Ciao Francesco, partiamo da te e dai tuoi studi: l’idealismo, Croce, de Ruggiero, Antoni, Calogero e Capitini. Come si può confrontare oggi, un pensiero “essenzialista”, che usa un bagaglio concettuale e linguistico che ruota attorno a “idea” “spirito”, “assoluto” con un mondo figlio del decostruzionismo, del palcoscenico virtuale e dell’immagine satura e dittatoriale che ci serve per affrontare la paura dell’assenza, per dirla con Baudrillard?
A differenza di alcuni studiosi credo sia possibile azzardare un confronto. Dirò di più. Trovo un fil rouge che tende ad accostare due visioni del mondo opposte: l’idealismo del secolo scorso e i tempi strani di oggi. Non mi riferisco all’intera e variegata famiglia del neoidealismo italiano, ma soltanto allo storicismo immanentistico di Croce. Forse sarò il solo a pensarlo, eppure sono dell’avviso che la sua accanita celebrazione della storia, e in particolare l’idea che tutto sia rinchiuso nell’universo del qui, abbia provocato gravi effetti, molti dei quali si svelano dinanzi ai nostri occhi. Non voglio addossare stupide colpe alla nobile figura di Croce e non mi importa ripetere in proposito frasi da avvocato difensore o da sostituto procuratore; tuttavia, il suo registro speculativo non è immune da un vizio sempre più nitido, che dovrebbe a dir poco preoccupare quei pochi «pazzi» che ancora balbettano la dimensione spirituale dell’uomo.
Quale vizio?
Il vizietto, appunto, dello storicismo assoluto. Molti mi accusano di essere un utopico, un sognatore e avversario della realtà. Per fortuna posso rifugiarmi in uomini di pensiero e indirizzi di studio che hanno saputo attribuire una sobria importanza alla realtà. Voglio essere più preciso. Quando pensiamo al de Ruggiero maturo – di cui ricordo la seconda edizione de Il ritorno alla ragione, a cura mia e di Francesco Mancuso (Rubbettino 2018)−, o al neogiusnaturalismo di Antoni, alla filosofia personalistica di Calogero, o ancora all’approccio religioso di Capitini, si può osservare una suggestiva tensione tra la storia e l’eterno. Con un occhio, infatti, questi filosofi penetravano nella dura realtà, ma con l’altro non perdevano di vista il vocabolario del Sollen, il profilo dell’essenza, il ‘tu devi’. Questa calda frattura tra il qui e l’altrove non è accettabile da chi, come Croce, non mette in discussione i pilastri dell’hegelismo. Non resta che riconoscere istituzionalmente quell’evento che permette un incontro (senza residui) tra fatti e valori. In questo itinerario, il valore cammina gravemente in simbiosi con ciò che chiamo la «prima vita», il «primo orizzonte», il «primo senso» consumato nello spettacolo variopinto del divenire. Croce insomma ha trovato la verità, ed è il continuo accadimento di una storia gettata.
Trovi quindi un sottile legame tra il suo storicismo assoluto, maturato tra otto-novecento, e ciò che si propone in questa epoca?
Vorrei provare un ragionamento. Croce crede in dio. Solo che il suo dio non ha il volto di Gesù e neppure quello del tu o della comparsa scoperta a frugare nell’immondizia; ma assume le sembianze del divenire. Il dio di Croce rischia di annullarsi in una storia che non può essere frenata e neppure accarezzata dallo sguardo dell’incontrovertibile, da un autentico Assoluto che, in quanto tale, dovrebbe mantenere un briciolo di trascendenza al fine di non annegare nel Gott ist tot. Ecco perché vedo una piccolissima familiarità con il nichilismo di Nietzsche o con la peculiare ontologia di Heidegger. In entrambe le direzioni, infatti, si chiudono i ponti con l’immensamente altro e si premiano le sirene del nulla. Se lo storicismo crociano giocava in maniera controversa con l’essenza delle quattro categorie e dunque riconosceva, perlomeno sul piano formale, il valore dell’imperituro – le dimensioni dell’arte, della logica, dell’utile e della morale −, adesso è venuto meno anche questo limite. L’immanentismo crociano si traduce in una giostra cinica dove la scimmia di Nietzsche recita il Sì deresponsabilizzante in una «ruota ruotante da sola»; l’eternità spirituale del divenire viene presa in ostaggio dall’«ultimo uomo» che violenta le radici di dio. Il processo è inarrestabile. Così si giunge al virtuale che disorienta sia il reale sia il sovrasensibile. Vi è infatti una distanza siderale tra il cielo platonico dell’Iperuranio e i meccanismi perversi che attualmente abitano «un mondo dietro il mondo». Fin quando si rimane nello scenario della «prima vita», tutto vale il contrario di tutto. La nostra epoca è segnata da una involontaria alleanza tra gli ultimi epigoni di un puro storicismo e i raffinati intellettuali del nichilismo, il cui prodotto è la notte.
Continuando con il tema delle immagini e del loro rapporto con la parola; mi sembra che questo sia il banco di prova su cui si confrontano oggi le discipline umanistiche, il pensiero scientifico e filosofico. Nonostante il proliferare incontrastato di immagini, mi sembra che vi siano ancora delle zone inesplorate che ancora richiedano una analisi e una risposta forse psicologica prima che ancora filosofica. Ti cito tre immagini molto iconiche e rappresentative dei nostri tempi: 1) la celebre foto dell’“hooded man”, 2) l’uomo avvolto nelle fasce dopo la tragica vicenda dell’11 Settembre; 3) la salma del bambino siriano abbandonata sulla spiaggia, dopo l’esodo della popolazionein fuga dalla guerra. Credi che queste immagini ci espongano al disagio di non saper affrontare l’orrore o che vi sia la necessità di affrontare le conseguenze etiche prima che emotive delle immagini con cui ci relazioniamo? Manca, forse, una grammatica e una sintassi per dare un senso a tutto ciò? Continua a leggere