Voci – Incursioni nella poesia contemporanea

a cura di Gabriella Grasso

 

Antonino Bondì. Osceno mobile (Oèdipus, 2019)

 

metafisica per il XXI Secolo

 

Adesso non puoi addormentarti sulle verità

se non dietro il sogno di facce distratte,

e nemmeno stornare lo sguardo

dallo spettacolo di un grattacielo in frantumi.

Lì, nella vertigine di una storia,

l’eco di genti ha sfiorato lo sguardo di un bonsai

che si annienta inebetito;

e altrove, fra diamanti, cadaveri e cascate

un volo di pellicani si mette a disegnare

una vecchia ombra di morte

sopra le terre più sbigottite.

Ci hanno fatto cenno di scappare

e cancellare le tracce dell’uomo

da una lavagna insanguinata in ogni modo.

Ma sogna di essere un tentacolo

la mano dell’uomo fra amore ed assassinio.

 

***

 

volto

Alzo gli occhi e punto in direzione di una nave

che si ingrassa addormentata nel porto.

E’ gonfia una scatola di parole

e fitta di segreti, consunti in un ingranaggio

d’elementari ripetizioni.

Respiro nell’asma straziante del tuo amore

e m’impunto su un dettaglio d’universo

idiota:

una goccia di pioggia,

un bottone di camicia

in corsa verso un tombino.

Allora punto i piedi in groppa a un sogno

a forma di stella filante,

mentre sento scivolare sulle tende

un odore agro che non riconosco;

e quasi quasi pure gli occhi scivolano

su uno stuolo mangiucchiato dal tempo

dove un veleno mai gustato s’allinea al desiderio:

trattengo il respiro che strazia d’asma

il tuo cuore non allenato.

Allora, timida e querula voce trasferita

al vano del silenzio, mi rivolto in uno spicchio

incomprensibile di mondo e assomiglio

– caricatura e rischio – a un muratore nomade:

le mie case si chiudono e si aprono

se c’è vento.

 

Valentina Calista. L’abbraccio che manca al giorno (Delta3, 2022).

 

La linea bianca 

C’è una linea bianca che traccio la sera

tra il buio della velocità fuori la porta

e labbra che non baciano più labbra né mani

che prendono visi o mani.

Fatemene una colpa se ho l’anima antica,

vecchia donna curva

che raccoglie sole e grano.

Di questi occhi ho fatto corazza

quando nella notte non ho di che difendermi

quando il sonno si ribella alle mie vite passate.

 

***

 

Che le cose che aspetti siano tue, sue 

Che le cose che aspetti siano tue, sue:

per tutte le parti della gola rimaste afone

per tutte le cellule del corpo mancanti d’aria.

Che le cose che ami siano tue, del creato:

per tutte le rollate d’aria sui campi riarsi

per tutte le fiamme del sole scagliate sui rami.

Lascia la lingua gettare sillabe

all’aria divampante il suono allo spazio,

al tempo superbo che sa tutto, anche l’Ora.

Lascia, lascia, lascia.

Che le cose possedute siano lasciate, abbandonate e

ritrovate nel cassetto delle sciocchezze.

Che le cose mai avute siano possedute e lasciate

dal pensiero, dal sogno e dal desìo che non tace.

E che l’aria sia l’unica vita nella vita.

 

Loriana D’Ari. Silenzio, soglia d’acqua (Arcipelago Itaca, 2021)

 

il ramo sussulta, stacca e plana la foglia

appena un dorato fruscìo. culla d’aria

la fine di qua dalla soglia

 

***

 

perdona voce bianca mia chiara

di luna nota d’ortica strinata

crepa, perdona verde linfa tra

i denti filo d’erba corda

tesa in eclissi perpetua di fiato

questo nodo scorsoio che stringo

e allento, l’estrema torsione

di abisso e canto

 

***

 

sei andata via, ma la voce resiste

e propaga infinita oltre la fonte

tutto il mistero della cosa viva.

per sempre rideremo dei capelli

arruffati, dirai per sempre a presto

dall’ultimo vocale, nell’azzardo

del respiro la piena dell’affanno,

prenderemo per vere le parole

 

***

 

ma se vedere è restituire

qui di te ogni cosa è salva

dov’è un lampo l’innesto

del suono, e ti sono

nel cono d’ombra appesa

ciondolando. sarai nido

di frontiera in ogni giuntura

 

Pasquale Pietro Del Giudice. Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019).

 

La manutenzione 

Sono vivo, un cantiere aperto,

una macchina usata, un mostro precario

civilizzato, puntualmente i peli mi rispuntano sul viso,

il sebo si accumula nei pori,

il mondo è la criniera di un cavallo,

ogni cosa necessita di manutenzione e del suo stalliere,

della sua lametta e del suo giardiniere,

di revisioni, di versioni, di una controllatina

ai freni, alla tenuta dei bulloni;

la vegetazione, le unghie ricrescono, la pelle decade,

ciclicamente sono necessarie

radiografie, controlli delle pompe

del sistema e del livello di putrefazione raggiunto,

è opportuno ridurre a ordine umano

la matematica delle sterpaglie,

più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi,

più perdi illusioni, più i tuoi gesti

si sommano negli errori degli anni,

hanno avuto incidenza, hanno ferito e perdonato,

hanno deluso e smentito se stessi.

Esposta alle intemperie e alla consunzione del tempo

la vita è un cadavere sezionato

dunque le cose muoiono con gusto

e ogni giorno implica lo sforzo

di tenere a bada il loro disfacimento,

la loro fuga, la loro tentata ribellione

rimandando la loro fine,

ritinteggiando le porte, i capelli e le pareti.

La manutenzione tiene sveglio il mondo

il suo bisogno di cure, morte che ci tiene in piedi,

che stimola, smuove a mettere in ordine la stanza

a usare le ore nel migliore o nel peggiore dei modi,

sperperando quello che resta in affronto al tempo

e a se stessi, costantemente ridare

senso dove si era dato senso,

nei rapporti sociali

nei propri spazi, nel cassetto

delle delusioni, opponendosi alla forza

centrifuga che mette in moto la macabra pantomima.

Bisogna immaginare Sisifo barbiere,

crollare è darla vinta alle liane, alle piante rampicanti

quando ti sommergono i piatti da lavare,

quando la tua casa si arrende

alla forza riassorbente dell’edera

e del muschio, delle erbe infestanti, dei nidi di ragno,

dei topi, delle formiche, dei rifiuti dei passanti.

 

***

 

Pattumiere 

L’astuccio degli occhiali, dei pastelli

il borsellino, il raccoglitore delle monete

dei trucchi e dei gioielli, bare

dove riposano ordinatamente le cose

buche, raccolte di comunità

tenute insieme da precise caratteristiche

che ne determinano la cerchia e la fratellanza,

i cassetti invece sono fosse comuni

di spaghi, biglietti, calzini

graffette buttate a casaccio, periferiche usb

cassettoni dell’immondizia a cui siamo destinati

noi buste di organi aperti e sezionati

dopo la morte, dopo un’autopsia, da una zip

un’incisione che lascia la cicatrice

supini sull’ultimo lettino

contenitori misti di liquidi, carne e ossa

per i cani che verranno, denti

che torneranno a battere, a spezzare

la parentesi di ciò che siamo stati,

scatolette di tonno, sardine parlanti

battibeccanti, appassionati di ingiurie,

foderi di pelle senza padrone

sputacchianti impuniti parole senza pudore.

 

Un ricordo di Giovanni Prosperi

di Ivana Rinaldi

(a cura di Gabriella Grasso)

Il 3 luglio 2021 l’artista, poeta e scrittore Giovanni Prosperi si spegne improvvisamente, nella sua casa di Roma, accanto alla sua compagna Ivana Rinaldi. Una partenza fulminea, che lascia familiari e amici attoniti. Inizialmente, per tutti, c’è solo un grande vuoto con cui fare i conti; poi, nei mesi, l’esigenza e il desiderio di godere ancora della presenza di Giovanni, mediante l’ascolto della sua voce e la condivisione della sua scrittura. Nasce così la volontà di incontrare una figura ricca e complessa del panorama letterario italiano, attraverso una conversazione con Ivana, nostra collaboratrice tra le pagine di Bibliovorax.

D- Cara Ivana, questi mesi senza Giovanni sono stati difficili per te. Cosa ti manca di più e cosa torna prepotentemente alla tua memoria? 

R- Domanda spiazzante, Gabriella. E’ sentirsi come un viandante nel deserto a cui manca l’acqua, ovvero tutto. Torniamo a terra. La nostra era una vita semplice, fatta di piccoli gesti quotidiani. Ecco: è la quotidianità che mi manca, i soliti gesti, i riti dell’esistenza comune, il sostegno reciproco, l’affetto, le lunghe discussioni sulla vita, la morte, l’aldilà, la politica, l’arte, le preoccupazioni del vivere che accomunano tutti. Una vita scandita da impegni e piccoli piaceri, una gita al mare, al lago, nei piccoli paesi del circondario e nelle Marche, qualche viaggetto, il cinema, una mostra, una cena con gli amici o i parenti. Non sono io a richiamare i ricordi, sono loro che si presentano in ordine sparso ma netti e precisi. Arrivano specialmente la sera nel tempo che precede il sonno.

D- Come ci descriveresti Giovanni, compagno di vita e Giovanni, intellettuale e artista? 

R- Non riesco a distinguere Giovanni compagno di vita e Giovanni intellettuale e artista. Era un unicum che metteva l’arte nella vita e la vita nell’arte. Non ha mai rivestito ruoli, la libertà era la cifra della sua esistenza e in lui si conciliavano perfettamente il sé e il fuori di sé. Aveva una mente androgina, la mente creativa per eccellenza, diceva Virginia Woolf. Tanto è vero, che era innamorato di “Orlando” su cui abbiamo lavorato insieme a un adattamento teatrale. Era predisposto per “natura” alla generosità e alla cura degli altri, capace di ascolto e di attenzione, profondamente buono, qualità che lo hanno fatto amare da tutti. Sempre felice di scrivere una nota o una critica per i suoi tanti amici artisti, di offrire la mano a chi amava e a chi ispirava la sua  simpatia ed empatia. Negli ultimi tempi osservava dalla finestra un senzatetto che dimora sotto casa nostra, per vedere se gli succedesse qualcosa. A Roma, dove si era trasferito dai primi anni del duemila, si faceva voler bene dai miei colleghi e compagni di partito, dai suoi amici artisti, dal parrucchiere, dalla farmacista, dal pizzicagnolo. Ha lasciato un ricordo indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociarlo sul suo cammino. 

Mi chiedi di Giovanni artista e intellettuale. Tutto per Giovanni era arte. Dalla cucina, ai piccoli lavori di restauro, ai libri usati e recuperati dalle sue mani con maestrìa e poesia. “Faremo arte con tutto”, motto che credo abbia ereditato dal suo maestro ideale Emilio Villa, con cui era entrato in contatto e del quale amava parlare spesso, specialmente del loro incontro avvenuto a Roma negli anni Novanta. La sua formazione intellettuale era sterminata; se per la poesia visiva si sentiva debitore di Apollinaire e Villa, i suoi riferimenti letterari erano Rabelais e Cervantes, per il teatro il suo “idolo” intoccabile Carmelo Bene. Le sue letture spaziavano dalla letteratura, alla filosofia, fino alla teologia. Negli ultimi anni era particolarmente attratto dalla storia delle religioni e dei miti: la sua biblioteca si era arricchita delle opere di Robert Graves, Calasso, Kerényi, Zolla, Frazer al cui Ramo d’oro si era ispirato per una delle sue ultime opere “Laggiù qualcosa per Bene”. Frequentava con assiduità la biblioteca di quartiere Giordano Bruno da dove tornava con i testi di Heidegger, Levinás, Derrida, Husserl, Wittgenstein. Si chiedeva, quasi ossessivamente, se la filosofia avesse ancora qualcosa da dire. Ciò che lo stimolava era la filosofia del linguaggio, una ricerca estenuante che lo sfidava quotidianamente nella creazione artistica. Non posso entrare nel merito della sua scrittura, non ne ho le competenze, ma ho assistito a “parti”, alcuni semplici, altri dolorosi.

D- Qual era il rapporto tra Giovanni e il nostro tempo? 

R- Un rapporto difficile, che si esprime in alcuni racconti e opere  teatrali, specialmente. Per Giovanni era centrale l’esserci, la sacralità della vita, la bellezza, mentre la storia dissacra la vita. La poesia e la scrittura segnano il suo saper stare in presenza del mondo:”La poesia è male incurabile e contagioso, sfonda le pareti contorte del labirinto, tende alla sanità e si autocura, forse non è perfetta, non ha l’autofarmaco, non è rimediabile, ma, il ma non manca mai: è.” (Giovanni Prosperi).

D- Cosa ti piacerebbe che si conoscesse di più dell’attività e della produzione di Giovanni? 

R- Mi chiedi cosa mi piacerebbe che si conoscesse della produzione di Giovanni. Io mi chiedo cosa piacerebbe a lui. 

Ci sono lavori a cui teneva particolarmente come lo studio dell’Angelo antropomorfo nella storia dell’arte. Un saggio ispirato al pensiero di Aby Warburg e dedicato alla sua forza e passione.  Avrebbe voluto continuare a lavorare per apportarvi “migliorie” e per vederlo pubblicato. L’unico che avrebbe voluto vedere in stampa.

Gli erano care anche le fiabe dedicate a sua figlia Martina. Non credeva invece che la poesia potesse avere uno spazio nell’editoria contemporanea, nonostante ogni occasione fosse buona per scriverne: su un conto di ristorante, una velina che ricopre le arance, un pacchetto di sigarette, un libricino creato da lui. Le sue poesie sono l’espressione che sento più vicina alla mia sensibilità, arricchite da un fiore, un coriandolo, un segno, un disegno, alcune semplici, alcune complesse, come la vita e come era Giovanni.

D-Ci salutiamo con alcuni testi di Giovanni a te particolarmente cari e con l’invito a scoprire il tesoro artistico e spirituale che questo autore ci ha lasciato.

R- Grazie Gabriella. Scelgo qualche verso inedito di Giovanni che ho pubblicato su facebook e che amo particolarmente.

 

Tu vai avanti

che il tempo

sviene

e

se lo porta via

la sirena dei ricordi

nella meridiana

del pendolo

o

del quarzo

.

(s. d.)

 

Anche nel più scuro

e acuto

dolore

vi è una scintilla

di felicità

che spacca l’angolo

e

illumina

l’estrema periferia

.

(s.d.)

 

Prova tu

a sognare

con passi zig zag

nel cuore.

E poi scendi

veloce

strette scale

pettinandoti

per un amore

nel passato.

Prova a stringere

una stella filante

per lanciarla in aria.

Prova tu ad avere

un ricordo cosi:

raro il sorriso

in quell’incontro

retto da soavi

ventate di timo.

Anima se oggi

ti inganni

dì al giorno

che converte

la notte

in alba

di prendere

il mio corpo

non dico in lui

ma appena

nell’alba

.

Venezia 1978

 

Piangendo e navigando,

onde

lieta la gioventù

cercava acqua

e accendeva fuochi

,

Sibilla

ecco il tempio

del decoro:

il labirinto che vola;

per un tributo

miserabile

ho tirato i dadi

con lo stile di una mano

che cede nel tempo:

offre il mistero

che nel monte

entra:

100 vie,

metà porte

e meno voci

per risposta

.

Ecco la soglia

e il dio

che compare

e muore

in volti

e colori

spettinati

fammi vedere

il tuo seno

!

Prima parte dell’opera “Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Tu che onori

Scienza e Arte:

onora il poeta

l’ombra sua

torna

sorridi

parliamo

di cose

che al tacere

è bello:

un prato

di fresca verdura

,

Toh

Ecco

!

Tutta la filosofia

che molte volte

al fatto

il dire

viene meno

e in molti

canti

si divide

 

.

Ultima parte di

“Laggiù una parte per Bene”

Roma 2015

 

Lettera a un numero

 

Piove a casaccio

senza luce e tono

alza almeno un braccio

di saluto

o

arresa

verrà il tutto a farti da sponda

E’ tempo di mettere ordine

nella credenza

dopo

nevica

grandine bianca

sopra numeri in palline.

scordati della periferia

delle pagine

mai arriverai alla fine

senza la decenza del caos

Roma, 2020

 

I giorni

se ne vanno

alcuni indifferenti

altri commossi

come la chiusura

di un libro

.

(s.d.)

Il “mandato dello scrittore”

 

Un ritratto di P.P. Pasolini- bibliovorax

Un ritratto di P.P. Pasolini

di Francesca Tuscano

 

 

Vorrei esser capito dal mio paese,

ma se non dovessi esserlo,

ebbene

sopra al mio paese passerò in disparte

come passa una pioggia obliqua.

 

Così scriveva Majakovskij, negli anni della crisi, prima del suicidio.

E così scriverà Pasolini, nel corso della sua crisi – che non lo avrebbe abbandonato mai, dagli anni Cinquanta fino alla morte, non meno tragica di quella di Majakovskij:

 

se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo

e ancora

La morte non è

nel non poter comunicare

ma nel non poter essere più compresi

 

Per Majakovskij, come per Pasolini, il ruolo del poeta è politico. Non ha senso scrivere, “comunicare”, se non si è capiti, perché essere poeta significa creare, con i propri versi, un dialogo e non un monologo

In tal senso, “comunicare” è amare, e il poeta, per Majakovskij come per Pasolini, scrive per il disperato amore che ha verso gli uomini, senza l’ascolto dei quali non ha senso la propria opera.

E non è un caso che Pasolini, nel corso della propria attività di artista e intellettuale, avrebbe avvertito l’affinità con il ‘cantore dell’Ottobre’, nella scrittura come nella comune sorte dell’esclusione, politica ed esistenziale, fino a sceglierlo (con Esenin, ma più di Esenin) come riferimento ideale nella ricerca di una nuova lingua per un nuovo teatro, ricerca politica e, dunque, stilistica (come era stato per Majakovskij, autore a sua volta di un teatro politico, che era stato la spina nel fianco della normalizzazione sovietica post-rivoluzionaria). Certo, nell’ambiente letterario comunista, Majakovskij – e il suo mandato – era stato un modello in quanto poeta della Rivoluzione, autore del poema su Lenin. Ma Pasolini non lo avrebbe amato per questo. La figura che lo attraeva non era quella fatta passare dall’apparato, ma quella formalista degli anni Venti, quella del poeta sperimentatore e nello stesso tempo (o proprio per questo) attento al mandato, all’essere, cioè, voce autonoma, autorevole e non dogmatica dei lavoratori, dei proletari. Un poeta, insomma, marxista, ma non stalinista. 

Jakobson aveva scritto, a proposito del mandato di Majakovskij:

L’attuale disunione, la contraddizione tra la costruzione concreta e la poesia, “la questione delicata del posto del poeta nelle file operaie” è uno dei problemi più acuti per Majakovskij. “A chi serve, diceva, che la letteratura occupi un suo angolo particolare? O occuperà tutto il giornale ogni giorno, in ogni pagina, o non ce n’è affatto bisogno. Mandate al diavolo una letteratura che viene servita come dessert.”

 

In fondo, questo affermava anche Pasolini, nel momento della crisi denunciata in Empirismo eretico (e in seguito, fino alla morte). Se il ruolo del letterato non è più centrale, perché il momento storico che lo ha generato non esiste più, non si può ignorare la crisi che ciò produce. L’arte non può essere un “dessert”, e perciò deve avere dei valori di riferimento, che trova nella realtà che “esprime”:

Ogni artista si adempie secondo un complicato e fitto reticolato di proiezioni che partono dal momento storico che lo determina e che egli conosce ed esprime: quando questo momento storico è zero, l’artista impazzisce: è in uno stato di confusione, o di pseudo-sicurezza su valori ormai superati.

Come Majakovskij, che aveva dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Rivoluzione d’Ottobre, così Pasolini avrebbe dovuto prendere coscienza della fine della spinta della Resistenza:

Le avanguardie riempiono di insulti gli scrittori tradizionali (impegnati), e chi gli risponde ha quasi sempre fatalmente torto. Nuove violentissime terminologie descrittive (la “tecnologia”, la “massa” ecc.) hanno preso il posto delle cognizioni in profondità dei problemi sociali secondo uno schema marxista tipico, ecc. ecc. Non c’è più una rivista letteraria autorevole che esprima il pensiero degli artisti di sinistra, molti dei quali cercano nuove formule d’impegno destinate all’assoluta impopolarità: altri dichiarano finito il mayakovskiano “mandato dello scrittore” (Fortini). (…) E’ finita (…) un’epoca storica – e ne comincia un’altra. Finisce l’Italia pseudo-nazionale dell’industria monopolistica, e comincia un’Italia nuova, che fonda la propria reale nazionalità sul reale potere dell’industria neocapitalistica e tecnocratica.

   

Dalla rivoluzione i poeti avevano “ricevuto il mandato di costruire realmente nel nostro tempo”, e Majakovskij lo avrebbe affermato fino all’anno della morte, il 1930. Così sarebbe tornato su questo punto, proprio nel 1930, in una conversazione tenuta a Mosca per i venti anni della sua attività:

Se oggi non sono nel partito, non perdo la speranza di fondermi un giorno con esso.

Questa speranza, che Majakovskij avrebbe perso insieme alla vita, Pasolini sarebbe stato costretto a perderla già a partire dall’anno della sua espulsione dal PCI. La “speranza di fondersi col partito” sarebbe risultata vana nel momento stesso in cui lo scrittore aveva affermato con più forza la necessità di creare un nuovo mandato. E a Fortini, che a sua volta cercava di trovare una spiegazione per la “fine del mandato dello scrittore”, Pasolini avrebbe indicato la strada che lo avrebbe condotto sempre più radicalmente verso lo scandalo, politico e scientifico – “la ricerca linguistica”:

Nella sede socio-moralistica in cui Fortini compie le sue indagini non sono abbastanza chiare le ragioni storiche di tale “fine del mandato”: forse in una sede neutrale e in qualche modo più scientifica qual è la ricerca linguistica, si può osservare meglio, a maggiore distanza, la serie delle causali.

 

Il mandato, (ossia la responsabilità del poeta che rimane “cittadino”), doveva essere ora sottoposto ad un’ideologia i cui strumenti cambiavano, o meglio si allargavano a scienze umanistiche che potevano leggere la realtà con il rigore dell’oggettività, e senza correre il rischio del dogmatismo e del moralismo (riflessione che avrebbe condotto Pasolini verso il Formalismo, lo Strutturalismo e Jakobson). Majakovskij, rivolgendosi agli amici formalisti dell’Opojaz, nel 1923, li aveva ammoniti così:

Il metodo formale è la chiave per lo studio dell’arte: Ogni pulce-rima dev’essere presa in considerazione. Ma guardatevi dalla caccia alle pulci nel vuoto. Solo con l’analisi sociologica dell’arte il vostro lavoro sarà non solo interessante ma anche indispensabile.

Majakovskij- bibliovorax

Un ritratto di Majakovskij

Proprio ciò che Majakovskij aveva chiesto sarebbe stato ciò che il secondo Pasolini avrebbe ritenuto fondamentale dopo la crisi del mandato – individuare un metodo “formale”, da applicare anche, metalinguisticamente, alla propria arte, senza dimenticare, però, l’esigenza di una parallela “analisi sociologica”, ancora più “indispensabile” nel pieno della Dopostoria. È così che l’impegno veniva equilibrato da un’attenzione umanistica verso l’arte, che impediva gli ingenui dogmatismi delle neoavanguardie:

Distrutto il “disimpegno” delle avanguardie dal nuovo impegno “attivistico”, pragmatico, delle nuove sinistre (i movimenti studenteschi), c’è ora il pericolo di un eccesso di impegno: ossia di quello “zelo” politico che può al limite definirsi come una sorta di insopportabile “neo-zdanovismo”.

Evitare l’impegno stalinista, senza rinunciare al proprio mandato, sarebbe stata dunque la scommessa di Pasolini, che, in quanto poeta, si sarebbe impegnato innanzitutto a riflettere sul suo principale strumento di lotta, la lingua, per combattere su due fronti – lo “neo-zdanovismo” delle avanguardie e il neocapitalismo. Entrambi i fronti parlavano (e parlano), infatti, la stessa lingua, tecnocratica, superficialmente sperimentale, omologante, massificante. La difesa della poesia popolare autentica, dell’idioletto jakobsoniano che diventava radicalizzazione del dialetto, la difesa, insomma, della lingua dei barbari sarebbe stato il mandato, antico e modernissimo, del poeta marxista, negli anni del Boom.   

Dal momento in cui sceglierà questa strada per affrontare la crisi, prendendo, conseguentemente, le distanze dalle neoavanguardie, Pasolini non potrà che rivestire il ruolo, autentico, di compagno di strada. La definizione trockista lo rappresenterà perfettamente, perché sarà ormai manifesta la sua volontà di continuare ad essere comunista (e fino all’ultimo anno di vita si dichiarerà tale), ma in una posizione radicalmente autonoma ed eretica. Pasolini continuerà ad essere un “compagno”, ma rifiutando categoricamente ogni apparentamento con lo stalinismo dei dogmatici. D’altronde, il ruolo del poeta, esattamente come aveva affermato con passione Majakovskij, è quello di “parlare proprio nel momento in cui il politico tace. Questo è il suo sgradevole, inopportuno, irritante apporto alla lotta.”

Non volendo rinunciare a “parlare”, Majakovskij era stato progressivamente isolato e messo nelle condizioni di non poter più esprimersi. E persino il suo suicidio sarebbe diventato argomento di condanna e di scherno (per i burocrati del Partito come per gli anticomunisti occidentali).

Pasolini, continuando ad esigere il diritto all’autonomia, in quanto poeta, avrebbe subito, (e continua a subire), attacchi feroci da parte di molti “compagni” dell’intelligencija di sinistra (così bene e spietatamente descritti in Petrolio). Accusato di dilettantismo, narcisismo, addirittura di fascismo, anche la sua morte, com’era successo a Majakovskij, sarebbe stata ridotta a logica conseguenza di un borghese bisogno di amore ‘proibito’.

Ma Pasolini – come Majakovskij, che tante volte aveva anticipato artisticamente il suicidio – aveva cominciato a sperimentare la propria morte a partire dalla fine del mandato:

Come un partigiano

morto prima del maggio del ’45,

comincerò piano piano a decompormi,

nella luce straziante di quel mare,

poeta e cittadino dimenticato.

VOCI – Incursioni nella poesia contemporanea

 

a cura di Gabriella Grasso

 

Michele Nigro – Pomeriggi perduti, Kolibris, 2019

 

Acqua di ritorno 

Adorava i temporali

estivi, tra sprazzi e lazzi

erano meme bagnati

su gambe scoperte

alla sua natura autunnale

dimenticata tra eccessi di

sole e promesse di viaggi.

Ora le campane chiamano

all’ordine di civiltà domenicali e

tuoni ribelli e grondaie impreparate

ad acque inattese alla vita ormai persa

che scorre nel mare calmo

della morte che accoglie,

sperando di ritornare

giovane umidità

e nuvole

e di nuovo pioggia

tra i vivi di domani

 

*

 

Poesia a sua insaputa 

Non sarà ora che le vedrai

mentre ti chiedo di leggerle

ma in un giorno qualunque

venute fuori per caso, a dorso di libro

da pagine cadute in terra

riverse a mo’ di mort’ammazzati

e aperte sulla fatalità

di un attimo tra tanti,

ritornerai su parole ignorate

come è normale che sia

da rimasticare

eppure sempre presenti

tra pazienze impolverate

e le cose da fare

senza pretese, a sperare di essere

se stesse, nient’altro che verbi d’anima

amate per quelle che sono

umili

silenziose

già eterne a loro insaputa.

 

*

 

Palestra di vita 

Non credo più nei riti

musicati del fitness

effimeri miracoli

in mostra al sabato sera,

il corpo modellato

dalla vita

dal dolore ben portato

da scelte coraggiose

a lungo andare incise

lì dove conta,

mappe graffiate sul volto

nel timore di perdersi

tra le vie

di una finta bellezza,

è come un libro

letto e riletto, unto, macchiato trascritto,

abbandonato strappato,

da qualcuno amato sottolineato

sfogliato dal vento

di nuove avventure

che sommate alla storia di altre pelli

cadute e rinate intaccano inattese

l’adipe convinta

della premorte in divano.

Siamo tutto quello che viviamo,

e la carne

in silenzio

lo sa.

 

 

 

 

Roberto Crinò Ineffabile mutazione, Ensemble 2019

 

E’ tuo dovere

E’arrivata

la bella stagione

l’ho vista passeggiare

stamattina

baciata

dal sole e dalla leggerezza,

teneva in un lembo

di stoffa,

dondolava, saltellava,

libera, incantevole

com’è suo costume,

sapeva di frutti

promesse,

profumava di gioie,

speranze.

Stamattina la vita

s’è cambiata d’abito

per celebrare

un nuovo inizio.

Mi hai guardato,

un sorriso,

mi ha detto

“E’ tuo dovere”

 

*

 

Check Point 

L’anima ha una linea di confine

una linea di demarcazione,

una frontiera che non può

essere oltrepassata a piacimento,

perché essa non è terra di conquista.

 

Nessun’anima è suolo di calpestìo

per saccheggiatori e vandali

e non è colonia di eserciti

dalle scintillanti fallaci armature.

Si passa solo con trattati di pace.

 

Ugo Mathuè Il silenzio non tace, Ensemble, 2019

 

c’è l’assenza di peso

d’ogni passata stagione

 

calendario di atti

unici come ogni atto

 

c’è il loro greve sipario

sceso senza discrezione

 

*

 

infiniti sono gli dei

infinito è il disamore del mondo

 

*

 

il mio miglior nemico sono io

io che mi do del tu

 

*

 

dimmi tu da cosa sono preso

forse da senile spreco del vivere

oggi che mi sento stranamente febbrile

 

*

 

terza quintetà

seduto su una sedia

guardava il passato

senza esserne ricambiato

 

Nunzio di Sarno – Mu (Oèdipus edizioni 2020)

 

Rimetto ogni immagine

Al vuoto

 

Perdono

 

Nel vuoto mi perdo

Non un dono che perdo

 

*

 

A una procidana 

Il mare

Del primo contatto

A cui non posso

Che ritornare

Lo trovo in un particolare

Mio palpitare

Al di là di spazio e tempo

E ciclico incespicare

Come ciò che ci lega

E non si può

Tagliare

 

*

 

Capodanno 

Spaghetti di riso

Verdura e spigola

In piatti vecchi

Su una tovaglia

Stinta

 

Ancora

Malesseri condivisi

Di una famiglia nuova

E un fratello acquisito

A compartire

 

Soli

In quattro stanze

Chi cerca di risplendere

Chi di non morire

Solo

 

Ognuno

A disagio con la forma

Si accosta cauto

Al fuoco

 

Chi si accontenta del calore

Chi si abbaglia alla luce

 

Pochi

Disposti

A bruciare

Avranno

In cambio

Cenere

 

 

 

 

L’amore che canta. La poesia di Lucianna Argentino

 

 

di Gabriella Grasso

Un’esperienza così pervasiva come l’incontro d’amore genera poesia in forma di canto, rendimento di grazie, lode. E’ quello che avviene nel penultimo ultimo lavoro di Lucianna Argentino, autrice romana, dal titolo In canto a te, edito per Samuele Editore nel 2019. Canto, amore e dono sono, del resto, realtà legate a doppio filo, come ci indica Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso: “ Ciò che io dono cantando è al tempo stesso il mio corpo (attraverso la mia voce) e il mutismo di cui tu ti servi per colpirlo. (L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare). Il canto non vuol dire niente: perciò tu sentirai che finalmente io te lo dono; inutile quanto può essere il filo di lana o il sassolino che il bambino porge alla madre”.

L’incontro da cui scaturisce il canto di Lucianna Argentino è quanto mai singolare, poiché avviene tra un uomo e una donna che avevano vissuto una relazione negli anni dell’adolescenza, si erano poi persi di vista, per ritrovarsi in età matura, disorientati, sgomenti dalla forza che il loro amore possiede ancora intatta. Ne nasce un testo composito, in versi nella prima parte (con qualche pagina di prosa), con andamento narrativo nella seconda, dal respiro ampio, arioso, denso di riferimenti biblici e letterari, tessuti in un ordito personalissimo, struggente, evocativo di un’esperienza interiore profonda. Corpo, mente e spirito sono coinvolti, in modo indistinguibile, in un flusso che ha i tratti di un iter mistico e di un’esperienza totalizzante, a cui, nonostante le resistenze iniziali, è impossibile opporsi.

Tutta la scrittura di Lucianna Argentino dialoga con le Sacre Scritture, non solamente negli inevitabili echi del bellissimo Cantico dei Cantici, ma nel costante richiamo a precisi campi semantici o a episodi evangelici: da un lato parole come “agnello sacrificale”, “tempio”, “offerta”, “aspersorio”, “gazzella occidentale”; dall’altro la rivisitazione delle Beatitudini alla luce della relazione d’amore, l’immagine di lei sulle spalle di lui, come Zaccheo sul sicomoro, o lei che tocca un lembo dei vestiti di lui, come nell’episodio dell’emorroissa. Ancora una volta, l’idea sottesa è quella del contatto come occasione di guarigione, di crescita: “Toccami / ricreami l’anima con le tue mani”.

Altre volte il richiamo al codice della preghiera diventa occasione quasi di un capovolgimento di segno, come nella “parafrasi” sensuale dell’Atto di dolore, assurta a rivendicazione del diritto alla felicità dell’amplesso: “Non mi pento e non mi dolgo del puro peccato / commesso tra le sue gambe di maschio / capace di farmi tenera e audace”. Non mancano, infine, suggestioni pagane in immagini forti: “ Strega folle brucio sul rogo del suo corpo / sfavillo felice sotto il crepitìo delle sue mani”.

Siamo nella festa del “desiderio goduto”, come lo definisce ancora Barthes: “così come avviene nel canto, nel proferimento dell’io-ti-amo, il desiderio non è né represso (…), né riconosciuto (…), ma semplicemente: goduto”. La duplice – ma, a pensarci bene, non contraddittoria – natura dell’amore è espressa del resto sin dalla scelta dei due esergo, che citano Goliarda Sapienza e la mistica Angela da Foligno.

Un’altra direttrice su cui si muove la riflessione dell’autrice è quella dello spazio-tempo, dilatata e allo stesso tempo annullata dalla dimensione dell’attesa, quell’attesa feconda, non sterile, che prepara all’incontro profondo: “ (…) offro in sacrificio la decima del mio coraggio / per il riemergere di lui dalle carni /– dannazione e salvezza – / a testimonianza dell’indivisibilità di spazio e tempo / per me che l’ho aspettato / confidando di conoscere la mia verità attraversando la sua. / Guardando negli occhi gli occhi opachi del suo passato, / mentre mi cresceva lontano, ma già veniva, già si avvicinava. / Ma non finiva – mai finita – / l’attesa di lui che mi possiede”.

La seconda parte, denominata “Il poema della luce (o il teorema della ricorrenza)” svolge, in versi lunghi dal tono narrativo, il tema dell’incontro tra gli amanti, che saldano la “slogatura del tempo” e si comunicano – in un dialogo intimo che avviene con se stessi, prima ancora che con l’altro – dubbi, remore, aperture, consapevoli della gravità del passo: “qualcuno ne soffrirà, si disse”.

Lo slancio passionale e mistico della prima parte qui si compone in una conversazione vibrante, sussurrata, in riflessioni che spingono l’uno nelle braccia e nella vita dell’altra: “Si confidarono dal margine di quella stagione accesa dal destino o fu questo, colluso col divino, a cambiare la loro linea d’universo? Lascia andare il rimpianto, lascia che cresca lontano da noi e poi torni e di noi faccia corpo materno, le disse lui, pensando a quante soglie non attraversate penavano il loro nitore, orfane di passi”.

Non c’è  spazio per paure e ripensamenti: l’amore diventa occasione di vita, cammino di conoscenza di se stessi, dell’altro, del mistero dentro ogni personale percorso. Sarà scoperta di una sensualità ancora vivida, feconda di fantasie e di frutti da offrire all’amato; scoperta di quell’audacia che genera libertà e costruisce sapienza. Sarà coscienza felice della propria e altrui fragilità, da scambiarsi tra amanti, come il dono più bello, “perché ne nasca una parola prima della parola – la rincorsa del cuore – lo sperpero del sangue – l’esercizio dei sensi”.

 

 

Alcuni testi

 

Dalla prima parte

C’è voluto tutto il tempo e una gelosa cura

perché il giorno in lui trovasse la sua voce

e una grazia acerba lo battezzasse col suo vero nome

vero sì, ma distante ancora.

Ancora nell’avvenire, ancora dove lo vorrei

pelle del mio abisso e di sconfinati dubbi pregarlo:

toccami, ricreami l’anima con le tue mani,

il corpo con il tuo sguardo; rendimi il tuo genitivo

di pertinenza, cambiami la desinenza.

 

*

 

Metto la mano sinistra sul suo petto

giuro che sarà sempre verità

l’amore cresciuto nell’attesa,

dall’attesa redento.

E sento gentile il gesto del nostro amarci

se per noi più dolce è il tempo

privo dell’affanno del fare:

tempo ordinario, senza freccia,

così commutano in noi vita e passione

e il raggio verde di questa luce mite

è soltanto l’aurora.

 

*

 

Io sono l’agnello

e lui la lama cui offro il collo

il coltello per il sacrificio

a un dio che dimora nel mio ventre.

 

*

 

Dopo, quando nudi e abbracciati

non so dove finisco io e comincia lui,

il battito del cuore è silenzio

che prende lezioni di dizione

dal corpo stupefatto.

 

*

 

Pensami vicina

come un sentiero

sciolto dalla meta

buono per i lombrichi e le api

e per i passi di angeli

senza annunci.

Ora che sono per te

colei che moltiplica

e ho l’andamento

dei verbi all’infinito.

 

 

*

 

Non hanno lettere le parole

che le sue mani tracciano sul mio corpo.

Sono fuoco aria acqua terra elementi primi

di ciò che nasce e si separa

– quadruplice radice di ogni pensiero

che in noi si fa carne incorruttibile

e gioca con la sana imperfezione del tempo

– noi sfera dell’universo in espansione

nella materia oscura del nostro domani.

 

*

 

Non mi pento e non mi dolgo

del puro peccato commesso

tra le sue gambe di maschio

capace di farmi tenera e audace –

mai docile sotto l’aspersorio

con cui benedice e lacera la passione

che di lui avvince me

che dal suo corpo torno

come il grano dopo la trebbiatura.

 

*

 

Geometria non euclidea

 

E non è bastato toccarsi, abbracciarsi, c’era la gravità del vuoto a inter-ferire sulla superficie curva del cuore dove la geometria euclidea non s’avvera e il primo postulato enuncia che l’amore è la distanza più breve tra due solitudini, ma solo se sanno di esserlo. Solo se non stanno l’una di fronte all’altra come semplici presenze, ma si riconoscano mistero nella reciproca ospitalità.

 

 

Dalla seconda parte

 

Che dici è grave se ti penso? le scrisse lui. Spero di no perché ti penso anch’io, gli fece eco lei sgomenta dei cigolii sospetti nella struttura intera della sua biografia.

 

*

 

Alle spalle di lui le folaghe nel lago mescolavano luce e acqua, ne facevano un’unica sostanza e lei assaporava la bellezza di quella danza in accordo con quanto le vibrava dentro. Qualcuno ne soffrirà, si disse.

 

*

 

Lascia che io dimentichi ciò che senza noi non è stato, veglia sul mio sonno e poni rimedio al danno, pregò lui il dio degli incompiuti. Ti aiuterò a dimenticarlo, ma non te lo lascerò scordare, offrì lei il suo corpo terreno per la cova di quel miracolo (…)  Aggiungeremo giorni ai calendari, moltiplicheremo i pani e i pesci della nostra devozione, ci basterà una fede piccola quanto un seme di sesamo, disse lei sporgendosi nel verde degli occhi di lui.

 

*

 

s’avviarono così, con una corrente di risacca alle caviglie, lungo un’altura ancora senza nome ma, istante dopo istante, battezzata da una luce futura e in quel cammino di poco lui la precede e senza guardarla le tende la mano.

 

 

 

Tre domande a Lucianna Argentino

 

Quanto dell’esperienza biografica dell’autore è presente in un’opera come questa e quanto la trascende?

In “In canto a te” c’è molto della mia esperienza biografica così come c’è anche negli altri miei libri perché credo che non si possa prescindere da questa. Siamo esseri incarnati in un dato tempo storico, con una data storia famigliare, con un dato percorso di vita e quindi ciò che siamo non può restare fuori dalla poesia, vuoi anche solo per i temi trattati o per lo sguardo con cui guardiamo al mondo. La poesia penetrando a fondo nella realtà nostra, interiore, e in quella del mondo che ci circonda e che è in relazione con noi, la trapassa e trapassandola ne rivela l’essenza che a sua volta ne svela la bellezza. Ce ne offre un’ immagine nuova, inedita e la trascende in forza del suo stesso essere un gesto potente che del mondo e di noi ci mostra il volto più vero attraversandone tutte le ombre. Il nocciolo della questione direi che è più nel linguaggio attraverso il quale la nostra personale esperienza viene tradotta nella pagina e nel coraggio di penetrare nel profondo di sé stessi, là dove il nostro io incontra l’io collettivo – il noi del mondo. In “In canto a te” sono stata aiutata dall’amore perché anche l’amore, come la poesia, è uno spogliarsi di sé per raggiungere e accogliere l’altro. L’amore è un sentimento universale e unito alla parola poetica ci fa scendere nelle profondità dell’essere dove non c’è più distinzione alcuna tra noi e il mondo, tra l’io e il tu.  Inoltre, nonostante l’oggetto dell’amore sia un tu che ha un nome e un cognome, in fondo non è mai un tu ben definito, credo, infatti, che quando si scrive d’amore ci si rifaccia ad una immagine ideale dell’amato o dell’amata – o dell’amore stesso – che per questo diviene universale. L’amore e la poesia sono di per sé un trascendere.

 

Esiste una diversa esigenza (psicologica o di scrittura) a monte della scelta di distinguere formalmente le due parti del libro?

Le poesie e le brevi prose che compongono la prima parte del libro sono state scritte quasi tutte tra il 2014 e il 2015 quando ero nel pieno dello sconvolgente stupore che l’amore, la passione, avevano portato nella mia vita e dal quale la poesia sgorgava mio malgrado, per cui la scrittura non è stata un argine, ma uno spazio immenso e libero in cui quel sentimento ha trovato la sua piena espressione. “Il poema della luce” è nato dopo, con l’intento ben preciso di raccontare cos’era accaduto e ha ragione Daniele Piccini che mi ha detto che “Il poema della luce” avrei dovuto metterlo all’inizio perché in effetti è una sorta di prologo anche se cronologicamente è stato scritto dopo. Ma  la tensione psicologica e poetica è la stessa.

 

Possono l’incontro e la conoscenza nell’amore considerarsi una sorta di “itinerarium mentis in deum”?

Certamente sì! E certamente è un tema immenso che necessiterebbe di molte pagine. L’amore è un’esperienza travolgente e sconvolgente che come l’esperienza mistica ci può condurre all’estasi, ossia allo stare fuori di sé, all’uscire da sé stessi quindi può essere uno stare tutto nell’altro/Altro, un annullamento di sé per ritrovarsi nell’altro/Altro. Insito in esso c’è, infatti,  il desiderio di fusione con l’essere amato quasi per riappropriarsi della totalità che si perde nascendo. E il primo passo è la nudità, Marina Cvetaeva diceva che amare è vedere l’altro come Dio lo ha fatto e Dio ci fa nudi anche perché, come invece scrive George Bataille nel suo bel saggio “L’erotismo”, la nudità è uno stato di comunicazione e, aggiungo, di ricerca e di apertura alla totalità. L’amore è un percorso dentro noi stessi che sfocia inevitabilmente nell’alterità, è la promessa con cui rispondiamo al dono della vita. E io credo che quando si ama nella sacralità del corpo e del cuore l’io e il tu possono veramente essere il nucleo di un amore che si apre al “loro”, al “noi” perché siamo tutti dentro lo stesso mistero.

 

 

Un serissimo gioco. La poesia di Viviana Viviani.

 

di Gabriella Grasso


 

Difficile pensare qualcosa di più serio di due temi, comuni a tutti, essenziali, quali l’amore e la sopravvivenza. Difficile immaginare di parlarne attraverso la poesia con un tocco che, senza banalizzarli, può definirsi leggero ed incisivo allo stesso tempo. È quanto accade nel libro di esordio (poetico) di Viviana Viviani, “Se mi ami sopravvalutami”, edito da Controluna nel 2019 Nelle due sezioni, intitolate appunto “Amore” e “Sopravvivenza”, l’autrice scandaglia con acume e disincanto le complesse dinamiche dei rapporti interpersonali più importanti – di coppia, tra amici, tra genitore e figlio – in continua oscillazione tra un forte senso di empatia, soprattutto con i più deboli, e profonda solitudine. Con un atteggiamento mi verrebbe da dire infantile, in quanto scevro da sovrastrutture e contorsioni mentali (non perché non li conosca, ma perché ne è oltre), Viviana Viviani guarda e sente i movimenti degli altri e i propri nella loro essenzialità e, probabilmente, nella loro verità.

L’andamento della scrittura è quasi prosastico e colloquiale, ma ciò non esclude il dominio che l’autrice esercita sul testo dal punto di vista metrico e stilistico. Il tono e lo sguardo al tempo stesso divertiti e malinconici ricordano certa poesia del primo Novecento, catapultata in contesti fortemente connotati dalla nostra contemporaneità, dai suoi riti e dai suoi feticci.

Gli esseri umani in questi versi sembrano usare lingue differenti e parlarsi dai loro gusci, ermeticamente chiusi. I dialoghi sono spesso tragicomici tentativi unilaterali :Se ci fosse una vita di scorta / starei appesa ai tuoi discorsi /inconcludenti e al tuo sorriso / saccente mentre dici weltanschauung / Ma ho una vita sola / e devo lavorare”. Parole e gesti di un teatrino di falsità, tanto tra amanti : “Ridi e parli di suicidio / e decomposizione / sorseggiando una birra, / bello come il sole / Poi te ne vai leggero / come un aquilone / lasciandomi qui / con la tua disperazione”, quanto tra amiche: “ Le amiche perdute / non si salutano al supermercato /poi s’incontrano per caso / a un matrimonio o un funerale / scambiano parole civili / ma non si sanno più”.

Il filo rosso della solitudine e dell’incomunicabilità, raccontate con ironia ma senza sconti, percorre tutto il libro: è dietro gli schermi di computer che quasi la presidiano, nel vissuto delle “vecchie signore” e del mendicante  di strada,  persino negli oggetti, come accade nel delizioso  “La giovane stampante e il vecchio calamaio”, che racconta un improbabile incontro d’amore tra due strumenti di epoche diverse.

In bilico tra consapevolezza a tratti quasi cinica e delicata immaginazione, l’autrice disegna quadri in cui ogni cosa parla di libertà e di inevitabile condizione di solitudine, come in “Gregor non si fa prendere”, dove il ragno sfugge alla cattura e alle definizioni che lo costringono. Altre volte la poesia mette a nudo le contraddizioni di un mondo bizzarro e iniquo, di moralismi di facciata o epidermici, prêt-à-porter.

Con la stessa lucida onestà, l’autrice esprime il tormento di instaurare un dialogo con se stessi, con la paura di crescere, con la difficoltà di raccontare le proprie ansie: “qualcuno dirà che non conosco la morte (…) Il dottore dice sempre / tutto bene solo ansia / ma io sento che il mio corpo / mi insegue per uccidermi”.

Sono testi che ci interpellano su un nodo profondo: il bisogno di essere visti,  in un mondo di performance, di etichette e di maschere, per quello che si è, nell’incontro che è stupore e gratuità: “tu indossami senza provarmi / comprami senza garanzia / se mi ami sopravvalutami”

 


 

Alcuni testi

 

Non mandarmi il tuo c@zzo in chat

 Non mandarmi il tuo cazzo in chat

che ancora non ho navigato

le lunghe vene delle tue braccia

né attraversato fiumi

camminando sulle tue vertebre.

 

Non ho sovrapposto le impronte digitali

per vedere se si assomigliano

e nemmeno disegnato ghirigori

tra le nocche delle tue mani.

 

Non ho contato una ad una

le tue ciglia nel sonno

o soffiato parole audaci

nel labirinto delle tue orecchie.

Non ho ancora cercato l’orsa maggiore

tra le costellazioni dei tuoi nei

né dato un nome a quelle senza nome

sulla volta della tua schiena.

 

Non conosco le risse

dietro le tue cicatrici

e non so se odori più di bosco

di biblioteca o di autogrill.

 

Non mandarmi il tuo cazzo in chat

o finirà tra i tanti cazzi senza storia

che vivono nelle chat

spade di pixel sguainate nel nulla

non voglio sapere la sua solitudine

prima di conoscere la tua.

 

 

 

*

 

Il mendicante ha un dobermann

 

Il mendicante ha un dobermann,

mi guarda mentre dorme

cammino più veloce

sulla strada dell’ufficio.

La collega lavora bene

tra le gambe del direttore,

avrà un contratto migliore

io più lavoro arretrato.

Lui dice che non mi ama

ha un’altra più felice

ma cedo alle sue urgenze

quando è stanco di allegria.

La mia amica è buona

mi odia se non piango

per chi annega e brucia

nel TG del pomeriggio.

Il mendicante è un dobermann,

se solo mi avvicino

mi sbrana di pietà.

Un euro a un lavavetri

colpo di straccio al cuore

pulisce anche le colpe

di cui sono innocente.

 

*

 

Se mi ami sopravvalutami

 

Se mi ami sopravvalutami

non cadere nell’inganno

di amarmi per quello che sono

sono stanca di faticare

di dovermi sempre impegnare

tu indossami senza provarmi

comprami senza garanzia

se mi ami sopravvalutami

sii bello e condannato

un premio estratto a sorte

un premio immeritato

 

*

 

Gregor non si fa prendere

 

Stasera c’è festa

nella nostra vecchia casa

con invitati stirati di fresco

che bevono finti alcolici.

Parlano di fisco e stelle

tutti a misurarsi

a fare drammi in soldi, in anni,

in chilogrammi.

Io bevo acqua passata

e mordo un po’ di polvere

guardando sul soffitto

il ragno cui desti un nome;

dicevi: “mai uccidere un ragno”

li portavi fuori con delicatezza

ma Gregor non si fa prendere

e non so ancora perché

chiamavi amore una bugia

e davi ai ragni

nomi di scarafaggi.

Gli invitati se ne vanno

uno a uno due a due.

Solo Gregor rimane

non lo vedo ma so

che lo ritroverò sulla carta igienica

o dietro il quadro di tua madre.

La casa ora è vuota;

esco sul balcone

faccio bolle di sapone

e una

diventa la luna.

Echi e persistenze nella polvere. La poesia di Guido Mattia Gallerani

di Gabriella Grasso

La poesia è epos dalla notte dei tempi: attraverso l’energia della parola intreccia trame di popoli, il noto e il mistero delle loro vicende. Oggi questa vocazione epica sembrerebbe scomparsa e forse, per molti motivi, improponibile. Potremmo ritrovarla, in chiave nuova e problematica, in alcune opere che illuminano aspetti critici della convivenza sociale nell’epoca post-industriale e digitale, quali la mercificazione e la spersonalizzazione dei rapporti, la precarietà delle condizioni economiche, lo squallore degli ambienti urbani, il carattere aleatorio degli spazi digitali.

Di contro, la poesia proposta da Guido Mattia Gallerani nel suo ultimo lavoro, I popoli scomparsi, edito da Pequod nel 2020, sembrerebbe riallacciare i fili dell’epica tradizionale. Non è del tutto così, come vedremo.

I protagonisti della lunga incursione che Gallerani compie nel passato, a ritroso nel tempo, sono gli antichi popoli succedutisi in aree ed epoche diverse e di cui, spesso, sono rimaste rare tracce. L’autore ce ne offre rapidi quadri, excursus che si coagulano attorno ad elementi salienti, caratterizzanti. Si parte dall’uomo di Neandhertal, con un esordio che la dice lunga sull’angolatura scelta dal poeta nel presentare lui e gli altri compagni della specie umana: “Si credeva la creatura più speciale, / ma era solo il più giovane / tra gli abitanti effimeri del mondo”. Il suo destino appare quasi ridicolo: “Da cacciatore a vittima, dietro le teche di un museo”. Si prosegue con le prime civiltà, scrigno di misteri e di graduali conquiste, puntualmente  travolte dal movimento dialettico dell’apparire e della dissolvenza.

Quello che Gallerani mette in luce, con raffinata ironia, resta sempre il carattere effimero, transitorio di ogni acquisizione, la labilità di ogni traguardo. I Sumeri “non ebbero epiteti al loro nome / poi che il sole tramontò oltre le foreste dei cedri. / L’onda increspata dell’immortalità / non bagnò la loro fronte”. Gli Hyksos furono ingoiati dall’imbuto del tempo: “senza coltivare una memoria / lasciarono il campo a una nuova rivolta /  e così come vennero senza incontrare resistenza / senza flettere la linea del tempo /  saltarono l’ostacolo, tornarono nel nulla  / da cui nacquero”

’ una vis interna alle dinamiche della storia, cancellatrice, che non risparmia nemmeno gli animali: “pur anch’esse in predicato di estinzione, / rapide nel tuffo ancora / s’inabissano le foche”. Talvolta il gioco perverso del caso si serve di qualcosa di invisibile, un batterio, come nel caso di Harappa: “Ma prima di precipitare nel clinamen / dei popoli scomparsi nell’Indo / avvenne la loro spoliazione / in un batterio. Perirono così, aspettando il bisbiglio / della pioggia e che le bolle del vapore / s’involassero, centellinassero dal cielo / un raggio di sole, / una bugia / sulla fine dell’epidemia”.

Un ritratto dell’autore Guido Maria Gallerani

Dei popoli si perdono i manufatti, le iscrizioni, la voce e i pensieri ad essi sottesi: “Ne sparì la voce e la scritta / con qualche chilogrammo di oggetti lavorati”, “Capitolano dalle arcate dei portici / i nostri come i loro voti e giudizi”. La polvere sollevata dalla storia travolge uomini e idee, corpi e parole. Si succedono imprese e sorti alterne, dubbi, fedi, responsi : “mentre i popoli più poveri (…) già attendevano ormai corrotti / una fede altra dagli oracoli”.

L’incontro-scontro con l’altro, che provoca la fine e il mutamento, non avviene necessariamente tra etnie: in gioco possono esserci gruppi sociali o categorie (di lavoratori, ad esempio i barilai, o di costume, come i punk) che subiscono il confronto con nuove realtà emergenti e le inevitabili novità che ne conseguono: “Sopravvissuto alla macchina fordiana / finì in distilleria qualche anno dopo il cooper, il mastro barilaio /(…) Sarebbero arrivate le industrie dei vuoti in bottiglia / per lui e la sua famiglia”(i barilai); “volendo annunciarne la fine, negli anni ’80 / divennero i cattivi di tutte le anime del progresso” (i punk).

Parallelamente, nuovi paesaggi sconvolgono gli antichi, inesorabilmente: “Erano un grattacapo a latere le pagode, una disarmonia per le vette di grattacieli – uno sbaglio cancellabile dalla gomma dei bulldozer”(Rohinga, Birmania).

In questo percorso, la parola poetica rappresenta il tentativo di riportare il passato in vita, forse, ma può farlo solo in termini di antilirismo, di narrazione disincantata. Certo, la ricostruzione puntuale e dettagliata genera nel lettore la sensazione di un viaggio nel tempo, esaltante. Tuttavia, è proprio la scelta di quegli elementi attorno a cui si sviluppa ogni quadro a rivelare l’originalità e l’atipicità (rispetto al genere letterario) dello sguardo del poeta. I popoli scomparsi, lo dice già il titolo, si sono succeduti, scalzati o sovrapposti, comunque inceneriti dall’incedere impietoso del tempo e dal gioco delle parti, mostrando le proprie fragilità.

Ieratici se visti da lontano, come l’epica classica e la storia ce li hanno sempre fatti vedere; incoerenti, a tratti bizzarri, instabili se visti da vicino, come accade leggendo questi testi.  Unici se considerati singolarmente, simili nelle loro debolezze, se visti nella cordata del cammino dell’umanità.

Popoli scomparsi, mentre cancellato – nella polvere della storia – appare ogni confine, strenuamente difeso, ma, in fondo, banalmente riduttivo. Come ogni tassonomia che ci riguardi, del resto.

 

 

 

 

 

Alcuni testi

 

 

Uomo di Neanderthal

 

Si credeva la creatura più speciale,

ma era solo il più giovane

tra gli abitanti effimeri del mondo.

Nelle steppe spiluccava le bacche,

collezionava gemme colorate

accompagnato dal mugugno delle scimmie.

Ben prima della nascita dei miti,

fuggiva dietro le sue frecce

l’orso bruno, il Grizzly.

Velocemente la terra si raffredda,

le risorse decrescono e induriscono

di promesse. Uscito indenne

da un’altra glaciazione uno più intelligente

avvolto dalla corteccia cerebrale

avanza al riparo, acclimatato alle foreste.

Smise di mettere su bivacchi

al di là del vallo alpestre

e di comunicare cogli antichi gesti.

I fratelli lo abbandonavano,

lo guardavano con la famiglia scemare

anno dopo anno, separandosi solitario

dalla protezione del fuoco.

Da cacciatore a vittima,

dietro le teche di un museo

raffermo nella sua requie

di cera e tende di cartone

solleva compassione

nei visitatori. Nessuna parola

dalle sue vittorie, né leggenda

per un’anima preumana e impaurita,

con la sua cena ancora lì

lontana un passo nel diorama,

imbalsamata nella formalina.

 

*

 

Gli oracoli

 

L’oracolo spezzò i cieli, le nuvole,

le migrazioni del falco col bastone.

Se vedeva uno scorcio nel sereno

alle sue parole seguiva un fuoco,

un bagliore che avvertiva le torrette

in riva al mare e la legione.

Non accettava rimproveri

qualora il fato si mettesse di lato.

Ma ogni destino si svela al seguito

di un’orda ignota e del suo esodo.

Quando ritornò a volteggiare sulle teste

dalla cresta intangibile dei monti

il viaggio ingannò gli interpreti

del verso e solo vaticini ambigui

preservarono la città dalla follia

mentre fuori dalle porte abbandonavano

i popoli più poveri, che già attendevano

ormai corrotti una fede altra dagli oracoli.

 

*

 

 

I punk

 

Incerti tra il babelismo verticale

delle chiome e una scapigliata

fluorescenza delle tinte

andavano alla mascherata compatti

nel combattuto chiasmo del vestiario.

Portavano la cresta viola

come i cavalieri romani

e i corazzieri italiani.

Repulsione destavano

all’entrata nell’aula

davanti ai giudici in toga.

Volendo annunciarne la fine,

negli anni ’80 divennero i cattivi

di tutte le anime del progresso.

Accorpati alla classe dei nemici

a uno a uno li cacciarono

dal teatro urbano, molti ne dilaniarono

i dobermann dell’unità cinofila.

Furono fatti esplodere in bulbi di luce venosa

dai pugni e dai calci

di Ken il guerriero.

Vennero investiti da Mad Max

sulle strade australiane.

Sotto lo sguardo di fanciulli persi,

finirono giustiziati a morte

sullo schermo, pubblicamente

loro innocui gladiatori di spray,

precursori dagli elmi rosa.

 

 

Errare tra case sepolte: la poesia di Pietro Romano

di Gabriella Grasso

“Non valica parola la presenza-scure dell’erranza. Sguarnita voce: luce emanata da occhi che non sono”.

Voce e luce, luce e voce, un viaggio attraverso non luoghi – le case sepolte –  per parlare di un “impossibile incontro con se stesso” (come lo definisce Franca Alaimo nella post-fazione). Ce lo propone l’ultimo libro di prose poetiche del poeta palermitano Pietro Romano, pubblicato nell’ottobre 2020 dai Quaderni del Bardo. E’ un errare nella polisemia delle possibilità che questo termine – errare, appunto –  offre; così la parola trova la sua condizione di vita, perché “la parola si invera nell’erranza”.  Un viaggio che è condotto da uno sguardo che “setaccia le vertebre di un corpo rinsecchito su mani senza resurrezione”, espresso da una lingua che “vortica in suoni senza crescita”, perché “oggi l’idioma è la non adesione”.

Il soggetto che guarda, conosce o cerca di conoscere, che prova ad esprimere, si frantuma in un “io distorto esploso”, diventa – immagine bellissima – “sciame”, si coagula nelle proprie percezioni; la parola non incide, perde precisione, l’etimo è deviato dalla radice e la sfida diventa  “misurare l’adombrato che fugge l’etimo”.

Nel vagare tra relitti, ombre, case sepolte di cui non c’è parvenza, vetri graffiati “sciolti in urla”,  nel muoverci attraverso le crepe, le fratture di un paesaggio non più (forse mai?) integro, tutti noi “cerchiamo varchi verso voci perdute”.

La preghiera del poeta è un sussurro: “Invisibile, lasciaci entrare”.

 

Alcuni testi

 

Lontane, mani lontane. Gli sguardi battono contro i vetri notturni, zona di transito tra nome e nome.

 

Sentire il peso dei corpi: d’essere polvere, gelido silenzio. Giorni di scomparsa-nudi sulla mancanza. Cifre, lettere o distanze. Parole, altre. Gioia e abbandono, nel profondo di una luce che ogni cosa cancella. Delle cose lo sguardo si richiude, ma dove? Poco di loro, rimane. Il dramma dell’altezza: sconoscere la palpebra. C’è un che di inutile nel tardare la parola: la terra è la terra e la traccia precede se stessa.

 

Il corpo si è destato nel coro di fratture: canta ora il dolore, da lontano risponde il lontano.

 

La poesia, chiedi. Solo mani per acqua e potatura posso darti. In cambio chiedo colori, profumi, essenze del tempo che si ripete senza consistenza, delle sue ossa deposte all’ombra di un battito senza pompaggio. E’il vento, forse, floricoltore di voci e assenze? Sono foglie in esilio su selciati di scontentezza. Occhi negli alberi, nei cieli: tu ti moltiplichi, vento. In questo assedio che cosa chiedi? La parola trema. Nelle sue crepe altri scompigli: voci dove trovo riparo.

 

Ventre chiuso di terra: la polvere e i resti compongono i volti che ci si affanna a cecare nel graffio degli specchi.

 

Secca il corpo per troppa mancanza, residuo di un passato dissepolto. Vado via in forma di sciame. Come abitare la dimenticanza?

Suite Etnapolis: l’epos di un mondo in vetrina. La poesia di Antonio Lanza.

Di Gabriella Grasso

 

C’è una dimensione epica e al contempo paradigmatica nel quotidiano, che l’arte talvolta riesce a cogliere e restituire, facendoci un grande dono, specie se quel quotidiano è logorante, spersonalizzante, quanto di più lontano dall’armonia, dalla sobrietà e, in ultima analisi, dalla gratuità. Appare così al poeta la sfibrante routine di un centro commerciale ipertrofico, caleidoscopio di luci colori suoni rumori sollecitazioni d’ogni genere, meccanismo senza anima che tritura tutto quello che contiene (merci, persone, idee, relazioni) in una catena senza respiro e sempre uguale a se stessa.

Il poeta in questione è Antonio Lanza, autore originario di Biancavilla, paese etneo, che quel contesto ha conosciuto bene, avendoci lavorato e avendolo osservato (e vissuto) nelle sue dinamiche. Il suo Suite Etnapolis, edito nel 2019 da Interlinea, è ambientato proprio nel centro commerciale di Etnapolis, alle falde dell’Etna, progettato dall’architetto Fuksas nel 2004, quinto in Italia per dimensioni e vivace attrattiva per molti abitanti della zona pedemontana e non solo. L’autore lo fa rivivere, nitido e spietato, in un libro complesso tanto dal punto di vista tematico quanto sotto l’aspetto formale, con una grande carica di umanità che non lascia indifferente il lettore.

Si tratta di un lavoro che può ascriversi al filone della poesia civile, nell’alveo di una tradizione ricca di contributi importanti (da Pagliarani a Di Ruscio, solo per citare alcuni nomi, fino alle più recenti uscite di Targhetta, Ilaria Grasso e l’antologia La nostra classe sepolta). Questo macrotesto, che al suo interno contiene trame intersecantesi e varie piste di riflessione, è però una realtà composita e sfugge ad una definizione univoca.

La prima scelta strutturale che balza agli occhi è quella di una sorta di prosimetro, che, a ben guardare, va oltre l’alternanza prosa-poesia e coinvolge modalità espressive diverse, dai messaggi social all’intervista, a tratti “censurata” alla Isgrò, dalla conversazione telefonica al monologo al flusso di coscienza, in una sorta di zapping, un susseguirsi e incastrarsi, in giochi di costruzione e decostruzione di senso.

Ne consegue un’interessante commistione di linguaggi, di materiali anche extra-letterari e di registri talvolta molto diversi tra loro, ma sempre funzionali ad una rappresentazione vivida, da presa diretta. Un’atmosfera tuttavia così onirica, atemporale, per quella ciclicità spietata che caratterizza la scansione del tempo nel centro commerciale, quasi novella creazione-coazione a ripetere di una serie di operazioni che tengono in vita quel mondo.

Il libro abbraccia infatti un arco temporale di una settimana lavorativa di Etnapolis, che inizia però dalla domenica, non a caso giorno di non riposo, in una cosmogonia centrata sulla vendita e sul profitto: “Santa e benedetta la domenica di Etnapolis, / santo il profitto santo lo sfruttamento santa la pena”.

È un mondo dentro il mondo, un’antonomasia, un congegno che si mette in moto, inesorabilmente uguale a se stesso, suadente e perentorio: “s’infratta distorto il messaggio: acquistare è buono. Tutta / Etnapolis è raggiunta da etnapolis, / non c’è angolo che scampi al suono / della sua voce”. Le ore, monotone e prevedibili, piatte e orizzontali nonostante il loro scorrere, sono scandite dagli annunci delle voci al microfono, la maschile, autoritaria, normativa, e la femminile, suasoria, invitante: “Il lavoro che sta per iniziare l’inizio / del lavoro il lavoro che sta per finire / la fine del lavoro tutto qui è predefinito / da voci registrate tutto qui è finalizzato / e che siano in sincrono tutte le attività”.

Nella bolla artificiale del centro commerciale “il tempo / pur passando anche di qui, qui / non lascia storia, perentorio / big bang di cemento da cui d’un colpo / questo bianco Etnapolis è sorto”.

Dentro questo ambiente si muovono personaggi molto diversi, ognuno con il proprio carico di sofferenza, ignoto al carosello che li circonda. I loro discorsi sono contraddistinti dall’uso di registri differenti tra loro: Alfredo, in crisi per l’imminente nascita di un figlio e con poche certezze nella vita, Samuele, dallo sguardo curioso e critico su ciò che lo circonda, Cinzia, che lo ama e condivide con lui la “prigionia” del lavoro di commessa, Vanessa inquieta neomamma, tormentata da una nuova immagine di sé- che non accetta- e dal pensiero di un bimbo che rivedrà solo a sera, Daria, assetata di vita, Laura, che vive nella paura di dover pagare cara la propria avvenenza, con l’ombra di uno stalker alle spalle.

Li accomuna l’opprimente sensazione di essere dei forzati del lavoro (“puntuale nel respiro / la coda dell’obbedienza”, “Etnapolis dei cani / sedati dietro le gabbie”), la “prigionia” (“Ti ricordi, con un misto / di eroismo e malinconia / il cielo com’era chiaro / prima di entrare / stamattina”, “Poi ci si ingrotta”), l’ansia sottile, persistente, della precarietà (“Un diffuso stato di allarme, inudibile / perché chiuso nel buoi dei polsi, / nei turni trascorsi / in solitaria: le lamentele, le minacce dei titolari perché / gli incassi sono al di sotto/ delle aspettative, la probabile / riduzione del personale”).

Accanto ai commessi, intorno, altre presenze che sembrano sagome, disegnate dai loro ruoli, ma che rivelano la propria umanità attraverso piccoli gesti, come la guardia giurata Nuccio o le addette alla pulizia, che, nel “coro” intitolato Le silenziose, esprimono attraverso la voce del poeta le frustrazioni di una vita: “(…) da ragazze, giovanotti / e buona sorte si alternarono in ginocchio, / i gradini delle scuole sembrando / un trampolino di tre metri da cui / staccarsi fiduciose per il tuffo: e poi, / come fu che poi l’aria a tradimento / si assottigliò”.

Sono tessere di un’umanità mortificata da tempi, ruoli, contesti che la costringono in una gabbia, reboante, di luci e ombre: “colonia penale, Etnapolis / pista di decollo, navicella spaziale, Ecclesia – / piàcciati entrare intera nel mio canto, / le luci come l’immondo”.

Originale, nel suo attingere alla tradizione, appare lo stile. E non è un paradosso, ma una delle operazioni più delicate che un autore possa decidere di compiere. Nella scrittura di Antonio Lanza troviamo rimandi alle narrazioni più antiche, dalle Sacre Scritture all’epica classica, poiché è costante tanto il richiamo alla forza declamatoria dell’epos quanto ad una sorta di nuova “sacralità” del contesto commerciale, entrambe in chiave non direi parodistica, ma comunque rovesciata e problematica.

Ecco dunque, da una parte, la descrizione dei personaggi mediante epiteti (i clienti “camicia a scacchi”), inconsueti patronimici (“Laura di Lovable”) e accusativi alla greca, la costruzione della frase con i gerundi e con calchi dell’ablativo assoluto; dall’altra parte, il tono salmodiante di alcune parti e il richiamo esplicito ai costrutti di Qoèlet (“Etnapolis di etnapolis” come “Vanità di vanità”).  L’uso di artifici retorici si muove su una doppia linea di intenti: è aderente, quasi in modo mimetico, all’oggetto, nel caso dell’accumulatio, coerente al susseguirsi convulso di clienti, di merci, di scontrini; risulta invece “straniante” nel ricorso all’aggettivazione spinta, articolata in endiadi e in ossimori, che collocano Etnapolis in una dimensione atemporale e dialettica: “Materna e Moloch / Etnapolis, Mammona e Maschera / di lupa – Multisala, Multicefala” o le dedicano complesse litanìe: “Amaro e noia Etnapolis, pletora / di insegne Etnapolis, macropaese / di sconosciuti, Idolo, Edicola, / Obolo, Offerta Votiva”.

La bulimia di Etnapolis, “nuvola a vuoto dell’euro”, sembra inarrestabile: solo un evento o una presenza esterna, più volte confusamente immaginata, paventata e allo stesso tempo quasi desiderata dalla voce narrante, potrebbe portare un cambiamento di segno. Sarà quel che accadrà nella parte finale del libro, schiudendo nuovi scenari nei quali l’autore non si inoltra.

Al di là delle scene concitate (e profetiche) dell’epilogo, che non voglio anticipare, resta impressa nella memoria di chi legge la scena potente, centrale, nella quale si lacera la borsa degli acquisti con l’eloquente logo Hevel, termine che rimanda al campo semantico dell’inutilità, del non senso, ennesimo richiamo all’Ecclesiaste. La borsa della spesa si squarcia e tutte le merci si spargono caoticamente per terra: immagine emblematica del vano affannarsi ed accumulare, tanto nel micromondo di Etnapolis quanto, a più larga e drammatica scala, nel villaggio globale, iperattivo e miope del consumismo odierno.

 

 

 

 

 

Alcuni testi

 

Vergine e pubica la domenica di Etnapolis

pochi minuti prima dell’apertura

al pubblico, ma già la percorrono

i primi polpacci pelosi e carrelli

Iperfamila che sferragliano vuoti.

Al mattino le commesse hanno il volto

tagliato di sghimbescio da un tratto

rosso di uniposca e bevono decine

di caffè al bar di Prestipino.

 

 

La vita, poi, si attiva con precisa

lentezza dentro e fuori i negozi;

la vita è cieca, automatica: erompe

da gesti meccanici, mnemonici,

minimi, quotidiani, come la spazzata,

i numeri a tre o quattro cifre sul registro

dei corrispettivi, l’avvio dei computer.

 

*

 

“Ma ce l’abbiamo il tempo, ce l’abbiamo?”

ancora sott’acqua, sotto il lenzuolo

blu, la mente è un’alga

marina che si presta alle correnti

e le parole brillano su, a scaglie.

Cinzia è stesa su un fianco,

il viso disteso dal sonno

“Voglio dormire ancora” lamenta

“e poi fare l’amore” e imbroncia le labbra.

La sveglia: Zivago

 

e un fazzoletto sul comodino;

il corridoio, la cucina,

la rapida colazione, l’aperto

mattino all’imbocco

della SS 284, e le ombre

dei cavi elettrici

sull’asfalto, il bordo

della strada disseminato di cani.

 

Poi ci si ingrotta.

 

*

 

Il cliente ha bisogno

di sicurezza il cliente

ha bisogno di divieti il cliente

necessita di regole

il cliente vuole l’ora

esatta e l’esatta

sua posizione, che ci siano

le guardie con l’uniforme, le telecamere,

e che qualcuno gli rammenti le telecamere,

la squadra antincendio,

il pavimento pulito, che tutto

funzioni, confini certi,

che il sapone nei bagni, che di domenica

la messa, che le eventuali informazioni,

che i prezzi ben esposti, che tutto

torni.

 

*

 

DARIA (A CINZIA; ORA DI PRANZO, IN CASSA)

Bedda, ma come riesci a mangiartela tutta, quella bolognese è due volte la tua faccia! Un euro e cinquanta, grazie! Ma hai saputo che è successo? Come, no?! La macchina di Laura. Poco fa, non lo hai sentito? Le hanno fatto trovare tutti e due gli sportelli aperti e una bottiglietta di benzina sul sedile. Ma com’è che non hai sentito nulla?

 

*

MAMMA: Non sei tu, io lo vedevo che non eri tu, e lo vedo ora, ma adesso senti, un bar, non c’è un bar, che so, lì vicino, ti prendi un bicchiere d’acqua, che so, una…per non metterti subito a guidare, una fanta, troppo agitata sei per guidare, post parto, ossantiddio, così la chiamavano lì, perché non devo ricordarmi subito le cose, depressione post parto, quel programma che fanno dopo il tiggì, che tuo padre ogni volta, ma gioia mia credimi, non è niente, un bar, allora, ché lì vicino un bar ci deve essere, ti fai due passi, ti lavi il viso…

 

*

 

Chiaro e sorridente si apre l’allegro

carnevale di volti, chiaro

perché cola dai lucernari umana

una luce dietro cui Etnapolis per ora

un passo indietro si ritrae a

trattenere fiato e incantamenti.

 

 

*

Volge in sera

il pomeriggio (…)

(…) e per congiura manda

pane più buono la radio, la voce

roca di Bonnie Tyler che dichiara

che è stato solo un gioco folle

nient’altro che un gioco folle,

e a qualcuno dei distratti

o dei commessi potrebbe persino

avvenire di sentirsene punto,

lì dove più molle e non difeso

da ossa attende paziente il dolore

di essere vivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tre domande ad Antonio Lanza

 

 D: Da quale sostrato personale nasce Suite Etnapolis?

R: L’idea di scrivere Suite Etnapolis nasce da una esperienza lavorativa in una libreria di catena proprio a Etnapolis, dal 2011 al 2015. Nonostante la stesura del poema mi abbia preso soltanto gli ultimi due anni, tra l’agosto del 2013 e l’agosto del 2015, posso affermare che Etnapolis è stato da subito uno straordinario motore di immaginazione e di scrittura. L’ambiente lavorativo rilassato, le luci, la musica, la festa perenne mi suggerivano però storie, idee e temi improntati a un tono ironico, giocoso, al più sarcastico. E la poesia sembrava restarne fuori. Poi però è arrivata la crisi economica, con il conseguente dramma dei negozi che chiudono, degli amici che perdono il lavoro, dell’allarme sempre più prossimo che tra poco potrebbe travolgere anche te, appena sposato e con un figlio in arrivo. Mi trovavo al punto in cui storia personale e destino collettivo si incontrano, e contavo di poterlo raccontare, che ne valesse la pena, e stavolta sì, attraverso la poesia. 

Ero ossessionato dalla poesia, ormai da anni, da sempre. La mia scrittura, mi sembrava, era uscita già da un po’, anche se in ritardo, da quel limbo che è il puro esercizio. Ero approdato a una più consapevole necessità espressiva, ma era come se non riuscissi ancora a incanalare bene una “forza” che avvertivo dentro, a darle una forma. Ciononostante, la presentivo. Il pensiero ostinato della scrittura, la cieca tensione verso la scrittura, ma senza che niente sgorgasse davvero, o quanto meno nulla che mi convincesse. Poi un giorno di agosto del 2013, “Vergine e pubica la domenica di Etnapolis”, il verso di apertura del mio poema, è stato insieme un dono venuto da chissà dove e una sfida lanciata e non più ritrattabile, il momento in cui per la prima volta mi sono sentito finalmente straniero a me stesso, e fino in fondo me stesso. 

 

D: La scelta di una pluralità di voci, di linguaggi e di registri è nata a monte o in itinere, nel percorso di elaborazione dell’opera?

R: Probabilmente era proprio il sentirmi costretto all’uso di una sola voce – autobiografica e solipsistica – che ingabbiava la mia voce, il motivo per cui sentivo un abisso tra le risorse espressive che pensavo di avere e l’asfittico rivolo di scrittura che veniva fuori nella pagina nel corso delle prove precedenti, di cui non ero mai soddisfatto. L’insoddisfazione era del resto generale, investiva anche le mie letture di allora. Ero convinto che la poesia fosse un mezzo potentissimo di presa di possesso e di trasfigurazione del reale, eppure leggevo tanta poesia contemporanea che mi pareva rinunciare a quell’impresa, farsi pigramente frammentaria, monolinguistica e monostilistica, adagiarsi su alcuni facili trucchetti, giungere in fretta a una qualche epifania, fare bene il compitino, non sbagliare, non rischiare. Desideravo andare invece nella direzione opposta, anche se più esposta al rischio del fallimento. Nonostante avessi pensato inizialmente a un solo personaggio (quello del commesso di libreria, che per di più aveva il mio stesso nome) capace di portare su di sé il significato dell’opera, gli altri personaggi pirandellianamente reclamavano più spazio, desideravano muoversi, avere una loro storia da compiere, ciascuno era certissimo di poter arricchire con pari dignità il senso del libro. Sono quindi giunto presto alla convinzione che non sarebbe esistito un corifeo che parlasse al posto o per conto del coro. Non mi sono dato limiti, del resto. L’unico limite era: è davvero necessario questo o quell’espediente, questo o quel salto linguistico o stilistico? L’opera è cresciuta su sé stessa, portata dalla sua stessa forza, direi, fino a rompere gli argini della poesia e diventare, nella quinta sezione, quasi per naturale conseguenza, anche prosa. Suite Etnapolis mi è cresciuta come un albero. 

 

D: Se dovessi pensare ad un’altra versione di Suite Etnapolis, come la immagineresti? Una rappresentazione teatrale, una versione cinematografica o altro? 

R: Spero che chi legga Suite Etnapolis senta che l’autore, come notava Andrea Accardi in un suo intervento sul mio libro, stia in realtà muovendo una telecamera, che le “voci” che lo abitano non siano soltanto voci, ma personaggi che si muovono e interagiscono in uno spazio fisico, che infine “suite” rimandi già dal titolo alla musica, alle suite della musica rock in particolare. Ho sempre amato quelle opere che non abitano soltanto un genere, che riescono a sconfinare, a straripare, a trarre linfa da altri linguaggi: penso a un album come The Wall dei Pink Floyd, per esempio, diventato poi un film, o a Dogville di Lars Von Trier, recitato in uno spazio che potrebbe essere il palcoscenico di un teatro, scandito in capitoli e raccontato da una voce esterna, che può far pensare al narratore di un romanzo. Ho avuto già due contatti per una possibile riduzione teatrale di Suite, poi per vari motivi naufragati. Sarebbe un sogno, poi, se si potesse realizzarne una versione cinematografica, ma non oso sperare tanto. Da qualche tempo, invece, mi è saltata in mente l’idea di cercare contatti nel mondo editoriale del graphic novel. Insomma, come uno dei personaggi che mi è più caro di Suite Etnapolis, Daria, la cassiera del bar che infine compie una radicale, splendida “metamorfosi”, mi piacerebbe che anche il mio libro smetta di essere soltanto un poema.

 

 

Oltre la violenza. La poesia di Felicia Buonomo.

di Gabriella Grasso

Se esiste l’opinione che vede la poesia come espressione immediata e anarchica dell’impulso, del sentimento o, dal lato opposto, come codice avulso dall’esperienza comune, geroglifico di un mondo precluso a molti, un libro come Cara catastrofe le fa incrinare entrambe. Nella sua opera prima (per quanto concerne la poesia, essendo giornalista) Felicia Buonomo affronta un tema di scottante attualità ed un grumo di dolore pulsante, l’esperienza dolorosa del rapporto d’amore disfunzionale, asimmetrico, connotato di violenza. Lo fa con strumenti precisi, mai banali, quasi “chirurgici”, sia nell’aprire e mostrare le ferite che queste relazioni producono, sia, a livello formale, nel ricorrere ad una lingua aderente al suo oggetto, ma al tempo stesso evocativa, non meramente mimetica.

Il fenomeno è presente, in modo sempre più drammatico, nella vita di molti e nella cronaca quotidiana, e a questa urgenza di verità e di denuncia l’autrice non si sottrae.  Potremmo anzi dire che va oltre: nell’opera il tema assurge a paradigma dell’incomunicabilità o della distorta comunicazione di un’umanità fragile, spingendo il livello della riflessione ad un orizzonte più generale: “Aggrappata ai fragili rami delle mie paure, nelle intemperie del tuo vento, ti guardo oltre il fiume. Ci separano secoli di distanze, poggiati su una bilancia traboccante di tristezza”.

Ogni incontro che facciamo nel corso della vita racchiude infinite potenzialità: l’altro, come dice Natalia Ginzburg nel racconto I rapporti umani (da Le piccole virtù), “possiede una infinità facoltà di farci tutto il male e tutto il bene”. Il momento in cui si decide la direzione che quell’incontro intraprenderà non è unico e fulmineo, ma la sommatoria di situazioni che ci rendono quelli che siamo. Ed è cruciale, per ogni relazione umana: “Il mio errore è stato credere a una mano che si congiunge all’altra in preghiera supplicando l’amore, il mio. Il mio errore è stato credere all’uomo”.

La materia della poesia scaturisce dall’acquisizione, da parte dell’autrice, di molte testimonianze, in varie parti del mondo. Vissuti complessi a cui lei dà voce, con un alto grado di empatia, ma anche con la lucidità di chi sa scandagliare, senza sconti e senza perifrasi, le pieghe della psiche e i suoi movimenti talvolta contraddittori, come indica la scelta del titolo e l’appellativo ossimorico di “cara catastrofe”, attribuito a quel rapporto che è gabbia e palliativo insieme, schiavitù e sicurezza.

L’autrice ci conduce così nella sofferta via crucis di un rapporto che si trasforma in violenza, dipingendone i sintomi sul corpo di chi ama: “Ti ho trovato nelle pieghe delle mie clavicole, / parte visibile di un corpo smunto dalla tristezza. / Ero stesa sulle mie paure, /con gli occhi aperti al dolore / e le braccia molli della resa”. Sono segni descritti nella loro evidenza visiva, ma che rimandano ad una dimensione più profonda: “Non è il tocco livido a fare male,/ ma il ricordo del suo alone. / Dormiamo insieme ogni notte, / ma è nella crepa che dovrai recuperarmi. / Fai piano, che anche la luce è dolore, /dopo la culla di un buio così violento”. Le parole si fanno sempre più taglienti e se ne avverte tutto il peso: “Ho un battito di polso fragile / per ogni percossa taciuta”.

La stessa lucidità ispira la descrizione di chi perpetra la violenza: “Anche l’ultima volta che mi hai amata avevi gli occhi rossi della rabbia e le mani forti che premevano sulla carne debole. Ho pronunciato il tuo nome per dirti addio con l’afonia della paura, lo sguardo di un cervo abbagliato dai fari. I segni rossi sul collo sono l’ultimo ricordo che ho di me”.

Ciò che viene subìto diventa marchio che segna a fuoco e attorno a cui si struttura l’identità di chi lo ha vissuto, in un giogo-circolo vizioso difficile da spezzare: “sempre confonderai il sadismo e l’amore / – dico, mentre lucido le catene a cui mi costringo”. E’ scattata la dipendenza, l’impossibilità di pensarsi in una dimensione diversa: ”E ora che nemmeno l’idea di te mi fa compagnia / mi sento orfana di desideri che non ho”. La violenza si consuma nel silenzio di case che non comunicano, di una società sorda, anestetizzata: ”I vicini di casa hanno sentito il mio dolore / e – come tutti – lo hanno ignorato. / Non so nulla delle pareti delle loro case”.

Spezzare le catene, però, non solo è possibile, ma salvifico. La voce che parla in questi versi ci fa intuire un percorso di aiuto, una persona che tende una mano, nonostante la ritrosia della vittima: ”Ho detto a Jessica / che quel test di valutazione del rischio ha una falla. / E che il modo in cui accarezzo / il mio martirio / è la prova dell’errore. / Non si può portare una donna fuori dalla sua colpa”. Il primo passo è prendere coscienza, guardarsi dentro e vedere anche lati di se stessi che il dolore rivela: “Il mio sguardo su di te era un punto di sutura, / su ferite che non sapevo di avere. / Che fanno male, ora”.

Recidere il legame significa dare un nome alle cose e indossare abiti nuovi, sotto una carne che non dimenticherà le sue ferite: “Indosserò / un abito di ferro colorato, / lacrime di ruggine /  e carezze solide, / per svanire nel miraggio / che ci tiene stretti / a una falsa idea di felicità”.

 

 

Alcune poesie

 

Da quando ti ho incontrato

la mia vita

procede per sottrazione.

Mi hai portato via

l’amore per l’amore,

la fiducia verso la parola,

la complicità di un abbraccio.

E anche questi immeritati versi

aggiungono alla tua vita

la bellezza di cui mi privi.

Ora mi vendo a buon mercato

nella piazza della tua rivoluzione.

Mi conto come unica ferita.

 

*

 

Oggi ho preso ad amarmi come fai tu:

con la ferocia del disgusto

come un insulto figlio dell’alterazione

un cucciolo rinnegato

il difetto gettato dalla rupe.

Nei secoli dei secoli. Amen.

 

*

 

Mi domandi cosa sia la colpa,

se non questo incedere verso l’abisso

delle cose certe e ignorate.

Hai lo sguardo di chi vince la guerra

del dominio interiore,

io di chi partorisce invidia di viscere.

Mi stendo sul letto della sconfitta,

guardo il soffitto delle parole scritte per te.

Mi dici che alzare gli occhi al cielo,

movimento di collo, diventa peso di spalle.

Non è la stessa direzione quella che conta, per te.

 

*

 

Mi sei venuto dentro per rendere

gravida la mia dipendenza. Perché la paura

diventi figlia del nostro amore.

La porto in grembo

con la colpa di una madre degenere,

che mantiene in vita la sua creatura

nutrendosi delle tue bastonate,

che mi fanno il male che merito.

 

*

 

Ti devo il tormento di una tempesta,

una rosa inchiodata al muro,

il tintinnare di parole taglienti,

la solitudine della mia tristezza mentre ti guardo

e ti domando della bellezza dei fiori.

Vorrei sapere dove cercarti

quando un giorno prenderò quel treno

per non tornare.

 

 

 

 

 

Tre domande a Felicia Buonomo

 

D: L’equilibrio dei toni e delle scelte lessicali, nella tua poesia, quasi contrasta con l’incandescenza dei temi. Quali riflessioni e quali scelte hai fatto, dal punto di vista linguistico, durante la scrittura?

R: Proprio per l’incandescenza dei temi che ho deciso di affrontare in versi in questo mio lavoro poetico, ho voluto ancora più concentrarmi sull’essenza delle cose, come ci ricorda Marina Cvetaeva – che ha contribuito fortemente alla mia formazione letteraria. La poetessa russa sosteneva: «Come posso io poeta, persona dell’essenza delle cose, farmi sedurre dalla forma? Io sono sedotta dall’essenza, la forma arriverà e arriva. Io sono sedotta dall’essenza e poi incarno. Ecco il poeta». E la forma di fatti arriva, ma senza incanalarsi nella dicotomia serrata tra significato e significante. La poesia che amo è la parola che ti aspetti, che evita di girare intorno. Ma – come dicevamo – non si è solo poeti, la poesia la si fa. Come scrive la poetessa Isabella Leardini in “Domare il drago” il lavoro che fanno i poeti è di «scegliere un’immagine e non un’altra, rinunciare a una parola perché un’altra abbia più peso». Il movimento, il ritmo linguistico di questo mio tentativo di poesia segue questa sequenza: essenza-immagine (poetica)-parola-scelta/sostituzione. Scegliere parole, in parte anche abusate, come “tristezza”, “dolore”, “tormento”, “massacro” all’interno dei miei testi rappresenta una scelta di precisione rispetto ai temi affrontati, che ruotano intorno alla semantica dei sentimenti di colpa e punizione, in quel rapporto vittima-carnefice che tento di narrare al lettore. Non potrei mai usare, in poesia, parole che “normalmente” non userei, sarebbe violare la mia scelta di onestà. Il lettore attento lo percepisce quando sei stato disonesto.

 

D: Quanto della tua esperienza di giornalista è confluito nella stesura di questo lavoro?

R:La mia esperienza di giornalista è stata il punto di partenza. Nella seconda sezione della raccolta, in particolare, vesto i panni della testimone, traslando in versi alcuni universi di violenza e dolore di donne che ho incontrato, in alcuni casi direttamente, altri per interposta persona, nella mia professione di giornalista. Mischiando personalismi rispetto al modo in cui si può entrare, empaticamente, in contatto con alcuni moti interiori. Ho da sempre un’ossessione tematica, ovvero i rapporti umani disfunzionali, fatti di mancanza di cura, malattia, disperazione, solitudine. Nella mia professione di giornalista, anche narrativa, racconto storie, entro nella vita delle persone. L’Altro è un concetto fondante per me. È per questo che lo “racconto”.

 

D: Perché questo titolo?

R: “Cara catastrofe” è il titolo di una canzone di Vasco Brondi, artista musicale che amo molto (e che cito anche in esergo). Credo che incarni in pieno l’universo emotivo che tento di raccontare con questi versi: una catastrofe che arriva improvvisa, improvvisa perché nasce da un’idea di perfezione a cui il carnefice ci abitua nella fase iniziale del rapporto, e che finisce col diventarci indispensabile, cara, anche quando la perfezione diventa violenza e abuso emotivo e/o fisico. La “contropartita” della violenza è la dipendenza affettiva, in molto casi. Non capire quanto alla persona abusata possa diventare cara questa catastrofe, significa giudicarla. Non a caso ho dedicato molti dei miei versi al concetto della colpa, sentimento provato non dal carnefice ma dalla vittima. Comprendere quanto cara arrivi a diventare la catastrofe di una violenza spero posso aiutare a superare uno dei tanti stereotipi che ruotano attorno a questo macro-tema.