di Ivana Rinaldi
Anni fa, vi era tra i miei progetti una ricerca sulle donne del Partito comunista. Fui scoraggiata dal mio maestro, Enzo Santarelli, convinto che non ci fossero elementi per tracciare una storia “altra” delle dirigenti comuniste da quella dei loro compagni di partito. Il recente anniversario della scissione di Livorno ha rivelato, invece, quanto lavoro vi sia ancora da fare a questo proposito. Lo si deve fare per almeno due ragioni: sappiamo troppo poco delle donne del passato, anche di quelle che hanno avuto un ruolo fondamentale sul piano internazionale. Le biografie sono una strada obbligata per la storiografia che si occupa di donne dimenticate o uscite di scena. A questo proposito abbiamo un punto di riferimento in Joan Scott, Only Paradoxes to offer (Harvard University Press, 1996) e in Paola di Cori, Altre storie. La critica femminista alla storia (Clueb, 1996).

Joan Scott
Il secondo motivo non meno importante è provare a individuare come si collocano le vicende personali delle donne in un contesto prevalentemente di natura maschile, come il partito, e quanto incida il diverso sentire femminile sulle scelte politiche dell’organizzazione partitica. Un problema ancora attuale e che andrebbe analizzato seguendo le categorie di uguaglianza e differenza. Detto in parole semplici, le atttiviste in politica si sono sempre impegnate per la parità di genere nel rivendicare l’uguaglianza dei diritti civili, sociali, politici, economici. In molte lo hanno fatto a partire dal loro essere donne non solo impegnandosi per le loro simili, ma portando alla politica un valore in più: la loro sensibilità, il diverso sentire e la loro esperienza. Questo lavoro di scavo e di “archeologia della memoria” (rubo l’espressione a Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi,( Iacobelli, 2020) andrebbe fatto per le donne del passato, per coloro che hanno avuto un ruolo nei partiti italiani di diversa matrice, ma anche per politiche e pensatrici nel contesto internazionale.
Molto è stato già fatto da studiosi/e che si si sono occupate di ricostruire la vita di grandi dirigenti come Rosa Luxemburg, Una donna chiamata rivoluzione di Sergio Dalmasso (RedStar press, 2019), abbiamo inoltre un lavoro di Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista (Carocci, 1999). Attraverso le carte di numerosi archivi, sia privati che pubblici, la studiosa ricostruisce molti e variegati percorsi biografici e politici, di modelli di militanza e dello scarto tra questi e la realtà esistenziale. Nel volume si racconta di tre generazioni di donne e di varia estrazione sociale: maestre, alle quali viene dedicato un ampio spazio soprattutto al lor tentativo fallito già nel 1922 di creare guppi femminili autonomi nel Pcd’I; operaie e proletarie molte delle quali passano alla clandestinità durante le ondate di arresti; le casalinghe; dall’altro lato, le dirigenti che sostituiscono gli uomini: i nomi più celebri, Camilla Ravera, Teresa Noce, Adele Bei, accompagnati da molte altre.
Il prezzo più alto che queste donne pagano negli anni duri della repressione fascista riguarda la scelta radicale tra militanza politica e sentimenti.
In questo breve articolo, vorrei raccontare di alcune militanti di spicco del Partito comunista sin dalle origini che hanno un ruolo determinante nel passaggio dal regime totalitario fascista alla Repubblica e la democrazia. In particolare Camilla Ravera e Teresa Noce, rivoluzionaria professionale come si definisce nel suo diario e sulla quale è uscito di recente il libro di Anna Tonelli, Nome di battaglia Estella. Teresa Noce una donna comunista del Novecento (Le Monnier Quaderni di storia, 2020). La sua vita è un romanzo vissuta all’insegna dell’impegno politico, e non solo, e la sua biografia costituisce un modello
. Nata povera, non va a scuola, da bambina all’età di 11/12 anni lavora da sarta, poi da operaia. Partecipa alla svolta di Livorno, a Milano incontra Luigi Longo e si ritrova a 19 anni in attesa del loro primo figlio. La famiglia di Longo non l’accetta, il dirigente non può sposare una donna brutta, povera e comunista! Raggiunti i 25 anni si sposano e hanno altri due figli. Nel 1925, Teresa si reca a Mosca. Nel ’26 fugge dall’Italia in Francia con suo marito per organizzare la Resistenza. Carcerata, viene rilasciata su pressione di Mosca e poi successivamente internata a Ravensbrück in Germania, dove i sovietici la liberano materialmente. La soggettività di una dirigente come Teresa Noce, apre due dimensioni: l’antifascismo internazionale e l’emancipazione individuale e sociale.

Teresa Noce

La tessera del partito di Teresa Noce Longo
A fine guerra, inizia la sua vita ufficiale nel partito. Fa parte della commissione dei 75, quella che ha scritto la Carta costituzionale. Teresa è nella commissione affari sociali e familiari: le sue battaglie sono per il diritto al lavoro e all’assitenza delle donne, per la parità uomo donna. Nonostante le dirigenti sembrino rispondere alle logiche di partito, Teresa Noce è uno spirito libero e indipendente. A Mosca aveva criticato Lenin e in Italia Togliatti. Si oppose anche all’articolo 7 della Costituzione che prevedeva il Concordato voluto dallo stesso e si astenne.
Punti fondamentali per lei sono l’articolo 3, gli articoli 29-30-31 che prevedono la tutela della famiglia e della maternità, non solo evento naturale, ma con una sua funzione sociale. Successivamente, le donne comuniste capiscono quanto sia importante la battaglia per il divorzio, e Teresa è la prima a soffrire di una situazione familiare anomala e dolorosa. Luigi Longo aveva chiesto a sua insaputa l’annullamento del matrimonio, di cui lei viene a conoscenza attraverso il Corriere della Sera.
Le donne sono dunque un nuovo soggetto dentro la sfera pubblica , insieme a operai e contadini e il loro ingresso e in particolare delle dirigenti è deflagrante.
La vita personale e politica di Camilla Ravera non è meno degna di interesse di quella di Teresa, tutt’altro. Di lei abbiamo Lettera al partito e alla famiglia (Editori Riuniti, 1979), Una donna sola (Lucarini, 1988; Diario di trent’anni 1913-1943 (Ed. Artigere Chiarotto,2012), Breve storia del movimento femminile (Editori Riuniti, II ristampa 1981); testi che ci permettono di ricostruire la sua biografia. Nata in provincia di Alessandria, nel 1889, seconda di sette figli, è profondamente influenzata dal padre, colto, ateo, filosocialista, e dalla madre che tramette alle figlie aspirazioni all’indipendenza e all’emancipazione. Dopo essersi diplomata, insegna lettere a Torino e si iscrive alla Scuola di magistero per approfondire gli studi di lettere e filosofia. Si avvicina al socialismo tramite suo fratello Cesare, attivo nella sezione torinese dopo i moti dell’agosto 1917, e che sarebbe diventato come lei comunista e avrebbe combattuto nelle Brigate internazionali in Spagna. Nel dopoguerra, perso un fratello, fa parte del gruppo dell’Ordine nuovo raccolto attorno a Gramsci e nel 1921 aderisce al Partito comunista, occupandosi della politica femminile. In Il nostro femminismo Camilla sosteneva l’aspirazione delle donne a conquistare l’indipendenza economica, senza trascurare il valore sociale della maternità. Nel 1922 è delegata dal Pcid’I al IV congresso dell’Internazionale comunista. Tornata a Torino, si dedica alla riorganizzazione del partito, scompaginato dagli arresti in massa dopo la Marcia su Roma: ben presto è costretta a raggiungere Umberto Terracini a Milano, rimasto solo nell’esecutivo del partito. Dopo il trasferimento del dirigente a Roma, Camilla è impegnata a riorganizzare il partito a Milano e riprende l’attività di giornalista su l’Unità e Compagna, da lei fondato.
Allontanata definitivamente dalla scuola per la “nefasta propaganda”, nel 1926 a Lione viene eletta membro del comitato centrale del partito. Nei quattro anni successivi, essendo l’unica rimasta libera, è incaricata di organizzare la nuova segreteria, assumendosi la responsabilità di prendere decisioni, il più delle volte da sola. Dopo l’arresto di Gramsci, il nuovo segretario è Togliatti, e Ravera è tra i più importanti dirigenti. L’organismo internazionale riteneva fosse giunto il momento di un cambiamento rivoluzionario anche in Italia. Dopo vari soggiorni all’estero, in Svizzera, a Mosca, e una lunga malattia ai polmoni, torna in Italia dove viene arrestata nel luglio 1930. E’ condannata a 15 anni di detenzione per reati di ricostituzione del partito comunista e propoganda sovversiva, è reclusa a Trani insieme a due altre comuniste, Felicita Ferrero e Giorgina Rossetti.
Passa il suo tempo leggendo riviste e libri; per il suo professato ateismo, veniva considerata “un’anima dannata”. Successivamente, la sua pena viene ridotta a cinque anni, ma nel 1935, la sua salute è molto precaria: destinata al confino in provincia di Matera, nel 1937 viene trasferita a Ponza dove ritrova tra i vecchi compagni Terracini, con il quale condivide l’esigenza di costituire un ampio fronte antafascista che si contrapponeva alla rigidità di dirigenti come Scoccimarro e Secchia. Allo scoppio della guerra, il direttivo emana un documento che aderiva alla tesi dell’Internazionale sull’equidistanza dagli imperialismi in guerra e escludeva l’alleanza con altri partiti antifascisti. La sua posizione e quella di Terracini, contrari al patto Molotov – Ribbentropp, costò ad ambedue l’espulsione dal partito. Nel biennio 43-45, liberata dal confino e malata, si ritira a Pinerolo, in Piemonte, dove erano sfollate le sorelle; a fine guerra “riabbracciata” pubblicamente da Toglietti, riprende la sua attività nel partito come membro del comitato centrale dove è nominata dalla segreteria di Torino e dalle donne dell’Udi (Unione donne italiane). Eletta deputata, vuoi per la sua salute fragile o per gli strascichi della rottura del 1939, non riprese più nel partito comunista un ruolo all’altezza delle sue qualità. Come deputata è firmitaria di progetti di legge a tutela della maternità e per la parità di diritti e delle retribuzioni tra uomo e donna. Pertini, suo compagno di confino, la nomina senatrice a vita nell’82. Dopo pochi anni, nell’88 muore a Roma.
Infine, Rita Montagnana, moglie di Togliatti con il quale condivide le lotte politiche, nella clandestinità e nel lungo esilio in Unione Sovietica. Nata a Torino nel 1895 nel quartiere “rosso” di San Paolo da una famiglia ebrea e di chiaro orientamento socialista ha due sorelle e un fratello, Mario, personaggio di spicco della sinistra italiana. Anche lei costretta a imparare il mestiere di sarta, aderisce agli scioperi torinesi del biennio 1909-1911, e si iscrive alla Camera del lavoro, diventando dirigente del partito socialista e ricoprendo vari incarichi. Nel 1917 partecipa alla rivolta del pane e due anni dopo al movimento dei Consigli operai e alle occupazione delle fabbriche. E’ tra le fondatrici del Partito comunista italiano e anche lei successivamente è inviata come delegata al III congresso dell’Internazionale a Mosca. Con l’avvento del fascismo, entra in clandestinità con il nome di “Marisa”. In quegli anni conosce Palmiro Togliatti con cui si sposa nel ’24 e con il quale ha l’unico figlio, Aldo. Costretti all’esilio e a spostarsi tra Svizzera, Francia, Spagna, Unione Sovietica, Rita fu una delle poche a frequentare la scuola leninista di formazione dei quadri. Ritorna in Italia nel 1944 per partecipare alla Resistenza, come leader dell’organizzazione femminile del partito. Tra le fondatrici dell’UDI, è molto attiva nella battaglia per il suffragio femminile. Viene eletta nel ’46 alla Costituente, quasi cinquantenne: è insieme a Teresa Mattei, l’ideatrice del simbolo della mimosa in occasione della giornata internazionale della donna. Nel frattempo il suo matrimonio finisce, a causa della relazione di Togliatti con Nilde Iotti. Nonostante sia senatrice alla prima e alla seconda legislatura, pian piano viene emarginata dalla vita del partito. Nel 1958 torna a Torino per dedicarsi a suo figlio Aldo gravemente malato di schizofrenia. Si dedicò a lui fino alla sua morte, nel 1979. Una vita intensa e sofferta la sua, come quella di tante altre donne, divise e lacerate tra politica e vita privata, a dimostrare tristemente che per le donne non è mai facile conciliare la dimensione affettiva con quella pubblica. E che per noi la strada è sempre in salita

Per concludere questo breve excursus, e per festeggiare l’8 marzo, ridando parola alle madri fondative, vorrei ricordare Teresa Mattei, Teresita, eletta alla Costituente a soli 25 anni, conosciuta per aver scelto la mimosa come simbolo della Giornata della donna. “La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte”. La sua storia è in La Costituente: storia di Teresa Mattei. Le battaglie della partigiana Chicchi, la più giovane madre della Costituzione di Teresa Pacini (Altraeconomia, 2011), con interviste a Luigi Scalfaro e Valerio Onida e uno scritto di Pietro Ingrao, dedicato a Teresa. La sua vita è tesa e emozionante. Nata a Quarto, Genova nel 1921, da una famiglia antifascista, suo nonno è Sigismondo Friedmann, lituano, glottologo che parla ben quarantadue lingue soleva dire: “Uomini imparate le lingue e non farete le guerre”; sua nonna materna, Teresita come lei, è laureata come le altre tre sorelle. Dopo un soggiorno a Milano la famiglia si trasferisce in provincia di Firenze; nella loro casa passeranno Natalia Ginzsburg, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Giorgio la Pira, Carlo Levi. L’opposizione al fascismo si realizza per strada, nei luoghi pubblici, e nelle cassette della posta dove verranno depositati volantini antifascisti. Il 10 giugno 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, Teresa organizza una manifestazione a Piazza San Marco, a Firenze e nel ’42, insieme al fratello Gianfranco, aderisce al partito comunista. Durante la Resistenza è una staffetta, mentre suo fratello gappista viene catturato in carcere dove si suicida per evitare le sevizie. Durante la militanza partigiana conosce il suo futuro marito Bruno Sanguinetti, figlio di un industriale filofascista, mentre il giovane è un convinto marxista che “assomiglia a Orson Welles”. Durante un viaggio verso Roma, Teresa viene catturata dai tedeschi, picchiata, seviziata, violentata, viene salvata per l’intervento di un gerarca fascista. Il 3 giugno 1944 è incaricata di far saltare un convoglio tedesco e successivamente partecipa alla liberazione di Firenze. Laureatasi, viene eletta alla Costituente e anche lei fa parte della Commissione dei 75, di cui è segretaria per l’elaborazione dell’Articolo 3. Si batte per l’inserimento delle donne in Magistratura, a questo proposito è rimasto nella storia uno scambio di battute tra lei e un deputato: “Signorina, Lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni le donne non ragionano? No, rispose Teresa, ma so che molti uomini come Lei non ragionano tutti i giorni del mese”. Impegnata per il lavoro delle donne, per la costruzione di una società più giusta, per superare gli ostacoli creati dalla mentalità corrente, dal costume, dalla tradizione, pagò sulla sua pelle l’arretratezza culturale che contraddistingueva anche il Partito comunista e i suoi dirigenti. Rimasta incinta di Bruno, il cui precedente matrimonio è in crisi, Togliatti la invita a abortire e l’addita come scandalo per il partito. Teresa, che ha già avuto forti dissidi con Togliatti per la sua linea stalinista, gli risponde: “Le ragazze madri non sono rappresentate in Parlamento, dunque le rappresenterò io”. Anche in questa occasione le donne si scontrano con il perbenismo ipocrita del PCI. Chicchi comincerà a infastidire la nomenclatura del partito e Togliatti la definirà una maledetta anarchica. Bruno e Teresa si sposeranno in Ungheria. Espulsa dal partito nel 1955 perché controcorrente e troppo autonoma, motivazione: “indegnità e politica e morale”, Teresa tornò così al suo lavoro di base, frequentando soprattutto donne da cui diceva di aver imparato la pratica di vita. Con Nilde Iotti non ebbe mai molto in comune sul piano personale. Su una cosa concordavano entrambe: “in politica le donne erano strumentalizzzate”.
Le loro vite rimangono un paradigma di impegno per le giovani, che mi auguro trovino spunti per approfondire queste esperienze.