Ci sono due fatti, uno dei quali sovrasta per sproporzione e importanza l’altro. Ma per un caso di debolezza tutta umana, il primo ha assunto una visibilità e un’importanza preponderante.
Il primo fatto ha generato ed è stato sorretto dalla retorica dell’autocompiacimento ed è sfociato nell’ebbrezza collettiva dello slogan “Palermo capitale della cultura”. È evidente la sostanza politica di questo slogan, nel senso che i discorsi si producono sempre dentro una rete di significati e semantiche condivise e questo messaggio prende corpo proprio nel discorso della polis, ma, beninteso, una polis immaginaria, e immaginifica, cioè quella di un presunto passato glorioso (Palermo fenicia-arabo-normanna e via discorrendo) e di una modernità popolata dal mito dell’autonomia borbonica e quindi sostanzialmente nostalgica e passatista. Sono questi fondamentalmente i discorsi che sorreggono la beatitudine della città premiata. Niente di male, per carità. Ci si può lecitamente rifugiare in un’immagine, in una proiezione umbratile della realtà, in un racconto fantastico popolato da monumenti meravigliosi, tempi di convivenze e passati fulgidi, di una belle epoque in bianco e nero. Così lo slogan non ci sembra tanto lontano e immeritato, anzi ci sembra proprio dovuto e bisogna festeggiare.
Poi c’è il secondo fatto: c’è l’homo sacer. Chi è l’homo sacer?
Giorgio Agamben ne ha circoscritto in maniera molto puntuale il senso: nell’antichità l’homo sacer era un individuo che viveva in una terra di mezzo, escluso sia dal diritto umano sia dal diritto divino. Poteva essere ucciso e chi lo uccideva non poteva essere condannato a morte. Da qui un’ambiguità semantica che ha fatto della parola “sacro” un termine labile e doppio. L’ “uomo sacro” ha vestito le figure del bandito dalla comunità, del diverso, dello straniero, di chi vive per strada diremmo oggi, di un senzatetto. L’uomo sacro non è tale nel senso della sacralità religiosa con la quale si usa di norma il termine, ma è sacro in quanto di lui tutto si può fare e disporre, è un corpo, una “nuda vita” che vive ai margini della città, delle istituzioni e della socialità. Lo si può deridere, violentare, uccidere. Lo si può anche bruciare, sì, bruciare come si fa con un clochard che si ripara dal freddo sotto le coperte di una città fino ad allora tutto sommato tollerante e accogliente. Si puo’ prendere un po’ di benzina e cospargerlo interamente, poi appiccare una fiamma e fuggire come un verme. E questo puo’ avvenire a Palermo in una tranquilla serata di Marzo. La nuda vita è stata eliminata, e si ritorna alle solite attività quotidiane. Poi il discorso diviene mediatico, una fiaccolata e tutti si ritorna alle proprie attività. Questa uccisione non ci riguarda, non la vogliamo guardare in faccia per ciò che ci dimostra palesemente: che siamo incapaci di immergerci nel nostro sottosuolo, che ci riguarda esattamente nella stessa misura in cui ci riguarda lo slogan della Palermo felix che siamo pronti a condividere e fare diventare fenomeno virale. Vogliamo vedere solo il bello e il buono e il piccolo olocausto non ci riguarda, non farà certo parte della nostra storia gloriosa. Non è tanto un sacrificio, questo, è solo carne bruciata.