ROBERT ROZHDESTVENSKIJ: IL POETA INNAMORATO

 

 

di Francesco Cocorullo

 

Un ritratto del poeta durante il festival di poesia dedicato a Puskin

Tra i principali poeti e cantanti russi degli anni ’50 e ’60, Robert Ivanovic Rozhdèstvenskij nacque a Kosikha, in Siberia il 20 giugno 1932; il suo vero cognome era Petkevic, suo padre Stanislav era un impiegato polacco dell’Intelligence sovietica mentre la madre Vera Fedorova era direttrice di una scuola elementare. I genitori divorziarono quando il piccolo Robert aveva solo cinque anni.

 

Alla morte del papà nel 1945, avvenuta al fronte in Lettonia, la madre sposò l’ufficiale Ivan Rozhdestvenskij, e il giovane poeta cambiò patronimico e cognome proprio in seguito alle seconde nozze della mamma.

Nel 1950 provò ad entrare all’Istituto letterario Maksim Gor’kij di Mosca ma non fu ammesso: provò nuovamente l’anno successivo riuscendo ad accedervi. Durante il percorso di studi pubblicò alcune raccolte poetiche e soprattutto il poema “Amore mio” (1956). Nel 1955 conobbe lo studente del conservatorio Alexander Flyarkovskij, col quale scrisse la sua prima canzone “La tua finestra”.

Ma l’incontro che cambiò la sua vita avvenne nel 1956 quando incontrò la compagna di classe Alla Borisovna Kireeva: se ne innamorò quasi subito e iniziò una lunga storia sfociata poi nel matrimonio. Fu l’unica donna della sua vita: l’amore
tra Robert e Alla durò 41 anni, fino alla morte del poeta.

Rozhdestvenskij vinse in carriera numerosi riconoscimenti per la sua attività di poeta e cantante tra cui due premi Komsomol (1970-72) e un premio di
Stato dell’Unione Sovietica (1979). Centro di molte sue poesie, il grande amore verso la moglie Alla che gli diede due figlie, Ekaterina e Ksenia.

All’inizio degli anni ’90, a Rozhdestvenskij è stato diagnosticato un tumore al cervello: nonostante le cure, un infarto lo colse il 19 agosto 1994 ponendo fine alla sua esistenza. Fu sepolto nel cimitero di Peredelkino, presso Mosca. Alla moglie disse poco prima di spirare: “per favore, qualunque cosa accada, vivi, vivi sempre
felicemente”.

Alcune mie traduzioni di sue poesie:

Grazie, vita, per il giorno che di nuovo giunge
Per il grano che sta maturando, ed i bimbi che stanno crescendo.
Grazie a te, vita, per tutti i miei cari
che vivono in questo enorme mondo.
Grazie, vita, per questa generosa epoca
In me risuonava sia con grandezza sia con dolore;
per la larghezza delle tue vie, nelle quali l’uomo,
ogni cosa sperimentando, ritrova sé stesso.
Per il fatto che tu sia un fiume senza sponde,
per ogni tua primavera ed ogni tuo inverno,
per tutti gli amici e perfino per i nemici,
grazie, vita. Grazie di tutto!
Per le lacrime, ma in realtà per la felicità,
per il fatto che tu non mi abbia mai compatito,
per ogni istante in cui vivo,
ma non per quello in cui di vivere terminerò.
Grazie, vita, io sono in debito con te,
per la forza che avevo ieri e che avrò domani,

Per tutto ciò di cui ho ancora il tempo e riuscirò a fare
grazie vita, davvero grazie.
***

Ad Aljona*

Io e te ci apparteniamo, ci apparteniamo
In un giorno che per sempre ricorderemo.
Come le parole appartengono alle labbra.
Con la gola secca – l’acqua.
Ci apparteniamo, come gli uccelli al cielo.
Come la terra con la tanto attesa neve
Appartiene all’inizio dell’inverno,
Così io appartengo a te.
Noi ci apparteniamo, senza nulla sapere
Del bene o del male.
Ed in eterno è appartenuto a noi
Quel periodo sul calendario.
*diminutivo di Alla, la moglie
***
Sai,
vorrei che ogni parola
di questa mattutina poesia
d’improvviso passi tra le tue mani,
come
un malinconico ramo di lilla.
Sai,
vorrei che ogni riga
all’improvviso divenuta fuori misura
e l’intera strofa,
frantumata in pezzi,
riesca a far breccia nel tuo cuore.
Sai,
vorrei che ogni lettera
ti guardasse con amore.
E che sia piena di sole
Come se fosse
Una goccia di rugiada su una palma d’acero.
Sai,
vorrei che una tempesta di neve di febbraio
ai tuoi piedi si distenda docile.
E vorrei
che ci amassimo l’un l’altro
per tutto il tempo

che ci resta da vivere.
***
Discorso origliato
-Ti sei azzuffata di nuovo nel cortile?
-Si, mamma, ma non ho pianto
Crescerò –
Imparerò a fare la marinaia
Sono già in bagno
Ho nuotato!
-Oddio! Non sei una bimba, sei un disastro!
Non ho più forze.
-Mamma, quando crescerò?
-Crescerai! Per ora mangia una polpetta
-Mamma, compriamo un cavallo?
-Un cavallo?? Cosa sta accadendo?
-Mamma, mi prenderanno a fare la pilota?
-Ti prenderanno. Dove vuoi che vadano?
Diavoletta, tu puoi tirare fuori l’anima da ognuno!
-Mamma, ma è vero che verrà la guerra e non potrò più crescere?

Visioni e locuzioni lungo il filo del tempo. “Il canto della Moabita” di Sergio Daniele Donati

 

di Gabriella Grasso

 

 

Se in principio era la Parola, questa era sicuramente in forma di poesia. E’ quello che ho pensato addentrandomi nella lettura de “Il canto della Moabita” di Sergio Daniele Donati (Ensemble, 2021), intenso dedalo di visioni, predizioni, locuzioni interiori, che il poeta rivolge alla figura biblica della Moabita (esempio di tenerezza, di fedeltà e amore incondizionato, capace di scelte coraggiose), a se stesso e al figlio, più volte nominato e destinatario di benedizioni. Come un flusso o un vortice, il percorso della parola si snoda  in una dimensione atemporale, non semplicemente onirica quanto, direi, filogenetica, che, scavalcando l’esperienza del singolo, assume quasi la forma di un dettato proveniente da un Oltre: “Senza fine, senza inizio / ho sognato il grande sogno / e la Moabita e il cedro / e il canto e le radici / e il mio occhio nero / erano la stessa cosa”.

Quello che circola tra queste presenze e per tutta l’opera è un sapere che si tramanda e rinnova in una catena d’amore (Dio Padre, i Padri, l’autore nella sua veste di padre, il figlio) e che si traduce, paradossalmente,  nella consapevolezza, da parte del poeta, della propria afonia, dell’essere recipiente di silenzio e di risonanze:

“ Se torno / le lettere migrano, altrove. / Nel cardo restano spine, /non più piume di ricordo /né promesse d’ascolto. /Resto là; /la parola afona, /e il sangue schiavo del silenzio”.

La risonanza, espediente testuale e, non a caso, anche pratica di meditazione, costituisce l’ordito di tutto il tessuto formale e sonoro dell’opera. L’elemento ridondante, il ritorno ciclico di parole, stilemi e concetti sono pratiche che attengono tanto al campo del salmodiare biblico quanto a quello delle narrazioni ataviche e dell’oralità primigenia, all’origine di ogni sapere e di ogni tradizione.

L’idea-immagine si palesa, poi scompare, poi ritorna nelle innumerevoli occorrenze e variazioni di significanti che rappresentano una porta appena schiusa verso significati intravisti, mai del tutto posseduti, ineffabili.

Innanzitutto, gli elementi della natura: il vento e ciò che attiene al suo campo semantico, per fornire solo qualche esempio (nuvole, pulviscolo, soffio), col suo richiamo biblico all’alito vitale e alla brezza che è presenza divina e forza creatrice:

“Esiste un vento, / un aliseo divino, / che rende brace / l’ossidiana delle mie pupille, / quando mi guardi (e io ti guardo) / e il tempo si ferma. / Mi copro pudico, / i volti, / allora, /e si dispiega alto / il nostro canto vitale”. Poi il cielo e i suoi corpi, il gioco del buio e della luce, il nulla fecondo che genera il creato; e ancora la notte, quasi palinsesto di antiche verità:  “Restano tracce, / nelle notti di luna calante, /d’un passaggio sacro, /cieco e di sogno / tra le grida e le nebbie / della tua profezia”.  E a seguire le lacrime, il pianto, il tentativo prezioso e fallimentare di dare una forma compiuta alle intuizioni del profondo: “ tramutando in strozzi parole antiche”,  “E la lacrima bruna / del mio passato palustre / cade nel secchio, / guardia d’un abisso fertile”. Infine il mito, archetipo di un eterno ritorno: “Immergiamo nel mito, / dita bambine”, consapevoli che “s’appoggia sul mito / ogni dolore”.

D’altro canto, il poeta ammette la possibilità di una forma di conoscenza e di espressione, attraverso il canto e il sogno, ponte tra il passato e varco verso il futuro.

“Le nuvole in cielo sognano. Io canto il canto del futuro dal passato. Sia questo il tuo sogno”), che può tradursi in possibilità di un valido pronunciamento: “Fiori azzurri e frutti rossi / nella tua mano / e non c’è giustizia /nel “bianco o nero” / che sia la giustizia il tuo sogno / figlio mio”.

 

 

 

La parola resta la protagonista, nonostante tutto, di questo ipnotico, salmodiante lavoro: è afona, strozzata, impotente, si sgretola, si nega perché si nasconde nell’alcova di ciò che precede l’umano:

“(se) ci sedessimo su quella pietra, / ad ascoltare il canto, / che lento si fa strada, / sulla via della nostra fine, / se ci specchiassimo nei volti dei poeti / prima di rubare i loro lemmi, / e tentare voli di tacchino, / tramutando in strozzi parole antiche, /se guardassimo quelle pieghe della pelle, / dove tutto è scritto, / prima della parola, / prima dell’incontro e dell’incaglio, / prima della seduzione”. E tuttavia sa trovare il suo vigore originario, rivelandosi urlo: “La vita è un chiasmo. / La mia. /E nel punto di intersezione, /l’urlo mio di bimbo /sparito, spaurito”.  Resta comunque la parola di chi è dolorosamente consapevole dei propri limiti, l’inciampo (termine non casuale, in un testo così impregnato di suggestioni della cultura ebraica) di chi si riconosce balbuziente e imperfetto, perché “di cos’altro vuoi parlare, / poeta, / che non sia il tuo inciampo?”

 

Alcuni testi

 

Teshuvah (il ritorno)

Se torno

le lettere migrano, altrove.

Nel cardo restano spine,

non più piume di ricordo

né promesse d’ascolto.

Resto là;

la parola afona,

e il sangue schiavo del silenzio.

 

*

 

Sesta benedizione per mio figlio mentre sogna 

Fiori azzurri e frutti rossi

nella tua mano

e non c’è giustizia

nel “bianco o nero”,

che sia la giustizia

il tuo sogno

figlio mio.

 

*

 

Ali di falco 

Ali di falco,

tagliano cieli

e separano e spezzano

e dicono «Luce»

al buio,

prima che luce sia.

Di cos’altro vuoi parlare,

poeta,

che non sia il tuo inciampo?

 

*

 

Errore 

È un errore attingere sempre

allo stesso pozzo,

elevare l’assenza

a rango di saggezza.

È ora di tornare

al luogo sacro dell’ignoranza,

ed evitare nel cammino

i ghiacci sottili d’una scrittura

debole e seducente.

È ora di dirsi

finalmente vinti.

 

*

 

Sei milioni

Si crepano maschere d’argilla

sui miei volti

e lo sguardo si perde

su un orizzonte

assente;

avanzano lenti

i passi del silenzio

e ardono i fuochi

sacri

della memoria.

In alto,

sei milioni di voci evanescenti,

coperte da fumi e grida,

osservano e sostengono

una tenacia bambina.

Per loro solo

canto nenie primordiali,

inni d’elevazione nella notte

senza stelle.

 

Poesia pubblicata sul blog «Le parole di Fedro» in occasione della Giornata della Memoria 2021.

La “biscrittora” Maria Attanasio

di Ivana Rinaldi

La scrittura di Maria Attanasio, che sia poesia o prosa, è una scrittura a tutto tondo. Nata poeta, poi autrice di romanzi memorabili come La ragazza di Marsiglia, in lei ritroviamo il valore della parola che origina e da cui hanno origine tutte le cose, costruisce e ri-costruisce la Storia, che ha spazzato via popoli e civiltà, le storie che si con-fondono, l’amore e la pietas per gli ultimi presente ovunque nei suoi lavori. In Nero barocco nero la citazione di Democrito: < Bella in tutte le cose l’uguaglianza, l’iperbole e l’ellisse non mi piacciono>.

La parola di Maria Attanasio disfa l’ingiusto silenzio, non quello buono, intimo, creativo, ma quello che trama per nascondere e occultare, zittire il presente e il passato; crea senso, è capace di ricucire quella trama sottile tra il nostro sentire e il mondo, a contrastare frontalmente il linguaggio contraffatto, manipolatorio, che si prospetta alll’orizzonte e su ogni realtà, eclissandola, velandola di menzogna. Quando si ha il privilegio della parola potente come Maria Attanasio, allora sì che si può parlare di scrittura.

Nero Barocco Nero

La copertina di “Nero Barocco Nero”

Protagonista di Nero barocco nero, è Pellegrina Vitello, accusata di <magaria> (stregoneria) che rischiò di essere arsa viva davanti alla cattedrale di Messinanel 1555: subì solo(!)la tortura della corda e della fustigazione:

Nero barocco nero/ nel muro gocciolante sterco e gigli (…). Da una fessura sbuca l’assassino:/ un grande inquisitore con paramenti/incensi e attrezzi di tortura/ un freddo di spalle alle lamiere.

Sono tante le storie narrate da Maria Attanasio, quelle del passato e quelle del presente, dalle zolfare, lo zolfo è stato infernu veru negli anni ’50, alle Poesie d’amore in tempi di guerra. Probabilmente la seconda guerra del Golfo (2003); dalle vittime della Seconda Guerra mondiale, agli schiavi deportati dalla loro Africa, all’America del maccartismo, alla tragedia delle migrazioni e alla melanconia degli sradicati. Una parola che ha sempre tenuto testa alle storture della Storia. Un tentativo di mutare la tenebre in luce per mezzo di un io non più io: <Dire uomo torre martello/ Dire cosa/E’ mondo dire/che esce dalla notte/e di nuovo si incammina tra le forme>.

Rileggere e riscrivere del passato non è mero esercizio archivistico e neanche metafora del presente – come è ad esempio in Vincenzo Consolo, suo maestro – ma è un ritrovare una realtà che sostanzia il presente grazie a un empatico e ininterrotto dialogo tra vivi e morti.

Alla doppia scrittura di Maria Attanasio è stato dedicato un anno fa (14-15 ottobre 2022) un convegno internazionale all’Università di Valencia dal titolo Maria Attanasio. Quatro Décades de Bifronte Escritura Desobediente, i cui interventi sono stati curati da Giuliana Adamo e Miguel Angel Cuevas e pubblicati da Castevecchi nel 2023 e dal quale emerge nella sua complessità la persona, la poetica, l’opera.

La <biscrittora>, come ama definirsi, calatina, nata a Caltagirone nel 1943, ci viene restituita nella sua fedeltà a se stessa, al proprio talento creativo e alla sua etica. Tre aspetti che non vanno separati e costituiscono un unicum. Scrive di lei Sebastiano Burgaretti in Maria Attanasio madre di poeti, madre di libertà: <Io credo che Maria Attanasio sia nata poeta di vita, prima ancora che di penna e di carta. Solo una virtù petica e poietica ha potuto ispirare in lei il coraggio e l’impegno civile ne hanno sigilillato e contradistinto la vita>. (P. 82).

Qualche nota sui suoi romanzi.

La ragazza di Marsiglia è il più conosciuto. Narra la storia di Rosalìe Montmasson, seconda sposa di Francesco Crispi, da lui poi ripudiata, contro la legge che vietava la bigamia, mentre si univa in terze nozze illegali con un’altra donna. Il romanzo è costruito secondo le modalità della militanza narrativa di Maria Attanasio: rendere voce a coloro a cui è stata silenziata dalla storia ufficiale e denunciare l’impostura storica tramandata come verità. Lo stesso fa con Paolo Ciullo in Il Falsario di Caltagirone, che prima di diventare personaggio letterario, sconvolse la storia della Sicilia con la sua vita fuori dai limiti. Studente di disegno e pittura, anarchico e rivoluzionario, consigliere comunale, bohémien a Parigi, migrante in Brasile e in Argentina, falsario di bancanote e quindi frequentatore di manicomi e carceri, morì nel 1931, cieco e in assoluta povertà.

Da queste figure, possiamo capire chi siano i personaggi dell’autrice creati su carta e con l’inchiostro, ma terribilmente carnali. Sono tanti/e le scrittrici da cui Maria Attanasio <prende lezioni>, dal Manzoni di La colonna infamealla Yourcenar di L’opera in nero, fino a Sciascia e Consolo, suoi conterranei. Merito e paradigma della narrazione storica di Maria Attanasio, è aver inventato un metodo che coniuga il documento con l’invenzione verosimile rispetto ai fatti che restano nel buio e in silenzio. Tanto innovatrice nel raccontare, così nella poesia di cui abbiamo cinque raccolte tradotte, come i romanzi, in varie lingue, di cui segnalo Amnesia del movimento delle nuvole e Paesaggi. Sempre alla ricerca della lingua perduta.

Non so dove sei persa lingua
un tempo parlavi mille dialetti
ora balbetti inciampi
sibilante fax a vuoto nella stanza
segreto crepitare che di notte
senza segni di riconoscimento spinge
tra le atone dune,
l’implacabile vento.

Amnesia del movimento delle nuvole

YULIA DRUNINA: UNA POETESSA COMBATTENTE

Un ritratto della poetessa combattente Yulia Drunina

di Francesco Cocorullo

La poetessa russa Yulia Vladimìrovna Drùnina (Юлия Друнина) è stata un fulgido esempio di poetessa combattente. Nata a Mosca il 10 maggio 1924 dal professore di storia Vladimir Pàvlovich Drunin e dalla libraia e insegnante di musica Mathilde Borìsovna Drunina, iniziò a scrivere versi intorno alle 11 primavere e sul finire degli anni Trenta riuscì a vincere un concorso letterario ottenendo la prima pubblicazione di un suo componimento su una rivista specializzata.

Quando nel 1941 l’URSS fu attaccata dalla Germania, la diciassettenne Yulia si diplomò al corso per infermiera impiegandosi come volontaria, per poi partire per il fronte dove riuscì a ottenere il grado di soccorritore militare, specializzata in trattamenti di emergenza per aiutare i feriti; dopo la morte del padre nel 1942, Yulia Drunina andò a Khabarovsk, nell’estremo oriente russo, dove si iscrisse alla scuola per diventare aviatrice, ma siccome desiderava combattere al fronte, non volle aspettare la conclusione del corso e preferì tornare al ruolo di soccorritore militare: venne dunque inviata al fronte bielorusso.

Durante quell’esperienza conobbe Zinaida Samsonova, un’altra soccorritrice che morì in combattimento nel 1944 e ricevette l’onorificenza postuma di Eroe dell’Unione Sovietica: a lei, Yulia dedicò la poesia “Zinka”, uno dei suoi lavori più sentiti. Nel 1943 rimase gravemente ferita quando una scheggia le trapassò il collo finendo a pochi millimetri dalla carotide: ricoverata a lungo in ospedale, iniziò a scrivere numerosi componimenti incentrati sulla guerra.

Sul fronte sentimentale, sposò nel 1944 il compagno di classe Nikolaj Starshinov e da lui ebbe due anni dopo la sua unica figlia, Elena. La famiglia visse in condizioni di estrema povertà nella periferia di Mosca: Drunina provò senza successo ad essere ammessa all’istituto letterario Gor’kij ma la sua poesia non fu ritenuta abbastanza matura. Dunque, tornò al fronte a combattere, stavolta nell’area baltica: solo al rientro, alla fine del 1944, ottenne l’ammissione all’Istituto come veterano di guerra. Pubblicò nel 1948 un libro di poesie e nel 1960 divorziò da Starshinov e sposò lo scrittore Alexej Kapler, che teneramente amò sino alla morte di lui nel 1979. A Kapler dedicò numerose poesie. Durante l’era della perestrojka fu una delle intellettuali elette al Consiglio supremo dell’URSS.

Ma nel 1991 cadde in una terribile depressione a causa della dissoluzione dello stato sovietico che la portò al desiderio di morire, non riconoscendo più nel nuovo stato gli ideali per i quali aveva lottato tutta la vita. Così il 24 novembre 1991 decise di suicidarsi soffocandosi con i gas di scarico della sua auto nel garage di casa. Fu sepolta accanto al secondo marito Alexej Kapler.

Qualche poesia di Yulia Drunina nella mia traduzione:

L’amore passa.

Il dolore passa.

I grappoli d’odio appassiscono.

Solo l’indifferenza –

Ed ecco il guaio –

si congela, come fosse un blocco di ghiaccio.

 

***

 

Ti stavo aspettando. E credevo. E sapevo:

Ho bisogno di credere per sopravvivere

Alle battaglie, ai cambiamenti, all’eterna stanchezza,

alle terribili tombe-rifugi.

Sono sopravvissuta. E l’incontro vicino Poltava.

Un maggio in trincea.

Non è comodo per i soldati.

Nei codici il diritto non scritto

Di un bacio, per cinque dei miei minuti.

Dividiamo in due parti un minuto di felicità,

Che ci sia un attacco di artiglieria,

che la morte da noi scivoli nei capelli.

Un’esplosione! Ed accanto c’è la tenerezza dei tuoi occhi

E l’affettuosa voce rotta.

Dividiamo in due parti un minuto di felicità

 

***

C’è un tempo per amare,

c’è per scrivere d’amore.

Perché chiedere:

“le mie lettere strappi”?

Per me è una gioia

che un uomo sia vivo sulla terra

il quale non vede

che è giunta l’ora della neve.

Da molto tempo ho portato

nella testa quella ragazza

Che ha bevuto abbastanza

Lacrime e gioia.

Non si deve chiedere:
“le mie lettere strappi!”

C’è un tempo per amare

E ce n’è uno per leggere d’amore.

 

***

Non mi importa

Non sono felice,

può darsi che domani

mi impiccherò.

Non ho mai posto un veto

Alla felicità,

alla disperazione,

alla tristezza.

 

A nessuna cosa

Ho posto un veto,

dal dolore io mai griderò.

Mentre vivo – combatto.

Non sono felice,

Ma non potranno spegnermi

Soffiando, come una candela.

 

***

Questa fu l’ultima poesia che ella scrisse, poco prima di porre fine alla sua vita:

 

Il cuore si copre di brina,

fa molto freddo nell’ora del giudizio…

Voi avete gli occhi come quelli di un frate,

Non ho mai incontrato occhi come questi.

 

Vado via, più non ho forze.

Solo da lontano

(sono ancora battezzata!)

Pregherò

Per quelli come Voi

Per gli eletti

Tenere la Rus’ oltre il burrone!

Non temo che voi di forze siate privi,

perciò scelgo la morte.

Come la Russia vola in discesa,

non posso e non voglio guardare!

 

 

Traduttrice a sedici anni: Aurora D’Archi e i racconti di Ellen Glasgow (Divergenze, 2023)

di Nina Nocera

Di infedeltà e altri fantasmi, traduzione di Aurora D'Archi (Divergenze, 2023)

Di infedeltà e altri fantasmi, traduzione di Aurora D’Archi (Divergenze, 2023)

Aurora D’Archi ha sedici anni, è una  studentessa del liceo classico – linguistico “Scipione Maffei” di Verona. É stata protagonista di una vicenda straordinaria ma al contempo “normale, perché quando esiste il talento e qualcuno, in questo caso la professoressa Luisa Campedelli, che  ha il coraggio e la volontà di valorizzarlo, tutto è  naturale.  Grazie al progetto di lettura e traduzione promosso dalla casa editrice Divergenze e alla “visione” dell’editore Fabio Ivan Pigola, Aurora  ha avuto la possibilità di essere scelta per la traduzione di due racconti della scrittrice statunitense Ellen Glasgow: “The past” e “The difference”.  Il risultato è  la pubblicazione  del libro “Di infedeltà e altri fantasmi“(Divergenze, 2023).  Di questo e tanto altro, abbiamo parlato nell’intervista che ha rilasciato.

Aurora D'archi

  • D:  COME HAI VISSUTO L’ESPERIENZA DI TRADUZIONE PER LA QUALE HAI OTTENUTO UN IMPORTANTE RICONOSCIMENTO? RACCONTACI COME E’ NATA E COME SI  SVILUPPATA.

R: Tutto iniziò un freddo giorno di gennaio, quando la professoressa Campedelli mi propose di tradurre un paio di racconti con la scusa che, facendo l’anno all’estero, l’anno successivo non avrei potuto prendere parte al progetto che aveva in mente. Ecco che, senza sapere assolutamente nulla né di come si traducesse concretamente un testo letterario, né di quale fosse l’effettiva entità di ciò che stessi facendo, iniziai a tradurre un primo racconto; poi arrivarono The past e The difference. Esponenzialmente ho avuto sempre meno tempo a disposizione per tradurre, arrivando ad ultimare The difference in un paio di settimane (per mia personale imposizione eh, sia chiaro, nessuno mi ha costretto). Da lì, svelando a poco a poco il mistero, si è giunti alla pubblicazione e alla presentazione a scuola il 2 giugno. Ancora adesso, riguardandomi indietro, non so bene nemmeno io che cosa abbia fatto esattamente, ma in ogni caso sono fiera del risultato.

 

  • D: RACCONTA UN PO’ DI TE: QUAL  È LA TUA GIORNATA TIPO, IL TUO HOBBY, LE TUE LETTURE, IL GUSTO DEL GELATO PREFERITO.

R: Non c’è nulla di troppo entusiasmante nella mia “giornata tipo” in realtà. Mi alzo, vado a scuola, torno a casa e studio fino a sera. Da brivido eh? Fortunatamente tra gli allenamenti di pallavolo, le sessioni di D&D o simili, e il corso di doppiaggio riesco a non uscirne pazza. La lettura è un po’ un tasto dolente ultimamente, ma perlomeno quando tutto ti annoia, quei pochi libri che non lo fanno colpiscono nel profondo. Per il gelato… non ho mai amato questa ansia del dover classificare colori, gusti, amici, genitori… quindi potrei iniziare un elenco infinito o semplicemente ammettere che non ne ho idea, è una domanda troppo difficile. Perlomeno adesso che è estate posso dedicarmi allo studio del giapponese, chimera che rincorro da anni e spero di poter acciuffare in questi mesi.

 

  • D: SI DICE CHE TRADURRE SIA ANCHE TRADIRE. COSA NE PENSI? QUAL È STATO IL TUO APPROCCIO AL TESTO?

RCome ho provato ad accennare nel commento, tradurre non è propriamente tradire, ma la perpetua ricerca del modo migliore per non farlo, che è ciò che gli dona valore. Quello che perdi da una parte devi essere capace di restituirlo da un’altra… diciamo che, se la traduzione è la strada tra due scarpate, l’inglese e l’italiano, tradurre è cercare di camminare né troppo vicini né troppo lontani dal dirupo originale, è una questione di equilibrio ecco. Certo, poi quando ci si trova il testo davanti e di fianco un foglio bianco da riempire, nemmeno la metafora migliore del mondo ti può salvare. Il mio approccio comunque è stato quello di una totale incompetente: mi sono gettata nella mischia di parole con la spada smussata di una scrittrice dilettante e un inglese più o meno solido come scudo. Che poi ne sia uscita vincitrice, saranno i lettori a dirlo.

 

  • D: HAI INCONTRATO DELLE DIFFICOLTA’. SE SÌ, QUALI?

R:  Considerando le premesse sarebbe stato più strano se non ne avessi incontrate: tra righe allagate di pronomi personali e varie incomprensioni nella formalità o meno di certi personaggi, c’era e c’è – perché se potessi tornare indietro riscriverei quasi tutto da capo – un amplissimo margine di miglioramento. Sulla mia copia – e non dirlo all’editore perché non so come la prenderebbe – ho apposto a matita una gran bella quantità di correzioni. Quindi sì, la traduzione è un coacervo di problemi da risolvere, tanti rompicapi apparentemente senza via d’uscita, ma quando poi trovi il modo di sbloccarli e metterli in ordine, la soddisfazione è immensa. La “tecnica” che l’editore e la curatrice mi hanno invitato ad adoperare per superare queste difficoltà è stata quella di scrivere di pancia, senza scervellarmi troppo, ma sciogliendo i nodi narrativi come per doverli spiegare ad un amico. In fondo questo è un progetto scolastico, volto più a mostrare e dimostrare che i ragazzi giovani hanno un potenziale spesso ignorato, e non a produrre una traduzione impeccabile e magistrale dei racconti.

 

  • D: CAMBIAMO PROSPETTIVA: SE FOSSI INSEGNANTE, CHE CAMBIAMENTI PROPORRESTI PER LA SCUOLA?

R:  Così, su due piedi, proporrei un riscaldamento che funziona, perché senza di quello potremmo anche studiare nel regno delle fate, ma comunque col cervello ghiacciato si fa poco. A parte gli scherzi, credo che la sopravvivenza della scuola dipenderà molto da quanto i professori riusciranno a scendere dal piedistallo e mettersi al fianco dei ragazzi, piuttosto che davanti a loro. Se io fossi un’insegnante tenterei di abbattere il più possibile questa barriera di rispetto forzato, e ne costruirei uno nuovo, basato sull’ammirazione e non sul terrore. Perché, personalmente, la consapevolezza di essere ricordata dai miei alunni solo per quanto mi hanno odiato, toglierebbe ogni senso alla professione stessa di insegnante. Poi di innovazioni se ne possono trovare a bizzeffe, si potrebbe anche cambiare tutto per quanto mi riguarda, dal rapporto studente-professore, alle modalità di insegnamento. Ad esempio – e non dico troppo perché ho ancora altri due anni di liceo da portare a casa – credo che come insegnante non esista realizzazione più grande del vedere che questi ragazzini mezzi sconosciuti con cui sei forzato a convivere per ore tutti i giorni, ti guardino con la passione per la tua materia negli occhi, e pendano dalle tue labbra.

 

  • D: COSA È PER TE LA CREATIVITA’? CREDI CHE A SCUOLA VENGA ADEGUATAMENTE INCENTIVATA E VALORIZZATA?

R:  Beh dipende, in quanto a modi per copiare, credo che il liceo sia un pozzo inesauribile di creatività. In quanto a valorizzazione dell’estro artistico, della fantasia, del talento individuale, è un’altra storia. Ora, per quanto possa non essere trasparso dalle mie precedenti parole, in realtà la mia scuola è abbastanza avanti in questo campo; perciò tenterò di dare una testimonianza abbastanza neutrale. Ad ogni modo, con creatività l’enciclopedia Treccani si riferisce ad una «virtù creativa, capacità di creare con l’intelletto, con la fantasia.» Quindi un concetto davvero ampio e variegato. Per me la creatività è legata all’idea di “creare”, cioè di produrre con mano qualcosa. E forse sì, la scuola pecca in questo, perché molto spesso sei più vittima della conoscenza che fautore di essa. La assorbi passivamente come una spugna, che inevitabilmente ad un certo punto è zuppa e non trattiene più niente; invece di formarla tu stesso attraverso il ragionamento, le idee o l’esperienza concreta. Non la maneggi, né la manipoli, ma la guardi scorrere via, e quella sosta giusto il tempo per passare una verifica, poi scompare.

 

  • D:  IL TESTO CHE HAI TRADOTTO È DI UN’AUTRICE. QUALI ASPETTI TI HANNO COLPITO IN PARTICOLARE?  PERCHE’ PROPRIO LEI? 

R: La scelta non è stata mia, bensì di Divergenze, eppure non credo ci fosse scelta più appropriata. Ho sentito molti parlare di un’atmosfera alla Poe per The past, e d’una sfumatura gotica e introspettiva in The difference. Personalmente di Ellen Glasgow, per ora, non ho letto molto, ma è bastato per capire che la sua è una scrittura poetica – perché è ritmata come una poesia –, leggiadra, ricca di immagini, chiara mi verrebbe da definirla; ma che allo stesso tempo è velata di malinconia, come un sospiro arrancante, un urlo soffocato di personaggi posati e imperturbabili all’esterno, ma che dentro di sé celano una profonda oscurità. The difference in particolare lascia addosso un’angoscia che è propria solo di un certo modo di costruire la narrazione: creando esponenzialmente l’aspettativa di un climax che poi viene negato, e poi tagliando brutalmente la storia per lasciarti con un retrogusto di confusione e amarezza. Ecco, questo è il genere di scrittura che mi piace; dove fino alla fine non sei conscio di ciò che ti aspetta e quando finalmente lo realizzi, è troppo tardi, e la penna ti è già arrivata al cuore.

 

  • D: CHE NE PENSI DEL FATTO CHE MOLTE VALIDE AUTRICI NON COMPAIONO NELLE ANTOLOGIE LETTERARIE E NEI MANUALI SCOLASTICI? 

R: L’arte è l’arte: se si escludono degli autori dalle antologie, indipendentemente dal loro sesso, che sia per qualche bigottismo o per semplice noncuranza, allora è chiaro che cercare di recuperare i loro testi sia la cosa migliore. La letteratura è un organo vario e meraviglioso, e rinchiuderla entro i canoni dei classici e delle classificazioni vecchie di secoli non le garantirà longevità, di questo sono convinta. Se vogliamo salvare la letteratura, consegnandola nelle mani dei più giovani, è necessario modernizzarla: nel metodo, come nelle proposte di letture. E una via per perseguire questo scopo, può sicuramente essere quella di ripristinare la sfaccettata varietà di autori del nostro territorio e non. Perché, per quanto nessuno potrà mai negare il fascino di Dante, Pascoli, Pirandello, è il momento di distaccarci dalle catalogazioni dell’arte operate da uomini che non hanno più nulla a che fare con noi, se non che apprezziamo le stesse opere; e anche lì, se non siamo disposti ad estendere il concetto di arte pure a ciò che non ci sembra evidente, ciò che non è facile e noto, non possiamo aspettarci che tutti gli studenti liceali ne colgano fino in fondo la meraviglia.

 

  • COME TI VEDI TRA QUINDICI ANNI?

R: Vecchia. Già mi fa impressione il fatto che tra poco compirò diciassette anni, figurati quando ne avrò 32. Spero anche felice come lo sono adesso, ma quello mette già meno angoscia. Spero che sarò riuscita a realizzare un po’ delle cose che ho in ballo, tra traduzione, doppiaggio, cinema, teatro, audiolibri, adattamento… C’è un sacco da fare! A trentadue anni immagino che avere un lavoro sia già un gran risultato, e chissà, forse vivrò a Roma, o forse a Milano, per la necessità di stare dove si fa doppiaggio. Spero per allora di aver già appreso almeno un altro paio di lingue: dopo il giapponese mi interessano cinese, francese e spagnolo, ma non si può mai sapere che cosa mi passerà per la testa quando avrò il doppio dei miei anni. Quasi non me lo immagino, è come vivere un’altra vita.

 

  • PENSI CHE QUESTA ESPERIENZA POSSA DIVENTARE L’OCCASIONE PER INTRAPRENDERE UNA PROFESSIONE FUTURA?

R: Il piano, appunto, sarebbe più o meno quello. Il mondo della traduzione mi affascinava già da prima che la professoressa Campedelli mi proponesse il progetto, ed ero intenzionata di avventurarmici prima o poi. Vorrei che questa fosse l’occasione per aprirmi una strada in un mondo affascinante che ho appena lambito, ma che ha tantissimo da offrire.

 

  • LASCIAMOCI CON  UN MOTTO E UNA FRASE DEL LIBRO DA TE TRADOTTO 

R: Se devi colpirlo, fallo finché non si rompe! Citazioni permettendo, c’è un fondo di vero, sono il genere di persona che porta a compimento tutto quello che fa, e se bisogna fare qualcosa, è bene che ci si metta tutto l’impegno possibile, altrimenti è privo di senso.

«Affrontare la vita spogliati di ogni salvaguardia, di ogni restrittiva tradizione, con solo il coraggio dell’ignoranza, dell’inesperienza sprezzante, per proteggere qualcuno. Quella ragazza non era crudele per sua volontà. Era semplicemente avida di sentimento: restava senza fiato di fronte alla messa in scena della felicità come tutto il resto della sua generazione ribelle.» Da La differenza. Per qualche motivo che non so bene definire mi sento particolarmente vicina a questo pensiero.

RHITA BENJELLOUN- Spettatrice della vita-

di Francesco Cocorullo

Cari amici, vi presento la poetessa marocchina Rhita Benjelloun, nata nel 1990 a Fes, è poetessa e creatrice. di gioielli. Inizia a scrivere versi all’età di undici anni, la sua prima raccolta poetica “Spettatrice di vita” è pubblicata nel 2017; per Rhita la poesia è un canto dell’anima, i versi sono ispirati dalla sua esperienza di vita, dalla sua storia. La definisce “un canto che culla lo spirito”, che “origina dal cuore”.
Eccovi tre componimenti nella mia versione italiana:

 

 

La mia corona

Uomo coraggioso dal portamento molto saggio
Ampiamente attivo nonostante la tua età
Tanti sacrifici, tanto coraggio
Per il benessere della tua piccola realtà
Tu fosti per me l’esempio da seguire
Imitavo i tuoi gesti, le tue parole e le tue stesse risate
Il mio idolo, così ti chiamo
L’uomo verso cui provo un amor sovrumano
La giovincella che fui, io te ne faccio dono
Tu ci hai sempre regalato felicità, amore e gioia
Papà sei il mio ideale, sei la mia retta via

La notte
L’intimo nel quale mi confido
La culla dei miei pensieri e delle mie noie
Io ti sarò Riconoscente
Dalla genesi fino alla tomba
Tu che la mia avventatezza hai domato
Che tanta stima e attenzione mi hai donato
Che mi hai saputo ascoltare e preservare i miei segreti
Che eri complice d’un sogno ora realizzato
Nella tua calma io trovo rifugio
Nelle tue tenebre sono confusa
E nel tuo regno tu sei la mia musa

Silenzio

…Silenzio d’una parola, silenzio d’una lacrima
Silenzio d’un brivido da sotto una trama
D’una rabbia rinchiusa sul fondo
Del buio, isolata, nel profondo abisso
Silenzio d’un decennio
Di terrore che li ha separati
Silenzio d’anime lasciate del tutto
Di dittatori avidi soprattutto…

 

Ondine Valmore

 

di  Francesco Cocorullo

Marceline Junie Hyacinthe Valmore, detta Ondine, nacque a Lione il 2 novembre 1821 dalla poetessa Marceline Desbordes-Valmore e da François Lanchatin, detto Valmore, nonostante anche il letterato Henry Hyacinthe de Latouche pensasse di esserne il padre. Difficile la sua infanzia, affetta da problemi respiratori
e polmonari fin dall’età di dodici anni, verso i venti i suoi problemi si aggravarono, tanto da costringere la mamma ad inviarla a Londra da un medico che aveva un’ottima reputazione, il dottor Curie.Purtroppo, questi si rivelò un ciarlatano e la povera Ondine peggiorò rapidamente; ammalata di tubercolosi, trascorse il resto dei suoi anni tra un ricovero e l’altro in ospedali e sanatori, fino alla morte a soli 31 anni, il 12 febbraio 1853 tra le braccia della madre a Passy.

Ragazza dotata di grande talento letterario, imparò presto il latino e l’inglese, traducendo molte opere, tra cui quelle di Shakespeare; pressata dalla madre affinché si sposasse, accettò la proposta dell’avvocato Jacques Langlais. Dalle nozze nacque un figlio, che ben presto rimase orfano a causa della prematura morte di Ondine. La giovane donna ha pubblicato alcune raccolte poetiche, vivendo con una spada di Damocle sulla testa a causa della precaria salute, nei suoi versi sono molto presenti i temi dell’inverno, dell’autunno, del ciclo della vita. Ecco alcune poesie nella mia traduzione:

Addio all’infanzia

Addio miei giorni infantili, effimero paradiso!
Fiore che brucia già lo sguardo del sole,
Fonte dormiente dove ride una dolce chimera,
Addio! Fugge l’alba. Giunge il momento del risveglio!
Ho invano cercato di trattenere le tue ali
Sul mio cuore che batteva, dicendo: “Ecco il giorno!”
Ho invano cercato tra i miei giochi fedeli
Di prolungare il mio destino nel tuo calmo soggiorno;
Giunta è l’ora, addio mia primavera, selvaggio fiore;
Domani questa allegria un ricordo sarà.
Addio! Ecco l’estate; temo il temporale;
Mezzogiorno porta il fulmine, e mezzogiorno arriverà.
Autunno
Vedi questo frutto, ogni giorno più tiepido e vermiglio,
Dolcemente gonfiarsi sotto i raggi del sole!
La sua linfa ad ogni istante più ricca e feconda,
Lo riempie, diremmo, di voluttà profonda.
Sotto i fuochi d’un sole invisibile e potente,
Il nostro cuore assomiglia a questo frutto che matura,
Di succhi più abbondanti ogni giorno inebriato,
Felice di vivere, or maturato.
L’autunno giunge: il frutto si svuota e cadrà
Ma la sua buccia è viva e di germogliare chiederà.
L’età arriva, il cuore si ferma in silenzio,
Ma, per l’estate promessa, il suo seme conserverà.

La Voce

La neve da lontano copre la nuda terra;
I deserti boschi si estendono verso le nubi
I loro grandi rami che, neri e separati,
d’alcuna foglia ancora non sono adornati;
Dorme la linfa e la gemma senza forza
È per molto tempo sotto la corteccia intorpidita;
L’uragano soffia annunciando l’inverno
Che gela l’orizzonte scoperto.
Ma io sotto invisibili fiamme ho rabbrividito
Voce di primavera che muove le anime,
Quando tutto è freddo e morto intorno a noi,
Voce di primavera, o voce, da dove vieni?….
Quando in primavera
Quando in primavera la verde foglia
Prova a adornare i rami,
Quando dal seno della terra aperta
Si innalzano alberi nuovi,
Quando tutto sorride, quando tutto si rischiara,
Quando la stella tiepida e trionfante
Pare misurare la sua luce
Con la forza dell’occhio d’un infante:
Amo vedere la bambina,
fresco fiore, correre per i prati.
Amo vedere la sua corona dove brilla (sic)
I primi bottoni colorati.
Ammirare il bimbo che si è lanciato
Sotto il cielo privo di vento
Amo il Dio che ha l’infanzia ha creato
E che gli dona la primavera.

Il viaggio è dentro. La poesia di Antonella Rizzo

di Gabriella Grasso

 

Una tensione elastica attraversa tutta l’opera di esordio di Antonella Rizzo, “Addio ai platani, minima raccolta poetica di 33 vite”, come la definisce la stessa autrice nel sottotitolo (Oistros, 2020). Sono oscillazioni tra poli, ma al tempo stesso tappe di un cammino spiraliforme, che assume a volte le forme di un ritorno, mentre contiene già in sé nuovi germi. Dal Salento a Milano, all’Africa amata nei suoi angoli e nella sua gente, a quella ritrovata in vesti nuove in altrettanti angoli della metropoli italiana.

Tutto il libro è mosso da una dialettica interna, dinamica, tra il moto e la permanenza, tra le radici e i paesaggi che mutano, elementi non in aperta antitesi, ma in continuo, fertile richiamo, perché il viaggio è innanzitutto un’attitudine e una conquista interiore, mai definita una volta per tutte: “Milano è un’altalena / è sempre là dove non sei più” e ancora: “Giunge la fine tra la pioggia e le alici / un venerdì di memorianegata /fino ai confini del mare. / Giunge e piove, senza dubbio / Sotto l’ombrello rosso / un cielo d’assenza scrive la fine. / Giunge doppia ogni vita, / una tace come morte / l’altra si impiega dopo l’inizio. / Giunge ogni cosa che finisce”.

Ogni movimento è un cambiamento, è una morte e una nascita, uno sguardo che si
rinnova sulle cose che si lascia alle spalle e su quelle a cui va incontro: “Quella
tovaglia ha l’odore delle cose perdute / rimettila nella credenza / accanto alle mie
assenze”, “Qui ogni cosa finisce al mattino / (…) Milano non sa che vado via, non
chiede. /Dopo la luce apre il ventre fino a sera /Se non dormi, / lei ti porta il profumo
dei platani. / Se ti accorgi che è bella, /ti toglie il sonno / e succede di notte”. Tutto è
inciso dentro, tutto è dato, ma allo stesso tempo lascia margini da scoprire, da
interpretare, per una continua, forse impossibile, ridefinizione: “Non sono morte / si
nascondono ancora le cicale, / in lontananza tornano a battere / la terra che ho
dentro”. I luoghi, evocati con la precisione dei nomi mentre assurgono a contesti dell’anima, non perdono la loro materialità, resi attraverso una sensorialità vivida, legata alle suggestioni che ogni ambiente suscita: la poesia di Antonella Rizzo è infatti una trama di profumi (limone, menta, arance), sensazioni del gusto (miele, latte, “storia fritta”, succo del mango, kebab…), dati visivi relativi sia a paesaggi urbani, sia a lande esotiche, tanto note e care all’autrice. Nel richiamo di luoghi e sapori tutto si confonde, senza perdere – che mistero – la propria identità. Un trionfo di sensualità che si celebra anche nell’incontro con l’altro e nella relazione d’amore e che si declina come stupore e devozione: “bacio i tuoi piedi come radici / la notte sbuccio i tuoi giorni”, “la mia notte ti ascolta devota / come la baia il mare”.Corpo, volizione, tensione del movimento si contrappongono alla stasi, all’immaterialità, queste ultime però non segno di resa, ma di resistenza: “Audace è andare / audace è stare / audace è il niente che qui succede”.

Che cosa lega contesti e vissuti, anche a volte molto distanti tra loro, cosa li rende molto più di semplici fotogrammi giustapposti nella memoria di chi li descrive? Li accomuna un filo profondo, quello della partecipazione e della fratellanza, anche nel dolore.Due temi ricorrenti sono infatti quello di un dio morto e ritrovato in un dialogo audace e confidenziale, oltre gli steccati delle etichette confessionali, nel ruggito vitale di un’anima, e quello della guerra. Ogni guerra ha il suo portato di sradicamento, di azzardo, di morte, il cui prezzo non sarà mai pagato dai “sazi”, ma dai fragili: sono bambini privati del nome, a cui solo il gesto poetico può tentare di restituirne uno, uno per tutti, Ibrahim. A lui la voce dell’autrice rivolge l’invito più accorato: “Ibrahim, canta!” La poesia germina proprio in queste anse della storia, nella spirale del ritorno e dell’incontro, nel movimento mai unidirezionale tra l’origine e la meta, dove tutto è mutare e ri-conoscere, nominare “senza dire, senza nome”. E’ così che l’arte può diventare creazione di nuove possibilità: “Fammi radice e frutto /dammi ragioni e follie /trasformami in Africa / perché il suo viaggio non abbia un ritorno lontano”.

Alcuni testi

Trieste al molo

Qui non succede niente.
Non può succedere niente.
Tutto è audace qui.

Audace è andare
audace è stare

audace è il niente che qui succede.

Salento

Non sono morte,
si nascondono ancora le cicale,
in lontananza tornano a battere
la terra che ho dentro,
quella addosso, quella che è carne.

Il limone con le foglie nere
fa frutti sul muro della vicina,
accanto all’agave.
Ancora.

Tante cose ho portato per tornare,
e qui non so più nulla.

Sto con la terra,
con il limone, in una luce che mi tiene ferma
a un passo dal tempo.

Dea

Tu non sai, uomo.
Io ho tradito,
io ho portato
oltre la vita,
oltre le parole
oltre ogni peccato,
oltre ogni regola,
oltre ogni regola.

Cosa dici al tuo Dio, ora?
Inshallah?
Tu non sai, credi a me.

Io parlo al tuo Dio.
Desidero,
corro,
mento
me ne frego.

Io e il tuo Dio, uomo,
sappiamo più di te.
As-salam aleikum. Amen.

Ibrahim, canta!
Dopo la pioggia Ibrahim prese soldi muti
e sua madre cadde nel blu.
La storia è rotta nei canti del mare,
ha racconti finiti quel giorno.

Un legno orfano
galleggia piano sull’acqua di un porto chiuso.
Dopo la pioggia nessun nome è storia.

Tre domande ad Antonella Rizzo

D: Quanto le radici sono un limite (se lo sono) e quanto una risorsa nel tuo fare
poesia?
R: Le radici in generale e le mie in particolare sono un luogo mitico, inesistenti
eppure essenziali per ogni inizio e ogni fine. In quanto tali esse per me sono
ovunque, in ogni storia che ascolto, in ogni vita che incontro. La scrittura
poetica per prima è radice e fine.

D: Trovo che l’esperienza dell’incontro sia protagonista in questo libro. Cosa
rappresenta nella tua vita e per la tua scrittura?
R: Accolgo questo tuo sguardo sulla raccolta e la proposta che per te l’incontro
sia centrale in essa. Non lo so se lo sia, se hai visto questo probabilmente è
anche così. L’incontro è per me un movimento di smarrimento, una ricerca
continua di aggiustamenti di sé, un esercizio fallito di tracciamento di confini.

D: Cosa intendi con l’aggettivo “minima” attribuito alla tua raccolta? Una scelta
stilistica o una postura esistenziale?
R: Fatico a vedere una differenza tra una scelta stilistica e una postura
esistenziale. Intendo “minima” una scrittura che è prossima al necessario pur
non essendo tale. Un po’ come una fonte di energia portata al suo limite
minimo, garantisce le funzioni o gli affari vitali, non superflui.

Voci – Incursioni nella poesia contemporanea

A cura di Gabriella Grasso

 

Alfredo Rienzi,  Sull’improvviso (Arcipelago Itaca, 2021)

 

Questa luce che ora

torna a crescere

dove la deporremo

spenti gli occhi in una notte a dicembre?

c’è stato tempo per disporsi, dici

verso il giusto angolo d’occidente

è che il tempo non è mai quello giusto

e le partenze hanno il suono ottuso

della frana che coglie all’improvviso

 

***

 

Aveva l’occhio il compito suo certo

(socchiuso, semiaperto o spalancato):

l’esaminare nudo stelle

di sesta e di settima grandezza

è lì la linea che flette il visibile

al nascosto, e al nero

la ritrosia dei fuochi

 

***

 

C’è nel silenzio ogni voce ogni suono

possibile: il bianco che si disfa

nell’iride, molecole-galassie

che ronzano, uova incerte se aprirsi

o indugiare nel loro simbolismo

ci sono nel silenzio

gli elementi al precipitarsi nudi

nei loro mulinelli

i canti di meduse e di sterne

poi l’infinita serie delle favole

quei loro finali mai ascoltati

 

Anna Maria Curci, Opera incerta (L’arcolaio, 2020)

 

Avvistamenti

 

In bilico su toni e fenditure,

cerca il prodigio il varco quotidiano

senza i sipari i tuoni e le tribune.

 

Tu prova a decifrare

linee forme colori.

della sciarada resta

l’anelito, l’attesa

 

***

 

Iris indaco

Tenue e tenace sogno solitario

iris indaco aroma della cerca

ombroso nella prole variopinta

bivio tra sensi desti e l’oltremare

 

Ti invoco ancora e già torna la sera.

Distendo le narici rattrappite

da frenesia di merci afrori spicci.

Aspiro e al fondo guidi l’immersione.

Tu rannicchiati dentro l’anagramma,

cerca lo schermo, cerca il nascondiglio.

Pure ti scoveranno, non badare

alla torma dei cani, avido strazio.

 

***

 

Posa la mano

 

Posa la mano ora sul ghigno amaro

la ruga appiana di constatazione.

Prenditi sottobraccio il riso

saluta i sassi e cammina nel sole.

 

Enzo Cannizzo, Il cielo pende dai lampioni (Algra, 2020)

 

il vespro

consuma

la zoppia

del buio

 

l’inverno

stringe

i cani

ai lampioni

 

il pane spezza

la lama

del giorno

 

***

 

arrancano i cumuli alti

sulle radici d’ombra

e semina tardiva

 

se il gelo creperà le arance

avremo labbra

propizie alla sete e doni

buoni per dèmetra

 

***

 

seme di luna greve

palude e pianoro

 

gonfia la malaria ingravida

la ferula il biviere

 

***

 

madre che taci il tuo dolore

vocale ossidata dal respiro

soffio sul tornio del viso

“Ho trecce indocili d’aglio”. La poesia di Margherita Ingoglia

Di Gabriella Venera Grasso

 

Un tessuto poetico che è contrappunto tra norma ed eresia, appartenenza e libertà eslege, ‘abiti buoni’ in un imbroglio di corpo’: è questa la trama attraverso la quale si snoda la scrittura di Margherita Ingoglia, autrice pluripremiata all’Etnabook 2022. Strega vestita di “un nero profondo che è luce”, alla perenne, inquieta ricerca di un codice che possa essere ponte con l’altro, ma senza quei compromessi che portano inevitabilmente a “mentire di sguardo e parola”, false soluzioni che lei aborrisce.
Nella scrittura di Ingoglia, il gioco delle antinomie è veicolato da un lessico mai piatto, spiazzante (“sono azzima”, “sono candeggiata”) e punteggiato spesso da allitterazioni che rimandano a scioglilingua, al gioco divertito e apparentemente anarchico, quasi in fertile lotta con il linguaggio e con la vita.
Gabriella Grasso

Alcuni testi di Margherita Ingoglia

Non so trovare un dio.
Le chiese sono vuote.
Il cielo è freddo,
il lampione stanco, balbetta.
La strada è caduta nell’incantesimo.
Ho la febbre,
la fede malata.
Un’amara stanchezza di gioia.
*
Per la cena di famiglia mi vesto con gli abiti buoni:
organdi vermiglio con strascico;
integerrimo nero a righello;
blu scorrevole in omaggio alle Muse
o gladiolo di cielo filato.
Ho la scelta dell’imbarazzo,
l’eleganza di etichetta e sbiadisco al solo pensiero.
Mi addobbo per manifesta apparenza,
l’appartenenza al ramo di ruoli.
Arruolata all’interpretazione del nome
sono candeggiata come l’ultima liturgica star
nel salmo della Messa in quaresima:
l’ultima o una qualunque.
Sono azzima.
Sono l’apparizione fulminea e frugale di tirlindana.

Una santacecilia in esca d’esibizione.
Un latte grasso di capra munta,
rinverginita. Chiodata alla specie del cognome tramandato.
La passerella mi increspa come la carta
per i fantocci di carnevale.
Ciarlo
con i cenci dei ceci accoccati dai ceti
per apparire leziosa
e mi incarto
in un’ impronunciazione d’annodamento verbale.
Nera come i fondali dei mari,
sono un querulo questuo.
Vorrei astrarmi. Mi sformo e deformo, per apparire diversa.
Ma finita la fiera del turpiloquio torno al covile,
al gramaglio di nervi agganciati alla gruccia.
Mi rimetto il mio imbroglio di corpo
e nella mia giara di carne pastello,
tra le rovine,
mi rifaccio medusa.
Ora sono me stessa.
*

Grazia, aggraziata, graziosa
non sono mai stata,
di grazia!
Mi manca l’abbiccì delle buone maniere.
Porto nel ventre un animale superbo.
Sono stata intagliata
con fine scalpello
nella corteccia dell&#39;albero scemo,
e nel ventre nutro clemenza
in spine di rosa.
Ho la pelle secca delle vedove illacrimate.
Potrei diventare pia
forse,
o come il XII che non si oppose al massacro
e appoggiò la Shoah, venerata.
E fu papa.
Ma non ambisco a tanto clamore di Storia,
temo possa io fare la fine di Zoilo, San Valentino o  Stuarda Maria la regnante,
con la testa che rotola nel piatto dei cani.
Povere bestie!
Mi piacerebbe piuttosto scoprire
come avviene il passaggio al simpatico,
la conversione alla avvenenza.
All’addomesticamento.
Quella maestria di ridente scioltezza che a me ha sempre atterrito.
Chi lo sa, me lo insegni.

È un cambio di stoffe? un doppio lavaggio e centrifuga?
un passaparola all’essenza di gioia?
Come accade la malìa
per essere sempre gaudenti e accoglienti?
Sono cresciuta avvezza alle mal educate cose di niente,
pestando madonnari nel porto
camminando in parsimonia di giudizi precoci,
con vesti poco curate e capelli in disordine di spartiti.
Ho negli orecchi suoni zigani,
zingari per essere precisi. Il temine non sia offesa,
per me che mi chiamano negra e finocchia
è vezzeggiativo espansivo.
Mentire di sguardo e parola,
mi ferisce più che cadere sui sassi.
Indosso un nero profondo che è luce,
i tacchi li indosso per colpire le noci più dure.
Sono come Locusta: bestiale, e avveleno.
Ho affinità con le aspidi,
mi difendo con gli artigli.
Delle madri passate ho ereditato le stelle ingiuriose,
delle condanne ho il segno dei denti sulle caviglie.
Non ho mai imparato a giocare.
Forse sono corrotta di senno e di vene.
Parlo ai defunti per lasciarmi insegnare a fuggire
dalle parole melliflue che non so pronunciare
senza provare scontento:
un arrotolamento di intestino a coccarda.
Custodisco nelle teche, in dono di donne,
quella brezza sinistra e traversa
che orna la sopravvivenza,
diserta le trappole
e declina gli inviti alle cene con commensali sgraditi.
Ho trecce indocili d’aglio.
Sono nata nel mese delle orchidee
nella notte della luna nuova: dicono sinistra.
Partorita di scarto
nel doppio can can della sorte.
Ho lasciato il tetto per andare coi lupi, nel bosco.
Mi tengo la maleducazione dei secoli,
questi capelli di raffa, le gonne sotto i talloni
e la malagrazia delle femmine folli.
Voi che potete e ne siete capaci, siate gentili.
Con me, siate chi siete.