Qualche riflessione su La memoria della Shoah: Didattica, riflessione, impegno a cura di Gianluca Attademo e Nicola Rizzuti

di Sergio Daniele Donati

 

All’abisso – così come al sublime – ci si può avvicinare, con le dovute cautele in due modi differenti ma tra loro non alternativi. Abisso – e sublime – non sono identificabili mai nella loro interezza; se ne possono descrivere le scaglie, i residui; si può farne oggetto di narrazione, raccontarne le storie. Ed è questo l’approccio del poeta a quei temi. Oppure, se ne possono ricercare le ragioni, le cause, e se ne possono descrivere i movimenti e gli esiti. Ed è questo il metodo dello storico.

Entrambe le vie, se percorse con l’etica che le caratterizza, non possono, per forza di cose ignorare che abisso – e sublime – non sono fenomeni di cui si possa cogliere l’unità, la completezza. Deve esistere dunque sia per lo storico che per il poeta una umiltà di fondo che contempli la nostra umana piccolezza di fronte a ciò che di abissale – ed anche di sublime – l’uomo stesso ha saputo creare.

La Shoah è il campo d’elezione per queste valutazioni. Esiste sempre un dato che sfugge alla comprensione del fenomeno e l’approccio razionale, scientifico e storico
necessariamente di quel dato deve tener conto, sopratutto quando si accinge a tentare non solo la descrizione della Shoah stessa, ma anche a comprenderne le ragioni profonde, soprattutto nel tentativo di trasmettere alle nuove generazioni una sorta di antidoto affinché ciò che è stato non si ripeta.

Nel testo che qui si commenta, molto più che altrove, questo rispetto di fondo si
percepisce come basso continuo di tutti gli interventi di autorevoli studiosi.
Così, ad esempio, la minuziosa descrizione delle fonti di conoscenza (da un lato) e di causazione (dall’altro) della Shoah è trattata con estrema cautela. Ed anche le riflessioni, i tentativi di spiegazione del fenomeno Shoah, di quella profonda
ferita nella cultura europea non ancora rimarginata e insuturabile, sono sempre espresse sul filo di lino sacro di un eppure battente.

Questo elemento – la consapevolezza di trattare di un tutto indistricabile, ma allo stesso tempo della necessità di svolgere quel tentativo, sopratutto ai fini didattici per le nuove generazioni – ha spostato la mia attenzione di lettore più che sulla indiscutibile competenza storica, sociologica e psicologica degli interventi, sulla spinta etica che in quest’opera si sente molto presente e pulsante.

So bene che affiancare i termini etica e ricerca storica è elemento di rischio e in
controtendenza rispetto al moderno pensiero. Eppure non credo, quando si tratta di Shoah, che la domanda battente sul senso e sulla possibilità di dare spiegazione ad un fenomeno abissalmente indescrivibile sia di poco peso. Non che questa questione sia dagli autori esplicitamente affrontata, ma la delicatezza (che ossimoro vivace parlare di descrizione delicata della Shoah) con cui il tema viene affrontato dimostra appieno che quella linea etica non è ignorata affatto da chi gli interventi ha scritto.

A parer mio questo libro è una vera lezione per le nuove generazioni, non solo sulla Shoah in sé, ma anche e, forse, soprattutto, su come si debba affrontare il tema della Shoah e con quali sostegni morali ci si possa alla stessa avvicinare.

Esiste, certo, voglio dire, una didattica della Shoah, ma quella didattica, per essere
efficace, non può non interrogarsi sui limiti di conoscibilità che la Shoah stessa ci mette di fronte. E questo il tema centrale da cui, a mio avviso, dovremmo tutti partire. Ed è lo stesso tema che, come si diceva sopra, affronta chi alla Shoah si avvicina con gli strumenti della narrazione, poetica o narrativa che sia poco conta.
Perché la domanda pressante per tutti noi non è tanto cosa sia stata la Shoah ma chi sono io, coi miei limiti, con la mia piccolezza, per cercare di com-prendere la Shoah e, per contraltare, chi sono io, con gli stessi limiti e la stessa piccolezza, per rinunciare a farlo?

E, badate bene, queste sono domande, pur se non espresse che sono alla base di questa ricerca storico-didattica di sicura profondità e valore come quella in esame.
Il testo che sto commentando lo consiglierei, anzi l’ho fatto, a mio figlio di sedici anni,
perché capisca che lavoro di razionalizzazione dell’irrazionale ci sia dietro l’attività dello storico o del sociologo. Ma lo consiglierei, e non so se avrò il coraggio di farlo, a tanti adulti, della mia stessa generazione (la seconda dopo la Shoah) che credono di poter dare alla Shoah stessa  risposte posticce e preconfezionate.

“Eh, c’è stato Weimar, la crisi economica post bellica (primo conflitto mondiale) della
Germania”. Quante volte abbiamo sentito dirci, ad esempio, che fosse questa la sorgente dell’abisso con la sicumera di chi alla Shoah pretende di dare un causa sola. Ecco, con estremo piacere mio di lettore, in questo testo la banalizzazione della cause non è presente, anzi questo, in tutti i suoi interventi, è un testo che incita il lettore a comprendere la fatica enorme che esiste nella raccolta dei dati e, soprattutto, nella loro interpretazione. Per questo parlo dell’etica sottesa a questo testo e per questo lo consiglierei a persone molto diverse tra loro per età, esperienza di vita e cultura.

Rosaria Catanoso, Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica

Di Ivana Rinadi

Il volume di Rosaria Catanoso  Rapporto sul sapere. Gli intellettuali nel tramonto della politica, (Fondazione Giacomo Matteotti, 2021) è frutto di una lunga e accurata ricerca che con lo sguardo rivolto al passato fino al presente ha tracciato la figura dell’intellettuale nelle varie epoche storiche. Una ricerca accurata che emerge dalle numerose e puntuali note su cui ci si sofferma perché è da queste che sorgono le domande più interessanti.

L’autrice, docente al Liceo, collabora alla cattreda di Filosofia politica nel Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria. Si è dedicata a  lungo al pensiero di Hanna Arendt, l’ultimo suo studio è la monografia Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia (Giappichelli, Torino 2019). Ciò che le interessa in questa ricerca non è offrire uno sguardo acritico dell’intellettuale, bensì ri-definire il ruolo che i pensatori e le pensatricipotrebbero ancora avere in una fase in cui la politica è al suo tramonto e sulle cui cause continuiamoa interrogarci e forse provare a dare qualche risposta. Sicuramente è venuto a mancare quel nesso necessario tra passione e razionale organizzazione collettiva, un nesso indicato da Gramsci e che ha portato all’inarrestabile declino della forma partito come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso.
Ovvero, la crisi di quella forma della politica che pur avendo colto la necessità del soggetto collettivo, si lascia sfuggire la relazione. Se nel secolo scorso a tener viva la democrazia erano i corpi intermedi, partiti e sindacato, oggi ne siamo in qualche modo orfani. Ad essi si sono sostituiti i populismi di varia matrice che invece di produrre cultura politica e partecipazione creano divisioni più che coesione, consenso su slogan più che sui contenuti. Il criterio populista che unisce le classi
dirigenti (politici, giornalisti, opinion makers) è il disprezzo per la cultura, per le ragioni della storia, per la credibilità dei testimoni e della memoria, per la lucidità della parola e la complessità degli argomenti.

Nell’era globale assistiamo paradossalmente e ne stiamo vivendo i drammatici effetti al risorgere dei nazionalismi. Rifiorisce l’idea di confine, si alzano muri, risorge all’orizzonte la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti. Ancora più pericoloso è il non pensiero, inteso come mancanza di senso critico, di comode recezioni dei luoghi comuni, delle generalizzazioni che i media e i social ci propinano quotidiamente. Non meno grave della crisi della politica è lo scadimento dell’informazione: la nozione di sfera pubblica a partire da Mill, Tocqueville, Habermas, Arendt, è fondamentale per la democrazia che presuppone un’opinione pubblica informata, capace di scegliere; in realtà la società digitale ha svuotato di senso la figura critica e di custode della verità dell’intellettuale.

I messaggi ridondanti e veloci, il linguaggio semplice, essenziale, persino banale, ha fatto sì che la quantità prevalga sulla qualità. Il nuovo pensiero globale omologa e tende ad escludere voci critiche. Alla figura del mâitre a penser si è sostituita la figura dell’influencer. L’intellettuale da schermo, dice Alberto Aghemo nell’introduzione al volume, è diventata una presenza costante nei talk show, sui social, nei blog, divenendo funzionale al sistema. Insomma una nuova mutazione antropologica prima che culturale. In questo quadro in cui si inserisce anche la crisi dell’istruzione, delle scuole e delle università, luoghi politici per eccellenza, dove si dovrebbe imparare a pensare più che a conoscere, gli intellettuali, che siano filosofi, scienziati, storici, insegnanti stentano a trovare una loro collocazione positiva nel risvegliare l’intellettuale che è in ciascuno di noi.
Rosaria Catanoso ci ricorda quanto negli anni Sessanta e Settanta fosse importante la funzione intellettuale, un tramite tra il sapere,la cultura dell’élite e la cultura popolare. Lo fa soffermandosi sui tanti progetti che provavano a definire la funzione dell’intellettuale: ovvero colui/colei in grado di mettere a punto un apparato teorico da utilizzare sul piano politico. Ci ricorda le esperienze delle
riviste Critica marxista, Il Contemporaneo, Società, Il gruppo 63 e le tante voci che hannocontribuito a una democratizzazione del sapere.
In questo percorso non mancano le domande:

– Cos’è l’intellettuale? Chi è l’intellettuale? Come si chiedeva Eugenio Garin.
– Possono essere gli intellettuali guida del popolo? (Edith Stein)
– L’intellettuale deve essere chiuso nella sua torre d’avorio con i limiti denunciati da Panofsky e con le sue potenzialità, ovvero la possibilità di esercitare un controllo, segnalare i pericoli per la libertà?

Certo, sostiene l’autrice, l’intellettuale che sia filosofo, storico, giurista, filologo, scienziato, non dovrebbe mai rinunciare alla verità. Anche se questi non è mai figura neutra, entra in gioco con la sua soggettività, con il rischio di moltiplicazione di tante verità, comunque ci si aspetta che non proponga teorie ex-cathedra per le quali non fornisca un’indicazione. In passato abbiamo assistito alla rinuncia di alcuni intellettuali alla loro missione di custodi della verità: l’autrice ricorda le denunce di Ortega y Gasset che in La ribellione delle masse evidenzia la crisi della società spagnola dovuta al divorzio tra le èlite e masse; Croce in Italia che nella sua Storia d’Italia (1928) e in Storia d’Europa (1932) richiama gli intellettuali a non essere asserviti al regime fascista. E ancora Gramsci che ne I quaderni dal carcere e Gli intellettuali e la cultura invita all’uso pubblico della ragione, alla coerenza tra pensiero e azione, all’attenzione per l’altro. Infine Bobbio secondo cui l’intellettuale deve seminare dubbi, non raccogliere certezze. Dunque, la politica come gestione della Res publica non può rinunciare alla critica del pensiero. Il non riconoscimento della funzione culturale ha sottratto alla stessa le sue funzioni originarie, costringendola a trovare radici nell’economia, nella tecnica, nel digitale, nella medicina. Nostro compito è ripensare un ceto intellettuale in grado di elaborare criticamente l’intellettuale che in ciascuno di noi esiste. Non più arroccato nell’accademia, egli diventa anche organizzatore e costruttore della politica, non un politico di professione, bensì una figura che proponga un uso
pubblico del suo sapere professionale.

A conclusione del suo volume, Rosaria Catanoso ci offre una sua visione: la necessità di superare la tecnica e avvicinarsi al mondo con stupore poetico. Abitare poeticamente vuol dire che la poesia è alla base della nostra comprensione del mondo che si apre come spazio di stupore e di possibilità. Uno stupore che contrasta l’ideologia del fare, della tecnica, del capitale che ha condotto il vivere all’insignificanza e al non senso perdondo di vista il telos e il fine, pronto ad accogliere la differenza/le differenze. Per questo la politica ha bisogno della cultura e della sua critica perché diventi strumento di trasformazione e risponda a un desiderio di giustizia.
Da qui l’esigenza di riallacciare un legame tra ethos e polis. Allora l’azione sarà pensata e il pensiero agito. A conclusione dell’intenso e problematico percorso, l’autrice ci lascia un’immagine intensa che sa di auspicio e di impegno: “ Tra un passato perduto e un futuro da inventare, il presente è il tempo del cammino”.

Dostoevskij: l’occhio e il segno

Nel saggio Dostoevskij: l’occhio e il segno, (Rubbettino 2003) Claudia Olivieri, slavista e ricercatrice,  indaga con estrema accuratezza la visualità dostoevskiana e cioè quel ricchissimo rapporto tra l’arte e Dostoevskij che  viene dalla stessa suddiviso in tre ambiti:  Dostoevskij oggetto d’arteDostoevskij soggetto d’arte l’arte soggettivizzata di Dostoevskij.

La novità di questo interessante lavoro sta nell’aver intrecciato queste dimensioni che erano già state affrontate, ma separatamente ad esempio da  Grossmann, D’amelia e da Baršt di cui è stata peraltro traduttrice. La studiosa attinge per il suo studio alla Polnoe sobranje  (opera completa di tutti gli scritti dostoevskiani comprensivi di manoscritti, taccuini, appunti, schizzi e calligrafie,  anticipando la recente pubblicazione di DISEGNI E CALLIGRAFIA DI FEDOR DOSTOEVSKIJ di Konstantin  Baršt per la casa editrice Lemma press.

Ispirata dal concetto di aura benjaminiana , Olivieri parte dall’ analisi di uno dei ritratti più noti dello scrittore F.M Dostoevskij e cioè quello realizzato da  Perov, oggi conservato presso la galleria Tret’jakov, dal nome del  mercante moscovita che commissionò  al pittore il dipinto.

 

Ricorda Anna Snitkina, utlima moglie di Dostoevskij che Perov  fece posare per una settimana intera Dostoevskij prima di cogliere quell’espressione che  ritrae “ l’attimo in cui mio marito crea” . Le mani , insieme al corpo si chiudono in una sorta di cerchio che l’autrice inquadra come metafora della ciroclarità dei temi dostoevskiani che proprio attraverso il rimando a opere pittoriche si delineano come ricorrenti . Altro esempio, il ritratto o autoritratto che si legge in Bobok, racconto che appare nel Diario di uno scrittore  del in cui si legge “ penso che il pittore mi abbia ritratto non per amore della letteratura ma per i due porri simmetrici che ho sulla fronte” […] questo lo chiamano realismo.

Qui, come altrove e specie nel racconto il fanciullo presso Gesù, viene enunciata , apptraverso il riferimento alla propria immagine, la partcolare concezione del realismo  dostoevskiano, per nulla mimetico o strettamente  obbediente ai principi della “scuola naturale” .

Basti pensare alle implicazioni teologico-estetiche che innescano i quadri di Lorrain, di Hans holbein e di Raffaello  nei romanzi I demonî , l’Idiota sul tema della fede, dell’armonia universale, del “secolo d’oro” e dell’utopia del rinnovamento. (per un maggiore approfondimento sul tema  si rimanda al  seguente contributo     /ICONA_VS_QUADRO_IL_DUALISMO_VISUALE_DELLEKPHRASIS_DOSTOEVSKIANA

Un cerchio perfetto  che dimostra quanto Dostoevskij considerasse importante l’immagine artistica e come intrecciasse le idee dei personaggi  di rimandi visuali al punto da affermare  che “pensasse per immagini”:  il pensiero insomma  si compendiava di immagini che l’autore attingeva dalla sua cultura figurativa,  (la pittura russa a lui contemporanea) , da  immagini che rielaborava nei romanzi e nel terzo caso da immagini inventate  come quella di Cristo  che Nastasja Filippovna tratteggia nella sua visione nel romanzo L’Idiota:

Immaginai un quadro. Gli artisti dipingono sempre Cristo secondo le narrazioni evangeliche. Io lo dipingerei altrimenti: Lo dipingerei  altrimenti […]  Lo rappresenterei solo giacchè a voltei discepoli lo lasciavano solo.  Non lascerei con lui che un bambino

Il terzo capitolo, interessantissimo, analizza un altro aspetto altrettanto fondamentale:  tutti i contributi grafici, disegni calligrafie, schizzi che Dostoevskij appuntava in fogli e taccuini e nelle bozze dei romanzi.

Questi segni grafici, o motivi ornamentali (krestocvet) lungi dall’essere degli sfoghi casuali, sono  delle vere e proprie scritture disegnate con le quali “l’autore sopperiva alla limitatezza  della parola non solo  mentre raffinava, nei suoi appunti, la configurazione verbale di un’idea artistica, ma anche nel privato”.  Seguendo la suggestione di Baršt , la Olivieri daga allora con particolare attenzione le calligrafie “goticheggianti “ di Dostoevskij  questi disegni incompleti, che talvolta tratteggiano cattedrali, figure oblunghe, sono da leggere nel senso di una metafora visiva o metonimia, in quanto rappresentano un tratto dell’ideale estetico di Dostoevskij che egli individuava  nella triade  bellezza-bene- verità . Si trovano così finestre ad ogive, archi svettanti,  che rappresentavano un mondo eticamente completo, mentre il caos, la deformità era rappresentata dall’architettura di  San Pietroburgo, spesso richiamata nei romanzi come luogo labirintico, di “straniamento” e perdizione, valga su tutti il cammino di Raskol’nikov tra i vicoli pietroburghesi mentre prende corpo il suo delirio mentale.

È interessante che Dostoevskij proceda però a una “russificazione “ del gotico, rifacendosi alla forma della cipolla delle chiese ortodosse .

Le tabelle conclusive, di cui si riporta una delle più significative, servono a mostrare gli esempi di grafia prima citati: Il documento da parte dei materiali preparatori di Delitto e Castigo

Sono visibili le calligrafie: la scritta Napoleone (l’ideale  di uomo di Raskol’nikov) , scritto con diverse grafie  e con caratteri latini, , “Svidrigajlov”, (uno dei personaggi più  ripugnanti del romanzo),  Sonja, la prostituta che salverà Raskol’nikov .  Il ritratto invece è quello di Napoleone III, appena abbozzato, tutti personaggi che confluiranno nel romanzo.

 

Claudia Olivieri

Claudia Olivieri è ricercatrice (SSD L-LIN/21, Slavistica) presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania, dove insegna lingua, traduzione e letteratura russa. Si è occupata di letteratura russa dell’800 (Dostoevskij, Somov), dei rapporti cinematografici tra Russia/URSS e Italia (sui quali ha recentemente co-curato con Olga Strada il volume Italia-Russia. Un secolo di cinema, a cura di O. Strada e C. Olivieri, Mosca, ABCDesign, 2020, patrocinato dall’Ambasciata di Italia a Mosca) e delle coproduzioni filmiche italo-sovietiche (in particolare della pellicola Italiani brava gente e del documentario Russia sotto inchiesta). Oggi si interessa di letteratura, cultura, società russa contemporanea: ha approfondito in numerosi saggi la produzione di Vladimir Sorokin, ha trattato il rapporto tra cinema e nostalgia nella monografia Cinema russo da oggi a ieri, Roma, Lithos, 2015Su Dostoevskij ha pubblicato una monografia (C. Olivieri, Dostoevskij l’occhio e il segno, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003) e diversi contributi in italiano e in russo (si vedano ad esempio: C. Olivieri, Dostoevskij v Italii: stoletie kriticheskoj mysli // Dostoevskij i XX vek [a cura di T.A. Kasatkina], Moskva, IMLI RAN, pp. 553-566, 2007, C. Olivieri, Da una casa di morti, EUROPA ORIENTALIS, vol. XXIII/ 2004-1, pp. 251-266, 2005

 

 

 

Gramsci e le donne di Noemi Ghetti. Un triplice sguardo tra politica, sentimenti, eros.

di Ivana Rinaldi

Noemi Ghetti con il saggio, Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee, Donzelli, Roma, 2020 si conferma attenta studiosa di Gramsci:  Gramsci nel cieco carcere degli ereteci, L’Asino d’oro, 2014; La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra amori e politica 1922-1924, Donzelli, 2016. Qui l’autrice esamina un documento minore, che svela la complessa vita sentimentale e l’intreccio di vita e d’amore con le tre sorelle Schucht, Eugenia, Giulia e Tatiana. É notte inoltrata, quel 16 ottobre 1922, quando scrive da Ivanovo-Voznesensk, importante centro tessile a duecentocinquanta chilometri da Mosca, a Eugenia, ricoverata nel sanitorio di Serebriani Bor, lo stesso in cui Antonio è stato curato durante l’estate. Nei mesi precedenti tra i due è nata una storia, ma quella sera a scrivere a Eugenia, Gramsci non è solo. Con lui si trova Julka, sorella di Eugenia, la bella violinista che ha incontrato a settembre proprio a Serebriani. Per entrambi è stato un colpo di fulmine, che nei mesi successivi ha dovuto fare i conti con le gelosie di Eugenia. Trovatosi poco più che trentenne al centro di questo complicato triangolo amoroso, Gramsci si rivela autoironico e allusivo, passionale e spregiudicato, nel tenere le fila del triangolo.

Nel ripercorrere il rapporto di Gramsci con le “sue” donne, prima le “donne di casa”, poi con le compagne del biennio rosso, Camilla, Ravera, Rita Montagnana, Teresa Noce; con le grandi protagoniste rivoluzionarie del Novecento, Clara Zetkin, Alexandra  Kollontaj, Inessa Armand, Rosa Luxemburg e infine con Pia Carena, suo primo amore torinese,  e le sorelle Schucht, Noemi Ghetti ci offre uno sguardo appassionato e partecipe di quello che è stato il complesso rapporto di Gramsci con le donne, ma anche la sua attenzione per la “questione femminile”. L’autrice analizza inoltre il complesso rapporto di queste donne con i loro compagni di partito. Già dalla fine degli anni Sessanta è emersa con forza non solo tra gli intellettuali di sinistra la necessità di rileggere il corso della Storia partendo dalla parola d’ordine femminista: “il personale è politico”. Sono i movimenti giovanili ma soprattutto le femministe degli anni Settanta a porre  la necessità di nuovi costumi e la messa in discussione delle forme classiche della militanza e della lotta politica. Nel 1976, Adele Cambria pubblicò Amore e rivoluzione. Tre sorelle per un rivoluzionario: le lettere inedite della moglie e delle cognate di Antonio Gramsci, (SugarCo, 1976) a cui rispose Andrea Righi, Non ci sono risposte compagno Gramsci, non ancora alle tue domande. Soggettività e differenza sessuale: un dialogo tra Adele Cambria e Antonio Gramsci. (Carte italiane, II, 4, 2008).

Tornando al testo di Ghetti, è evidente che la studiosa ha seguito il legame stretto tra  privato e politico con un criterio filologico non sempre lineare, tuttavia interessante. La vita privata e politica  di Gramsci viene ricostruita attraverso la sua corrispondenza, Le lettere dal Carcere, di cui Einaudi ha appena riproposto una nuova edizione ampliata, ma ancora aperta, a cura di Francesco Giasi , una recensione del dramma teatrale di Ibsen, Casa di bambola, pubblicata nell’Avanti! Il 22 marzo 1917, e quanto il pensatore scrisse nei Quaderni a proposito della “Quistione sessuale”, ovvero della necessità di una nuova identità femminile, intimamente libera da schiavitù arcaiche e da condizionamenti culturali. Nelle pagine fitte di citazioni le voci e le fisionomie si articolano seguendo la biografia del fondatore del PC d’It. E così si incontrano la madre e le sorelle nella natia Ales; il primo amore amore torinese, Pia Carena: sarà lei a fargli conoscere gli scritti di Roman Rolland da cui è tratto il concetto del “Pessimismo della ragione, ottimismo della volonta”. Si scoprono a Torino Camilla Ravera, Rita Montagnana, Teresa Noce: è la stagione di una Torino inquieta, segnata dalle lotte operaie del “biennio rosso” ( 1919-20).  In famiglia, in amore, in politica, dalle origine sarde al biennio rosso, attraverso l’esperienza nell’Urss, poi a Vienna, a Roma, fino alla lunga detenzione dal 1926 al 1937, data della sua morte, le donne furone destinatarie delle sue lettere. Mi sono soffermata a lungo su queste, che fossero indirizzate alla mamma, alle sorelle, alle sue compagne di partito, alle tre sorelle russe, e in ognuna ho trovato il nucleo intimo e profondo di un uomo, prima che politico e rivoluzionario, che ha sempre cercata il dialogo con l’Altra. Dapprima con le compagne di partito italiane, poi con le rivoluzionarie Clara Zetkin e Alexandra Kollontay, sempre in conflitto con Lenin sulla questione femminile. Per il capo della Rivoluzione, specialmente dopo la NEP, le voci femminili che si pronunciavano contro il patriarcato andavano messe a tacere: “Il libero rapporto tra i sessi deconcentrava e disperdeva le energie, che invece andavano indirizzate alla “causa rivoluzionaria”. Tutte loro, invece, insieme alle/agli artisti, agli operai, rivendicavano le aspirazioni da cui era nata la rivoluzione.

Sono commoventi e piene di gratitudine le lettere di Gramsci alla madre, percorse da amore filiale, come intense sono quelle indirizzate alla sua amata Julka:

Ricordi quando sei ripartita dal bosco d’argento? Io ti ho ti accompagnato fino all’orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare. C’eravamo appena conosciuti, ma io ti avevo fatto già parecchi dispetti e ti avevo fatto anche piangere; ti avevo canzonato col comizio dei gufi, così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell’altra la borsa da viaggio”.

Intrise di nostalgia e desiderio:

Sento la tua assenza, sento un grande vuoto intorno a me”.

E di dubbi:

“Che Julka sia stata solo finora un’agente della Cekà inviata per saggiare la mia compatibilità?”

Gli stessi dubbi che in qualche modo ripercorrono il rapporto con Tatiana, l’ultima delle sorelle Schucht. Si chiede Enzo Bettiza, studioso dell’Unione Sovietica: “Tatiana è l’unica che lo ha veramente amato, o era stata solo una spia sovietica, un “poliziotta amorosa”, nel ruolo di funzionaria dell’ambasciata sovietica italiana, con il compito di sorvegliare i movimenti, i sospiri, e i respiri di un uomo-simbolo, in odore di eresia, ormai fortemente schierato nel contenzioso che vedeva Stalin contro tutta la vecchia guardia leninista?” Rimasta a vivere a Roma, Gramsci strinse un rapporto d’affetto e di stima intellettuale con lei. L’unica che gli rimase vicina nei suoi anni di carcere, il tramite col mondo esterno, anche con Giulia, ormai malata, con il suo equilibrio instabile, creatura lunare, incapace di realizzare che il ruolo di moglie di Gramsci non è adatto alla sua personalità. Tatiana è inoltre colei che fece conoscere i Quaderni al mondo.

Sono veramente pochi i momenti trascorsi insieme da Giulia e Antonio. Dalla loro unione nascono Delio e Giuliano, rispettivamente il 10 agosto 1924 e il 30 agosto 1926 nella lontana Unione Sovietica, mentre Gramsci è a Roma e avrà occasione di vedere solo Delio nel 1925. Sulla scena politica italiana incombe la catastrofe e Gramsci viene accusato di voler sovvertire lo stato. Non sostenuto dai suoi compagni di partito, primo fra gli altri Togliatti,  viene arrestato, poi mandato al confino, infine a San Vittore e poi a Roma dove morì, ormai ridotto a “morto vivente” in una clinica privata,il 27 aprile 1937. Al funerale non andò nessuno tranne Tatiana e la polizia fascista. Gramsci, prima della sua morte si era reso conto di essere un uomo solo e di non essere desiderato da nessuna parte, non a Mosca dov’era sua moglie Julka, ormai ombra vagante da un manicomio all’altro, né dai figli fagocitati dal regime sovietico, né dagli ex compagni della prima ora rivoluzionaria; non a Ghilarza dove si era stabilita la sua famiglia d’origine, le sue sorelle, ma non più l’adorata mamma Peppina.

Durante gli anni del carcere, con la sua originale sensibilità Gramsci affina la questione sessuale, di cui si erano occupate a lungo e in conflitto con i dirigenti uomini, le rivoluzionarie Zetkin. Luxemburg e specialmente Alexandra Kollontay (mi permetto di rimandare a un mio scritto in Leggendaria, n. 137, novembre, 2018), la quale da sempre si era occupata della relazione tra i sessi, ponendosi in conflitto con Lenin e con altri esponenti del PCUS. In Largo all’Eros alato, una lettera rivolta alla gioventù, Kollontai smaschera “ il nucleo inconfessabile della rivoluzione sovietica”. Non vi sarebbe mai stata una rivoluzione politica-economica, senza passare per quella culturale e morale. Uno scardinamento del rapporto tra i sessi che nessuna rivoluzione socialista avrebbe garantito.

Nelle pagine finali del libro, Noemi Ghetti ricorda una poesia di Nazim Hikmet, costretto in esilio in Unione Sovietica: “Sono cent’anni che non ho visto il tuo viso”. Quando venne scritta questa poesia erano passati, nota l’autrice, quasi cento anni dalla pubblicazone del primo libro del Capitale di Marx. Nel non riconoscimento dei rapporti d’amore e dell’identità della donna, sta il campo oltre il quale il marxismo non seppe spingersi. Donne, bambini, artisti, continuavano ad essere negati, mentre sarebbe stato necessario “per sottrarli al dominio invisibile costruito sull’antinomia tra cultura e natura, tra razionale e irrazionale, ricomporre la scissione tra corpo e anima, l’inizio del tempo di ogni essere umano”. Gli artisti non avevano mai cessato di invocare l’irrazionalità dell’amore. Nel 1959, il regista Grigorij  Čuchrai racconta nella Ballata di un soldato la struggente bellezza di una storia d’amore, interrotta dalle ragioni maschili dell’ideologia, della politica, della dittatura, della guerra.

 

Vi racconto di Tempesta Editore e del suo libro “in sospeso”

 

 

Tempesta Editore nasce da un‘idea di Chiara Cazzato nel 2011. Inizialmente pensavo a qualcosa di protoromantico o shakespeariano, ma da una simpatica chiacchierata con l’editora o “lady Tora” Chiara, ho appreso che l’origine del nome risale alla dea Tempesta, invocata dai romani per sedare le tempeste. Ma qui si tratta di crearle le tempeste e le piccole rivoluzioni editoriali. Ascoltando la storia di Chiara e della sua casa, si respira passione, dedizione e il desiderio di prendere una posizione all’interno di argomenti delicati come i diritti civili, il ruolo delle donne, della disparità di genere etc.  Un progetto ambizioso e un cammino talvolta in salita come per tutte le case editrici indipendenti, ma che ha portato a risultati ragguardevoli: Chiara mi “apre” le porte della sua casa, e vedo cose che non immaginavo, a prescindere da quelle che già conoscevo e che reputavo interessanti. Tempesta Editore ha un catalogo di tutto rispetto e una sezione dedicata alla saggistica di critica religiosa di altissima qualità e ampia scelta. (Da saggista non nascondo di avere avuto un sussulto di gioia).

Tra i titoli: Roberto Quarta,  Eretici indecenti, uno studio sul tema dell’inquisizione che mette in comparazione le figure di Caravaggio, Pasolini, Bruno,  e Maledetta Eva di Eraldo Giulianelli su tema della misoginia religiosa.

 

Di qualità anche la sezione di narrativa che comprende, tra i molti, autori come Romeo Vernazza, Clara Cerri, Paolo Vanacore, e un misterioso autore che si firma G che ha scritto un romanzo  su un tema molto controverso, l’eutanasia.

Altra sezione molto curata è quella dedicata alla fotografia: tra i pregevoli lavori segnalo quello di un mio conterraneo, Luciano del Castillo che ha dedicato a Cuba la sua raccolta fotografica, nel volume Poesia Escondida

 

Il Libro in sospeso

Ho chiesto a Chiara di parlarmi di un libro che è uscito durante il periodo della quarantena e del momentaneo blocco della macchina editoriale:

Il libro è Bambine in guerra, a cura di Luana Valle e Luca Dore,  una sorta di reportage che raccoglie le voci di donne che ai tempi della Seconda guerra mondiale furono bambine e che regalano delle testimonianze preziose, le ultime probabilmente che potremo sentire dalla voce dei testimoni diretti di questa pagina di storia.  Dice Luana Valle nella prefazione:

Presto non ci saranno più testimoni diretti, non ci sarà più nessuno a raccontare e proprio per questo motivo ho voluto scriverle queste storie, per non dimenticare, per mantenere vivi questi ricordi e accesa la memoria. Perché ho raccolto solo storie di donne? Perché penso che ce ne sia più bisogno. Storici e storiografi sono sempre stati uomini, almeno fino a pochi anni fa, e di ragazzi e uomini si è scritto molto, soldati e partigiani hanno riempito le pagine di molti libri, le bambine no. Diciamo che questo libro tratta un altro punto di vista. E poi a me piace la storia dal basso, piace sapere come viveva la gente comune, come si tirava avanti durante il conflitto, come ci si procurava il cibo, come era la vita di tutti i giorni, come se la cavavano le donne, che fino a quel momento avevano fatto solo le madri e le mogli, diventate improvvisamente capifamiglia mentre i mariti erano al fronte.

Un libro decisamente intenso e che va menzionato non solo per il suo valore documentario ma perché ci parla delle microstorie, vicende del quotidiano che un certo tipo di storiografia – che ha un suo storico fondatore in Ginzburg –  ha sempre valorizzato e che ultimamente stanno trovando anche spazio nelle realtà editoriali indipendenti. Un libro che ha anche notevoli potenzialità didattiche, che affiancato al classico manuale potrebbe essere un valido compendio per studiare la storia da una differente angolazione. Lo consiglio caldamente.

 

 

 

 

La selva oscura. Dante secondo Gianni Vacchelli

 

 

 

 

Le opere d’arte nascono sempre da chi ha affrontato il pericolo, da chi è arrivato  in fondo ad un’esperienza, fino al punto che nessun umano può superare .

R.M. Rilke, Lettres (1900-1911)

Da cosa è nata la passione per Dante? È stata una scelta dettata da esigenze di ricerca o da ragioni personali?

Il poeta mi ha colpito sin da bambino. Non c’è un perché, una misteriosa chiamata verso questo autore. Parafrasando le sue parole io lo considero “il mio maestro, il mio autore” nella mia pratica narrativa critica e tramite lui ho imparato a rileggere il mondo con categorie da lui mutuate ed adattandole al nostro tempo.

Su Dante esiste una mole sterminata di studi critici.  Mi sembra che gli orientamenti più recenti mirino a recuperare la fisionomia “multiculturale” dell’opera dantesca in quanto capace di convogliare istanze classiche, medievali, scientifiche, teologiche e di  trasferirle a noi lettori moderni sotto forma di messaggio vivo e interlocutorio. Accanto ai rigorosi  studi di Sapegno  di Contini  e di Santagata che hanno fatto scuola mi sembra utile citare Marcello Carlini che ha sottolineato proprio questo aspetto nei suoi studi. Qual è il tuo pensiero in proposito e il tuo metodo di indagine?

Mi interessa questo approccio multiculturale che evidenzi. Mi preme liberare Dante dall’immagine di un monolitico autore medioevale. Dante ha uno sguardo più plurale e pluralista di quanto si possa immaginare. Non esiste una sola teologia in Dante ma tante teologie. Questa operazione che non è  frutto di eclettismo ma di indagine filosofica e ontologica di altissimo genio permetteva la convivenza di San Tommaso con il suo nemico Sigieri di Brabante, quando serviva.  Ne derivava un mosaico vertiginoso, fatto di spinte e controspinte,  ma perfettamente coerente.  Un altro aspetto dell’approccio multiculturale riguarda le influenze dell’Islam e dell’ ebraismo, i “cristianesimi e i paganesimi”.

 

E chiaramente anche l’influenza della mistica che mi  sembra importante rilevare nel bagaglio culturale del poeta.

Sì, qui arriviamo ad  un punto importante della mia lettura. Uno dei tentativi è stato quello di recuperare il misticismo. Ritengo che Dante sia non solo un grande teologo. É un filosofo di  tempra assoluta- il Convivio è il primo libro di filosofia italiana- . Credo che sia anche un mistico come potrebbe essere Giovanni della Croce o come Rumi nella cultura islamica. Mentre però per questa cultura la coincidenza tra l’essere poeta e mistico è quasi naturale, nella ricezione di Dante, specie accademica, l’aspetto del misticismo è stato un po’ occultato. Per cui ritengo importante recuperare la triade uomo-mistico-poeta: leggere Dante ricordando che c’è una vicenda umana più o meno rievocata, considerare il suo misticismo come frutto di un’esperienza vissuta e trasfigurata poi in linguaggio simbolico e codificato.  Se il teologo parla di Dio da teorico, il mistico ne parla perche lo ha “esperito” o l’ha  incontrato dentro di sé, nell’ altro, nell’ amore. La parola esperienza, peraltro, è una parola che ritorna spesso nella Commedia.

Vorrei chiederti del titolo del tuo lavoro, La selva oscura (Leima Press 2018) che mi sembra interessante perché richiama un’immagine ben precisa ma allo stesso tempo ricca di suggestioni polisemiche e aperture simboliche. La lettura allegorica più accreditata che poi è divenuta anche linterpetazione “vulgata” è quella del peccato che ottenebra l’uomo e devia dal percorso virtuoso. Potremmo considerarla l’allegoria madre della Commedia ma come mi pare suggerisci tu, anche molto altro.

Secondo me la selva oscura è una delle immagini più geniali della commedia. Come dici tu la vulgata esiste e ha anche una sua utilità.

Anche didattica, se vogliamo.

Certo, anche didattica. A volte ironizzo e dico Dante era bravo con le rime, pertanto se  avesse voluto usare la parola peccato l’avrebbe usata. Selva oscura invece è un’immagine complessa: è un bosco, sogno, incubo, superfiaba, onirica, reale?. A volte ho pensato selva oscura fosse l’esilio. Ma se avesse scelto questa parola il senso sarebbe stato limitato alla propria esperienza personale. La selva oscura per me, come scrivo nel mio libro, invece può essere una grande zona d’ombra della realtà personale, uno smarrimento un caos esistenziale, una depressione. Una volta una mia studentessa che vuole il caso si chiamasse Beatrice, mi scrisse in un tema: “Per  me la selva oscura è l’anoressia e Dante mi dà la speranza di poterne uscire” e questa cosa mi commosse. E’ chiaro che dante non pensasse all’anoressia ça va sans dire, ma per lei significò questo. Vale la pena di ricordare quei famosi versi “ma per trattare del bene ch’io vi trovai e delle altre cose che io vi ho scorte”  come primo cortocircuito di un sistema complesso.

Certo, sono espressioni della presenza divina in ogni dimensione, compresa quella del male. Versi ai quali potrebbero fare da pendant “vuolsi così colà ove si puote ciò che si vuole”. I dannati e i beati ne partecipano a livelli e significati profondamente diversi. Le dimensioni etiche si confrontano pur rimanendo confinate in un sistema perfetto che è retaggio del sistema morale di stampo aristotelico.

Questo piano è presente c’è anche un inferno etico.  E questa sfera etica emerge nel politico. Dante infatti non ragione secondo la morale borghese individualista e la scelta del male ha una ricaduta sul bene comune e per Dante questo è un orrore.  L’inferno del resto è una città rovesciata, un simbolo del male incarnato nel tempo e nella società. I peccati vanno rivisitati anche sotto questa lettura comprese le allegorie iniziali, compresa la lussuria. I peccati più gravi sono infatti legati alle dimensione della collettività e della politica.

Gianni Vacchelli

Ritornando alla didattica e ai modi di restituire la Commedia a chi la studia: questo testo, cosi ricco e stratificato, si realizza soprattutto  attraverso immagini. La potenza icastica delle descrizioni dell’Inferno è tale da potere parlare di un cromatismo dantesco perfettamente desumibile da riferimenti testuali. La Commedia potrebbe essere interamente dipinta, tante e tali le suggestioni visive ma anche olfattive, uditive. Si potrebbe mappare l’intero medioevo. L’ aggettivo “atra” ad esempio ricorre con grande frequenza ed è il tono principale, insieme al rosso, dei quadri e delle scene infernali. Dante come produttore di immagini è una strada interessante da percorrere, non credi?.

Sì. Ai miei studenti dico “inventore del cinema settecento anni prima”. Questa potenza dell’immaginazione che in Dante è immaginazione creatrice intesa anche come “sesto senso”. Dante non ha solo fantasia, immaginazione una cosa più profonda. Le immagini sono anche degli archetipi.

E pertanto trascendono l’epoca in cui sno state prodotte e si rivelano anche attuali, nella loro forza simbolica.

Certo, Dante è figlio del medioevo ma un’interpretazione filologica è limitante. Io sono filologo di formazione ma convinto che Dante trascenda continuamente il suo tempo.

Come è stata concepita questa opera di genio? A proposito del modus operandi e del farsi della poiesis, è indubbio che Dante abbia costruito un’architettura formale perfetta  basandosi anche sui modelli della letteratura allegorica,  e dei poemi didascalici. Ma vi sono delle zone inspiegabili talvolta, e delle immagini che sembrano attingere da regioni che trascendono la costruzione del verso e della rima. Talvolta ad esempio Dante sembra aprirsi a delle vere e proprie visioni che potremmo definire mistiche o anche solo immaginative. Mi ha anche sempre molto incuriosito lo stratagemma del deliquio, a fare da cerniera talvolta tra un canto ed un altro. Mi fa pensare a quelle sospensioni della coscienza che  talvolta emergono dalla scrittura più di rado nella poesia  religiosa e mistica ma anche nel romanzo moderno. Non solo come topos (da Lucrezio al “Somnium Scipionis”,  fino al deliquio di Myškin in  Dostoevskij) o  stratagemma retorico  ma come una possibilità di forzare la coscienza e aprire una breccia.

 

Dante secondo me è un esploratore degli stati di coscienza. Oltre allo stato di coscienza di veglia c’è lo stato di coscienza del sonno, del sonno profondo, esiste un’oniromanzia medioevale. C’è un antico codice che mostra Dante che dorme  e accanto appare la pagina della  Divina Commedia con lo stesso Dante all’interno della selva oscura. In modo moderno potremmo dire che l’emisfero destro e l’emisfero sinistro lavorano in accordo. Questo uomo sta nella visione e anche nell’inconscio. Ragione e visione; si pensa che la mistica sia irrazionalismo. Dante non rinnega la ragione ma ci sono cose alle quali essa non arriva.

Ecco, mi pare che siamo concordi nel dire che questa è una chiave di lettura della tua “selva oscura”. Come si accorda il tema politico, così pregnante nella Commedia, con tutte le sue urgenze e contingenze, con questa dimensione che hai ben delineato?

Come ho detto prima per me si tratta di mistica politica. A partire dalla stessa selva, questa metafora racchiude il momento storico in cui il papato i comuni, guelfi e ghibellini si consumavano in un disastro politico: è un momento di traviamento umano in cui le istituzioni barcollano. La chiesa è ad Avignone, Bonifacio VIII, il Guasco, insomma Dante sta dicendo: “Il mondo sta cadendo a pezzi”. La discesa nelle tenebre del tempo nasce dalla discesa in sé, un invito a fare un cammino interiore e a calarsi dentro il tempo. Alla fine di questo cammino lui denuncia: la lupa, il veltro e il messaggio politico che coinvolge interiorità e spazio politico.

Qual è la fisionomia di Dante politico alla luce della sua visione politica? 

Nonostante sia stato considerato un reazionario di destra, per me Dante, e uso un termine non dantesco, ha una teoria critica, cioè io lo considero un francofortese ante litteram. É  già Adorno e Horkheimer prima di loro; considera il passaggio di una civiltà che diventerà borghese e mercantile e che sarà basata su principio di quantificazione) e torniamo alla lupa, alla cupiditas, al peccato dell’accumulo che contamina tutti i livelli sociali.

Per concludere:  a proposito del tema del corpo. Il fatto che Dante compia questo cammino ultramondano con il suo corpo, in carne ed ossa, in un certo senso riporta al tuo concetto di mistica vissuta e non solo “immaginata”. in un certo senso questo fa da specchio per i personaggi che via via si interrogano sulla sua sostanza e di rimando sulla propria.

Il tema del corpo, particolarmente rilevante nel Purgatorio, è molto importante. Scherzando dico: questo è lo yoga dantesco. Il corpo è talvolta opaco, si trasforma, va lavorato. Anche il tema dell’amore ne è intriso. Ad esempio io contesto la lettura di Paolo e Francesca laddove si parla di un amore per eccesso e che Dante condanni in maniera bigotta questa dimensione erotica. Leggendo i testi, e i testi parlano chiaro, ad esempio nella Vita nuova, vi è l’immagine della donna che gli mangia il cuore. Lui la vede e trema, i tre centri pancia testa e cuore sono in subbuglio. Questo aspetto pertanto va tenuto in considerazione. Quando incontra Beatrice in Paradiso, canto XXX, dice : “Conosco i segni dell’antica fiamma”, e qui è Didone che parla, emblema di un amore erotico e passionale. La visione verticalizzata di Dante va rivisitata.