono sinistra.
Partorita di scarto
nel doppio can can della sorte.
Ho lasciato il tetto per andare coi lupi, nel bosco.
Mi tengo la maleducazione dei secoli,
questi capelli di raffa, le gonne sotto i talloni
e la malagrazia delle femmine folli.
Voi che potete e ne siete capaci, siate gentili.
Con me, siate chi siete.