Qualche riflessione su La memoria della Shoah: Didattica, riflessione, impegno a cura di Gianluca Attademo e Nicola Rizzuti

di Sergio Daniele Donati

 

All’abisso – così come al sublime – ci si può avvicinare, con le dovute cautele in due modi differenti ma tra loro non alternativi. Abisso – e sublime – non sono identificabili mai nella loro interezza; se ne possono descrivere le scaglie, i residui; si può farne oggetto di narrazione, raccontarne le storie. Ed è questo l’approccio del poeta a quei temi. Oppure, se ne possono ricercare le ragioni, le cause, e se ne possono descrivere i movimenti e gli esiti. Ed è questo il metodo dello storico.

Entrambe le vie, se percorse con l’etica che le caratterizza, non possono, per forza di cose ignorare che abisso – e sublime – non sono fenomeni di cui si possa cogliere l’unità, la completezza. Deve esistere dunque sia per lo storico che per il poeta una umiltà di fondo che contempli la nostra umana piccolezza di fronte a ciò che di abissale – ed anche di sublime – l’uomo stesso ha saputo creare.

La Shoah è il campo d’elezione per queste valutazioni. Esiste sempre un dato che sfugge alla comprensione del fenomeno e l’approccio razionale, scientifico e storico
necessariamente di quel dato deve tener conto, sopratutto quando si accinge a tentare non solo la descrizione della Shoah stessa, ma anche a comprenderne le ragioni profonde, soprattutto nel tentativo di trasmettere alle nuove generazioni una sorta di antidoto affinché ciò che è stato non si ripeta.

Nel testo che qui si commenta, molto più che altrove, questo rispetto di fondo si
percepisce come basso continuo di tutti gli interventi di autorevoli studiosi.
Così, ad esempio, la minuziosa descrizione delle fonti di conoscenza (da un lato) e di causazione (dall’altro) della Shoah è trattata con estrema cautela. Ed anche le riflessioni, i tentativi di spiegazione del fenomeno Shoah, di quella profonda
ferita nella cultura europea non ancora rimarginata e insuturabile, sono sempre espresse sul filo di lino sacro di un eppure battente.

Questo elemento – la consapevolezza di trattare di un tutto indistricabile, ma allo stesso tempo della necessità di svolgere quel tentativo, sopratutto ai fini didattici per le nuove generazioni – ha spostato la mia attenzione di lettore più che sulla indiscutibile competenza storica, sociologica e psicologica degli interventi, sulla spinta etica che in quest’opera si sente molto presente e pulsante.

So bene che affiancare i termini etica e ricerca storica è elemento di rischio e in
controtendenza rispetto al moderno pensiero. Eppure non credo, quando si tratta di Shoah, che la domanda battente sul senso e sulla possibilità di dare spiegazione ad un fenomeno abissalmente indescrivibile sia di poco peso. Non che questa questione sia dagli autori esplicitamente affrontata, ma la delicatezza (che ossimoro vivace parlare di descrizione delicata della Shoah) con cui il tema viene affrontato dimostra appieno che quella linea etica non è ignorata affatto da chi gli interventi ha scritto.

A parer mio questo libro è una vera lezione per le nuove generazioni, non solo sulla Shoah in sé, ma anche e, forse, soprattutto, su come si debba affrontare il tema della Shoah e con quali sostegni morali ci si possa alla stessa avvicinare.

Esiste, certo, voglio dire, una didattica della Shoah, ma quella didattica, per essere
efficace, non può non interrogarsi sui limiti di conoscibilità che la Shoah stessa ci mette di fronte. E questo il tema centrale da cui, a mio avviso, dovremmo tutti partire. Ed è lo stesso tema che, come si diceva sopra, affronta chi alla Shoah si avvicina con gli strumenti della narrazione, poetica o narrativa che sia poco conta.
Perché la domanda pressante per tutti noi non è tanto cosa sia stata la Shoah ma chi sono io, coi miei limiti, con la mia piccolezza, per cercare di com-prendere la Shoah e, per contraltare, chi sono io, con gli stessi limiti e la stessa piccolezza, per rinunciare a farlo?

E, badate bene, queste sono domande, pur se non espresse che sono alla base di questa ricerca storico-didattica di sicura profondità e valore come quella in esame.
Il testo che sto commentando lo consiglierei, anzi l’ho fatto, a mio figlio di sedici anni,
perché capisca che lavoro di razionalizzazione dell’irrazionale ci sia dietro l’attività dello storico o del sociologo. Ma lo consiglierei, e non so se avrò il coraggio di farlo, a tanti adulti, della mia stessa generazione (la seconda dopo la Shoah) che credono di poter dare alla Shoah stessa  risposte posticce e preconfezionate.

“Eh, c’è stato Weimar, la crisi economica post bellica (primo conflitto mondiale) della
Germania”. Quante volte abbiamo sentito dirci, ad esempio, che fosse questa la sorgente dell’abisso con la sicumera di chi alla Shoah pretende di dare un causa sola. Ecco, con estremo piacere mio di lettore, in questo testo la banalizzazione della cause non è presente, anzi questo, in tutti i suoi interventi, è un testo che incita il lettore a comprendere la fatica enorme che esiste nella raccolta dei dati e, soprattutto, nella loro interpretazione. Per questo parlo dell’etica sottesa a questo testo e per questo lo consiglierei a persone molto diverse tra loro per età, esperienza di vita e cultura.

Ragionamento su Rosa Mangini- di Daniela Piana

di Daniela Piana

«L’unica guerra vinta
è quella che si smette di combattere»

ROSALYN VIVIENNE MANGINI

Un ritratto di Rosa Mangini

Nessuno sente il profumo delle ginestre quando, dopo la tempesta, sbarca su una costa che credeva di non poter toccare più. Sente invece che il vento si è calmato, la vela ha smesso di urlare gonfiata e sferzata dagli elementi di cui è stato in balìa. Pochi fanno caso al «rumore della salvezza», tranne quando coincide con una ricostruzione a una certa distanza dai fatti. Basti pensare alla guerra. Il giorno dopo la fine si ode il silenzio degli ordigni caduti, e quel languido sapore dolce che è l’essere salvi. Nella liberazione dalle tenaglie dell’incerto, dalle incursioni delle tenebre interiori nel chiarore degli animi che colmano di scheletri la trama sociale, vi è la luce di un’alba: la possibilità. E proprio perché possibile, è libera da ciò che non la rendeva possibile, benché indeterminata.

La liberazione, infatti, è più questione del domani che di uno e di tanti ieri. Perché il 25 aprile e i giorni a seguire si avvertì l’assenza di quanto prima si era mangiato la vita. Animare quella assenza e farla diventare una presenza chiede un’energia coraggiosa e umanissima. La presenza, del resto, è più forte di qualunque tempesta. Oggi esperiamo quella presenza, o neppure la sappiamo più dire? La ribellione è qualcosa di estemporaneo, destinato a finire appunto in quell’alba che rimane ad esprimere la possibilità? La risposta è in ciò che tiene uniti, nel senso comunitario che è collante della società. E la storia è punteggiata di prove, di vicende nelle quali ancora prima di giungere a una salvezza materiale si è passati per quella spirituale, in cui un gruppo di uomini uniti gli uni agli altri si sono rivelati il tappo che trattiene l’aroma, la cerniera che argina la falla e fa navigare – ancora, e più saldi – sulle onde dell’identità.

La rivoluzione forse domani- Divergenze

Rosa Mangini racconta, anzi, offre il diario dal vero di com’è nata e si è sviluppata quella salvezza spirituale prima che materiale; come e tramite chi, con tanto di nomi, luoghi e fatti. In quei nomi, luoghi e fatti c’è la storia delle storie di un mondo che ha tramutato la speranza, fatta proprio di coesione e affinità di idee, vedute e valori, in una promettente opportunità. Alla quale, con il comodo ma sincero senno di poi, le generazioni a venire debbono molto. Forse, tutto. Non è dato sapere se e in quante altre aree d’Italia si siano verificati episodi come quelli narrati dall’autrice, ma i fatti del romanzo tendono a dimostrare come il ragionamento sulla salvezza materiale preparata da un atteggiamento spirituale, ne abbia agevolati di identici anche altrove.

 

Una copia del manoscritto

Certo, non c’era un’altra penna a salvarli su carta, ma la psiche dell’individuo è figlia di quella del gruppo, e il gruppo che la plasma è cresciuto nella «educazione all’attenzione» che per Simone Weil (ne) determina la cultura. Perciò la rivoluzione è un “tornare e rivoltare” in un approdo di imperfetta conoscenza eppure da conoscere, è un embrione vivo nelle formule emotive del popolo attraverso cui tentare di annullare, o almeno ridurre, gli elementi di inquietudine, di sofferenza o di tragedia. La rivoluzione che invera la promessa di un’esistenza migliore, che porta con sé la capacità di esserci anche per chi la pensa e la penserà diversamente da noi, è proprio in quel tornare e rivoltare libero dalla violenza di ripartire da capo, cioè da un’idea che domini, sinottica e foriera di verità, che non si confronta volentieri col dissenso

 Quella rivoluzione è collettiva e lavora sulla consapevolezza, dunque è lontana dalle odierne forme di pluralismo che, secondo Robert Wolff, è del tutto «cieco di fronte ai mali che affliggono l’intero corpo sociale» perché diverge l’attenzione dalle revisioni radicali necessarie a porre rimedio a quei mali. E La rivoluzione, forse domani è un viaggio che ognuno dovrebbe fare dentro di sé, perché è un viaggio di cittadinanza attiva e vissuta nell’esperienza del “fare il pane di ogni giorno”. Un pane che chiede parsimonia nel consumo, però profuma e sazia la fame di buono, che prevede un tempo di gestazione come tutte le cose nelle quali la natura umana si manifesta, ed è fatto per essere al centro di un tavolo conviviale. Quello sarebbe, in fondo, lo Stato di diritto: prima di ogni rigida scrittura, l’interazione con l’alterità

. Nella sua sostanza vi è un grido senz’armi di offesa, piuttosto di difesa dei rapporti, di cura della vicinanza. Rosa Mangini dà a intendere come quattro anni prima del fatidico 25 aprile quel «domani» era un «forse» difficile eppure intatto, possibile, grazie a quella cura ancora viva in un presente semplice, mai fuori misura. Per questo il nostro presente, frutto della analisi critica dei fatti storici, dovrebbe essere libero da una progettualità ingegneristica che arroga in sé quanto serve per fare il comodo tramite il superfluo, in favore di quanto è utile a «fare bene per ognuno» affinché nell’ognuno ci siano l’oggi e il domani.

Il 25 aprile 1945 si aprì uno squarcio nel cielo, e il cielo fu diviso. Per giorni, anzi, per mesi il fiat iustitia come vendetta galleggiò nell’aria e nell’animo di molti, quasi fosse promessa del ripristino di un ordine che – però – nulla aveva della cura dell’altro, pertanto non prevalse. Più forte fu il ridare vita al tessuto sociale, tornare subito a fare pane e ciò che tiene insieme con le forme del diritto che Piero Calamandrei avrebbe messo nelle azioni e nel pensiero di tutti, a partire dai giovani.

La grande sfida di oggi è qui. Agire liberati dalla presunzione dell’idea perfetta ex ante, per rivolgersi al presente e quindi al futuro con la forza con cui i narcisi, a dispetto di ogni gelo, alluvione o siccità, torneranno ad annunciare la primavera.

Lucia Sánchez Saornil. Un’anarchica femminista nella Spagna del secolo scorso

 

di Ivana Rinaldi

Un ritratto di Lucia Sanchez Saornil

 

 

“L’archivio parla di “lei” e la fa parlare. Motivato dall’urgenza un primo gesto si impone: ritrovarla come si recupera una specie estinta, una flora sconosciuta, abbozzare il ritratto come per rimediare a una dimenticanza, consegnarne le tracce come si espone una morta”.

E’ con questa citazione di Arlette Farges, Il piacere dell’archivio, che si apre il saggio della giovane studiosa Michela Cimbalo, Ho sempre detto noi. Lucia Sánchez Saornil, femminista e anarchica nella Spagna della Guerra Civile. (Viella, 2020). La storia di questa donna è magnetica e affascinante. Militante anarchica, femminista, sindacalista, fondatrice di Mujeres Libres, attiva durante la guerra civile, poeta, intellettuale autodidatta, cantadora dell’amore libero e omesessuale. Lucia è stata tutto questo. Così vero che in un  viale del Cemeterio General di Valencia, un gruppo di donne si riunisce ogni anno con mazzi di fiori, pugni chiusi e bandiere anarchiche, intorno a una lapide di pietra grigia sulla quale è incisa la frase: “Ma è vero che la speranza è morta?”. Negli ultimi anni l’interesse verso Lucia Sánchez si è fatto sempre più vivo e ha prodotto documentari, video, studi, tra cui quello di Michela Cimbalo, un testo che non si limita a ricostruire la sua vita – nata nel 1895 e morta nel 1970 – ma anche il contesto storico e culturale della Spagna del ‘900 e in particolare la condizione delle donne spagnole che non è molto diversa da quella delle donne italiane.

Lucia nasce a Madrid da una famiglia povera in un edificio basso, altrettanto povero, posizionato in cima a una strada ripida che scende dal paseo di Embajoderes, nella periferia sud. Rimasta presto orfana di madre, si deve far carico del padre e della sorella malata, ma non smette di leggere e studiare, tanto da iniziare a scrivere poesie e pubblicarle su un modesto settimanale, e a poco più di vent’anni diventa l’unica donna dell’ ultraismo, avanguardia aperta al futurismo e al dadaismo. Della sua poesia si è occupata Rosa María Martin Casamitjana attratta, nello studiare il movimento diffuso negli anni Venti in Spagna e in Argentina da Borges, da Lucia, unica tra tanti uomini a far parte dell’ultraismo. La giovane ricorreva a uno pseudonimo maschile, Luciano De San Soar, per firmare le sue poesie. Da dove viene la scelta di firmarsi con un nome maschile? Probabilmente per ottenere credito negli ambienti letterari, ma forse anche perché Lucia era omosessuale.

Lo testimonia sin da giovane il suo abbigliamento, il taglio dei capelli, e in seguito le sue scelte sentimentali: durante il periodo dell’esilio dopo la caduta della Catalogna nel 1939, vive con Ameríca Barros, detta Mery. Lucia e Mery si erano conosciute nel 1937 e non si sono più lasciate per tutta la vita. I parenti di Mery hanno accolto Lucia come una di famiglia, anche se per molto tempo la sua omosessualità viene sottovalutata da chi la studia: perché Lucia sembra avesse sempre mantenuto una certa discrezione sulla sua vita privata. Eppure i suoi versi sono ricchi di esplicito desiderio per il corpo femminile, le piace giocare con l’identità di genere e alludere alla propria sessualità “dissidente”in un’epoca in cui l’amore tra donne era visto come una malattia o una perversione.

Negli archivi esistono tracce deboli di Lucia Sánchez, eppure, tra vecchie riviste, fonti di polizia di più paesi, volantini e produzioni cinematografiche, corrispondenze di esponenti del mondo dell’anarchismo internazionale, spuntano i tracciati delle sue molteplici attività:

“Ogni tassello che si aggiunge alla ricostruzione della sua vita apre scorci su altre storie, su vicende talvolta sconosciute, in cui micro e macro si intrecciano, ponendo nuovi interrogativi e curiosità” (MichelaCimbalo, Lucia Sánchez cit., p. 15).

Lasciata l’attività e gli ambienti letterari alla fine degli anni Venti, si dedica anima e corpo al movimento anarchico militando nella Cnt (Confederación Nacional de Trabajo), il sindacato più potente di Spagna. Tiene lezioni per i lavoratori, scrive per la stampa anarchica tanto da entrare negli anni Trenta nella redazione del quotidiano nazionale del sindacato, anche in questo caso unica nel collettivo tutto maschile. Convinta sostenitrice della necessità di un’azione rivoluzionaria che abbattesse il sistema capitalista, avversa a ogni forma di potere statuale,  riteneva, come già Alexandra Kollontay in Unione Sovietica, che per giungere a una trasformazione radicale della società andava portato avanti un profondo cambiamento del rapporto tra i sessi, bisognava sovvertire lo status quo che teneva relegate le donne in un’intollerabile posizione di subalternità.

Nei suoi scritti Lucia affronta il tema del matrimonio, critica la doppia morale mai cancellata dall’aspirazione libertaria all’amore libero, afferma che la maternità rappresenta una delle tante possibilità di scelta per le donne e non un imperativo legato al destino biologico: una tesi avversata anche negli ambienti anarchici: “Una donna senza figli è un albero senza frutti, un rosaio senza rose”, sosteneva Federica Montseny.

E da queste premesse che nel 1936 nasce Mujeres Libres fondata da Lucia Sánchez, Mercedes Camoposada e Amparo Poch, insieme a una rivista dallo stesso nome. L’organizzazione femminile non è una sezione femminile per garantirsi il voto delle donne introdotto in Spagna nel 1931, ma fortemente autonoma, conduce le sue battaglie per la libertà e pratica un femminismo proletario e di classe, senza staccarsi dai principi dell’anarchismo. L’organizzazione composta di sole donne, arriva a contare più di 20.000 aderenti . Si prefigge sia l’intento di sostenere il fronte repubblicano, sia gli esperimenti rivoluzionari e le battaglie per l’autodeterminazione delle donne, doppiamente sfruttate, come lavoratrici, e in quanto donne. Da segretaria e redattrice della rivista, Lucia conduce le sue battaglie con articoli, reportage dal fronte, programmi radio, fino a diventare nel ’37 segreteria della Società Internazionale Antifascista. Creata dalla CNT per sollecitare all’estero aiuti e solidarietà.

Nel 1939, dopo la vittoria di Franco, anche Lucia deve intraprendere insieme ad Amėrica (Mery) Barroso la via dell’esilio, in Francia dove l’aspetta l’ostilità di un governo che disperde gli esuli in vari campi di concentramento. Nel ’42, dopo la minaccia di essere deportata nella Germania nazista decide di ritornare clandestinamente in Spagna, dove lei e Mery conducono una vita di difficoltà e privazioni rischiando di continuo di essere arrestate in quanto anarchiche, repubblicane e lesbiche.

Accolte nella casa di Valencia della famiglia Barroso si guadagnano da vivere con lavori modesti, confezionando retine per capelli, lavorando per un laboratorio di fotografia, finché Mery non viene assunta al consolato argentino e Lucia si inventa pittrice di ventagli. Sono di questo ultimo periodo le sue poesie più belle che rivelano il desiderio di non arrendersi, differenti da quelle del periodo ultraista: sono in parte raccolte in un volume curato da Rosa María Martín Casamitjana (Pre-Textos, 1996) in cui emergono le paure, i dubbi, la malattia, la sconfitta, mai la negazione di tutto ciò in cui ha creduto.

Sempre ho detto “noi”.

E la parola aveva l’ampiezza del coro

suonava come un organo dai mille registri.

Noi era una moltitudine

di calde mani tese,

pane condiviso

guanciale accogliente;

era un cuore unanime:

l’intescambio di lacrime e sorriso.

Era un campo di spighe

Che il vento inclina in una sol direzione

-ogni lettera una goccia di umanità profonda –

dire “noi” era consumare un vino

Di cordialità fino all’ubriachezza.

 

Teresa, Camilla e le altre.

di Ivana Rinaldi

Anni fa, vi era tra i miei progetti una ricerca sulle donne del Partito comunista. Fui scoraggiata dal mio maestro, Enzo Santarelli, convinto che non ci fossero elementi per tracciare una storia “altra” delle dirigenti comuniste da quella dei loro compagni di partito. Il recente anniversario della scissione di Livorno ha rivelato, invece, quanto lavoro vi sia ancora da fare a questo proposito. Lo si deve fare per almeno due ragioni: sappiamo troppo poco delle donne del passato, anche di quelle che hanno avuto un ruolo fondamentale sul piano internazionale. Le biografie sono una strada obbligata per la storiografia che si occupa di donne dimenticate o uscite di scena. A questo proposito abbiamo un punto di riferimento in Joan Scott, Only Paradoxes to offer (Harvard University Press, 1996) e in Paola di Cori, Altre storie. La critica femminista alla storia (Clueb, 1996).

Joan Scott

Il secondo motivo non meno importante è provare a individuare come si collocano le vicende personali delle donne in un  contesto prevalentemente di natura maschile, come il partito, e quanto incida il diverso sentire femminile sulle scelte politiche dell’organizzazione partitica. Un problema ancora attuale e che andrebbe analizzato seguendo le categorie di uguaglianza e differenza. Detto in parole semplici, le atttiviste in politica si sono sempre impegnate per la parità di genere nel rivendicare l’uguaglianza dei diritti civili, sociali, politici, economici. In molte lo hanno fatto a partire dal loro essere donne non solo impegnandosi per le loro simili, ma portando alla politica un valore in più: la loro sensibilità, il diverso sentire e la loro esperienza. Questo lavoro di scavo e di “archeologia della memoria” (rubo l’espressione a Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi,( Iacobelli, 2020) andrebbe fatto per le donne del passato, per coloro che hanno avuto un ruolo nei partiti italiani di diversa matrice, ma anche per politiche e pensatrici nel contesto internazionale.

Molto è stato già fatto da studiosi/e che si si sono occupate di ricostruire la vita di grandi dirigenti come Rosa Luxemburg, Una donna chiamata rivoluzione di Sergio Dalmasso (RedStar press, 2019), abbiamo inoltre un lavoro di Patrizia Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista (Carocci, 1999). Attraverso le carte di numerosi archivi, sia privati che pubblici, la studiosa ricostruisce molti e variegati percorsi biografici e politici, di modelli di militanza e dello scarto tra questi e la realtà esistenziale. Nel volume si racconta di tre generazioni di donne e di varia estrazione sociale: maestre, alle quali viene dedicato un ampio spazio soprattutto al lor tentativo fallito già nel 1922 di creare guppi femminili autonomi nel Pcd’I; operaie e proletarie molte delle quali passano alla clandestinità durante le ondate di arresti; le casalinghe; dall’altro lato, le dirigenti che sostituiscono gli uomini: i nomi più celebri, Camilla Ravera, Teresa Noce, Adele Bei, accompagnati da molte altre.

Il prezzo più alto che queste donne pagano negli anni duri della repressione fascista riguarda la scelta radicale tra militanza politica e sentimenti.In questo breve articolo, vorrei raccontare di  alcune militanti di spicco del Partito comunista sin dalle origini che hanno un ruolo determinante nel passaggio dal regime totalitario fascista alla Repubblica e la democrazia. In particolare Camilla Ravera e Teresa Noce, rivoluzionaria professionale come si definisce nel suo diario e sulla quale è uscito di recente il libro di Anna Tonelli, Nome di battaglia Estella. Teresa Noce una donna comunista del Novecento  (Le Monnier Quaderni di storia, 2020). La sua vita è un romanzo vissuta all’insegna dell’impegno politico, e non solo, e la sua biografia costituisce un modello

. Nata povera, non va a scuola, da bambina all’età di 11/12 anni lavora da sarta, poi da operaia. Partecipa alla svolta di Livorno, a Milano incontra Luigi Longo e si ritrova a 19 anni in attesa del loro primo figlio. La famiglia di Longo non l’accetta, il dirigente non può sposare una donna brutta, povera e comunista! Raggiunti i 25 anni si sposano e hanno altri due figli. Nel 1925, Teresa  si reca a Mosca. Nel ’26 fugge dall’Italia in Francia  con suo marito per organizzare la Resistenza. Carcerata, viene rilasciata su pressione di Mosca e poi successivamente internata a Ravensbrück in Germania, dove i sovietici la liberano materialmente. La soggettività di una dirigente come Teresa Noce, apre due dimensioni: l’antifascismo internazionale e l’emancipazione individuale e sociale.

Teresa Noce

La tessera del partito di Teresa Noce Longo

A fine guerra, inizia la sua vita ufficiale nel partito. Fa parte della commissione dei 75, quella che ha scritto la Carta costituzionale. Teresa è nella commissione affari sociali e familiari: le sue battaglie sono per il diritto al lavoro e all’assitenza delle donne, per la parità uomo donna. Nonostante le dirigenti sembrino rispondere alle logiche di partito, Teresa Noce è uno spirito libero  e indipendente. A Mosca aveva criticato Lenin e in Italia Togliatti. Si oppose anche all’articolo 7 della Costituzione che prevedeva il Concordato voluto dallo stesso e si astenne.

Punti fondamentali per lei sono l’articolo 3, gli  articoli 29-30-31 che prevedono la tutela della famiglia e della maternità, non solo evento naturale, ma con una sua funzione sociale. Successivamente, le donne comuniste capiscono quanto sia importante la battaglia per il divorzio, e Teresa è la prima a soffrire di una situazione familiare anomala e dolorosa. Luigi Longo aveva chiesto a sua insaputa l’annullamento del matrimonio, di cui lei viene a conoscenza attraverso il Corriere della Sera.

Le donne sono dunque  un nuovo soggetto dentro la sfera pubblica , insieme a operai e contadini e il loro ingresso e in particolare delle dirigenti è deflagrante.

La vita personale e politica di Camilla Ravera  non è meno degna di interesse di quella di Teresa, tutt’altro. Di lei abbiamo Lettera al partito e alla famiglia (Editori Riuniti, 1979), Una donna sola  (Lucarini, 1988; Diario di trent’anni 1913-1943 (Ed. Artigere Chiarotto,2012), Breve storia del movimento femminile (Editori Riuniti, II ristampa 1981); testi che ci permettono di ricostruire la sua biografia. Nata in provincia di Alessandria, nel 1889, seconda di sette figli, è profondamente influenzata dal padre, colto, ateo, filosocialista, e dalla madre che tramette alle figlie aspirazioni all’indipendenza e all’emancipazione. Dopo essersi diplomata, insegna lettere a Torino e si iscrive alla Scuola di magistero per approfondire gli studi di lettere e filosofia. Si avvicina al socialismo tramite suo fratello Cesare, attivo nella sezione torinese dopo i moti dell’agosto 1917, e che sarebbe diventato come lei comunista e avrebbe combattuto nelle Brigate internazionali in Spagna. Nel dopoguerra, perso un fratello, fa parte del gruppo dell’Ordine nuovo raccolto attorno a Gramsci e nel 1921 aderisce al Partito comunista, occupandosi della politica femminile. In Il nostro femminismo Camilla sosteneva l’aspirazione delle donne a conquistare l’indipendenza economica, senza trascurare il valore sociale della maternità. Nel 1922 è delegata dal Pcid’I al IV congresso dell’Internazionale comunista. Tornata a Torino, si dedica alla riorganizzazione del partito, scompaginato dagli arresti in massa dopo la Marcia su Roma: ben presto è costretta a raggiungere Umberto Terracini a Milano, rimasto solo nell’esecutivo del partito. Dopo il trasferimento del dirigente a Roma, Camilla è impegnata a riorganizzare il partito a Milano e riprende l’attività di giornalista su l’Unità e Compagna, da lei fondato.

Allontanata definitivamente dalla scuola per la “nefasta propaganda”, nel 1926 a Lione viene eletta membro del comitato centrale del partito. Nei quattro anni successivi, essendo l’unica rimasta libera, è incaricata di organizzare la nuova segreteria, assumendosi la responsabilità di prendere decisioni, il più delle volte da sola. Dopo l’arresto di Gramsci, il nuovo segretario è Togliatti, e Ravera è tra i più importanti dirigenti. L’organismo internazionale riteneva fosse giunto il momento di un cambiamento rivoluzionario anche in Italia. Dopo vari soggiorni all’estero, in Svizzera, a Mosca, e una lunga malattia ai polmoni, torna in Italia dove viene arrestata nel luglio 1930. E’ condannata a 15 anni di detenzione per reati di ricostituzione del partito comunista e propoganda sovversiva, è reclusa a Trani insieme a due altre comuniste, Felicita Ferrero e Giorgina Rossetti.

Passa il suo tempo leggendo riviste e libri; per il suo professato ateismo, veniva considerata “un’anima dannata”. Successivamente, la sua pena viene ridotta a cinque anni, ma nel 1935, la sua salute è molto precaria: destinata al confino in provincia di Matera, nel 1937 viene trasferita a Ponza dove ritrova tra i vecchi compagni Terracini, con il quale condivide l’esigenza di costituire un ampio fronte antafascista che si contrapponeva alla rigidità di dirigenti come Scoccimarro e Secchia. Allo scoppio della guerra, il direttivo emana un documento che aderiva alla tesi dell’Internazionale sull’equidistanza dagli imperialismi in guerra e escludeva l’alleanza con altri partiti antifascisti. La sua posizione e quella di Terracini, contrari al patto Molotov – Ribbentropp, costò ad ambedue l’espulsione dal partito. Nel biennio 43-45, liberata dal confino e malata, si ritira a Pinerolo, in Piemonte,  dove erano sfollate le sorelle; a fine guerra “riabbracciata” pubblicamente da Toglietti, riprende la sua attività nel partito come membro del comitato centrale dove è nominata dalla segreteria di Torino e dalle donne dell’Udi (Unione donne italiane). Eletta deputata, vuoi per la sua salute fragile o per gli strascichi della rottura del 1939, non riprese più nel partito comunista un ruolo all’altezza delle sue qualità. Come deputata è firmitaria di progetti di legge a tutela della maternità e per la parità di diritti e delle retribuzioni tra uomo e donna. Pertini, suo compagno di confino, la nomina senatrice a vita nell’82. Dopo pochi anni, nell’88 muore a Roma.

Infine, Rita Montagnana, moglie di Togliatti con il quale condivide le lotte politiche, nella clandestinità e nel lungo esilio in Unione Sovietica. Nata a Torino nel 1895 nel quartiere “rosso” di San Paolo da una famiglia ebrea e di chiaro orientamento socialista ha due sorelle e un fratello, Mario, personaggio di spicco della sinistra italiana. Anche lei costretta a imparare il mestiere di sarta, aderisce agli scioperi torinesi del biennio 1909-1911, e si iscrive alla Camera del lavoro, diventando dirigente del partito socialista e ricoprendo vari incarichi. Nel 1917 partecipa alla rivolta del pane e due anni dopo al movimento dei Consigli operai e alle occupazione delle fabbriche. E’ tra le fondatrici del Partito comunista italiano e anche lei successivamente è inviata come delegata al III congresso dell’Internazionale a Mosca. Con l’avvento del fascismo, entra in clandestinità con il nome di “Marisa”. In quegli anni conosce Palmiro Togliatti con cui si sposa nel ’24 e con il quale ha l’unico figlio, Aldo. Costretti all’esilio e a spostarsi tra Svizzera, Francia, Spagna, Unione Sovietica, Rita fu una delle poche a frequentare la scuola leninista di formazione dei quadri. Ritorna in Italia nel 1944 per partecipare alla Resistenza, come leader dell’organizzazione femminile del partito. Tra le fondatrici dell’UDI, è molto attiva nella battaglia per il suffragio femminile. Viene eletta nel ’46 alla Costituente, quasi cinquantenne: è insieme a Teresa Mattei, l’ideatrice del simbolo della mimosa in occasione della giornata internazionale della donna. Nel frattempo il suo matrimonio finisce, a causa della relazione di Togliatti con Nilde Iotti. Nonostante sia senatrice alla prima e alla seconda legislatura, pian piano viene emarginata dalla vita del partito. Nel 1958 torna a Torino per dedicarsi a suo figlio Aldo gravemente malato di schizofrenia. Si dedicò a lui fino alla sua morte, nel 1979. Una vita intensa e sofferta la sua, come quella di tante altre donne, divise e lacerate tra politica e vita privata, a dimostrare tristemente che per le donne non è mai facile conciliare la dimensione affettiva con quella pubblica. E che per noi la strada è sempre in salita

Per concludere questo breve excursus, e per festeggiare l’8 marzo, ridando parola alle madri fondative, vorrei ricordare Teresa Mattei, Teresita, eletta alla  Costituente a soli 25 anni, conosciuta per aver scelto la mimosa come simbolo della Giornata della donna. “La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte”. La sua storia è in La Costituente: storia di Teresa Mattei. Le battaglie della partigiana Chicchi, la più giovane madre della Costituzione di Teresa Pacini (Altraeconomia, 2011), con interviste a Luigi Scalfaro e Valerio Onida e uno scritto di Pietro Ingrao, dedicato a Teresa. La sua vita è tesa e emozionante. Nata a Quarto, Genova nel 1921, da una famiglia antifascista, suo nonno è Sigismondo Friedmann, lituano, glottologo che parla ben quarantadue lingue soleva dire: “Uomini imparate le lingue e non farete le guerre”; sua nonna materna, Teresita come lei, è laureata come le altre tre sorelle. Dopo un soggiorno a Milano la famiglia si trasferisce in provincia di Firenze; nella loro casa passeranno Natalia Ginzsburg, Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Giorgio la Pira, Carlo Levi. L’opposizione al fascismo si realizza per strada,  nei luoghi pubblici, e nelle cassette della posta dove verranno depositati volantini antifascisti. Il 10 giugno 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, Teresa organizza una manifestazione a Piazza San Marco, a Firenze e nel ’42, insieme al fratello Gianfranco, aderisce al partito comunista. Durante la Resistenza è una staffetta, mentre suo fratello gappista viene catturato in carcere dove si suicida per evitare le sevizie. Durante la militanza partigiana conosce il suo futuro marito Bruno Sanguinetti, figlio di un industriale filofascista, mentre il giovane è un convinto marxista che “assomiglia a Orson Welles”. Durante un viaggio verso Roma, Teresa viene catturata dai tedeschi, picchiata, seviziata, violentata, viene salvata per l’intervento di un gerarca fascista. Il 3 giugno 1944 è incaricata di far saltare un convoglio tedesco e successivamente partecipa alla liberazione di Firenze. Laureatasi, viene eletta alla Costituente e anche lei fa parte della Commissione  dei 75, di cui è segretaria per l’elaborazione dell’Articolo 3. Si batte per l’inserimento delle donne in Magistratura, a questo proposito è rimasto nella storia uno scambio di battute tra lei e un deputato: “Signorina, Lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni le donne non ragionano? No, rispose Teresa, ma so che molti uomini come Lei non ragionano tutti i giorni del mese”. Impegnata per il lavoro delle donne, per la costruzione di una società più giusta, per superare gli ostacoli creati dalla mentalità corrente, dal costume, dalla tradizione, pagò sulla sua pelle l’arretratezza culturale che contraddistingueva anche il Partito comunista e i suoi dirigenti. Rimasta incinta di Bruno, il cui precedente matrimonio è in crisi, Togliatti la invita a abortire e l’addita come scandalo per il partito. Teresa, che ha già avuto forti dissidi con Togliatti per la sua linea stalinista, gli risponde: “Le ragazze madri non sono rappresentate in Parlamento, dunque le rappresenterò io”. Anche in questa occasione le donne si scontrano con il perbenismo ipocrita del PCI. Chicchi comincerà a infastidire la nomenclatura del partito e Togliatti la definirà una maledetta anarchica. Bruno e Teresa si sposeranno in Ungheria. Espulsa dal partito nel 1955 perché controcorrente e troppo autonoma, motivazione: “indegnità e politica e morale”, Teresa tornò così al suo lavoro di base, frequentando soprattutto donne da cui diceva di aver imparato la pratica di vita. Con Nilde Iotti non ebbe mai molto in comune sul piano personale. Su una cosa concordavano entrambe: “in politica le donne erano strumentalizzzate”.

Le loro vite rimangono un paradigma di impegno per le giovani, che mi auguro trovino spunti per approfondire queste esperienze.

 

Donne, guerra e resistenza. Una ricerca in movimento.

di Ivana Rinaldi

Negli anni Settanta del secolo scorso, la storiografia della Resistenza incontra la storia delle donne e  fa debuttare la memoria negli studi sulla guerra, come ci diceva Anna Bravo. In una sorta di convergenza tra campi distinti di ricerca – storia sociale – storia orale – storia di genere – l’attenzione si è concentrata sulla soggettività femminile individuando nelle donne un agente di cambiamento nel contesto delle dinamiche sociali e politiche della guerra e del dopoguerra. Si sono analizzati i singoli percorsi esistenziali in relazione al tessuto sociale di appartenenza, alla vita quotidiana, ai mutamenti di costume e di mentalità che il secondo conflitto e l’occupazione nazista hanno prodotto. Non necessariamente esse affondano le proprie radici nella dimensione politica e ideologica, ma possono anche scaturire da elementi contingenti e “privati”. Giovanni De Luna, analizzando i singoli percorsi di vita nel suo Donne in oggetto. L’antifascismo italiano (1922-1939), parla di “antifascismo esistenziale” e mostra come la scelta antifascista sia piuttosto nata da una loro diversa visione del mondo.

In un mio lontano lavoro del 1996 “ Donne e resistenza. Una rassegna bibliografica” (in Storia e problemi contemporanei, n.17, a IX, 1996), sollecitato anche dal cinquantenario della Resistenza, emergeva una gran mole di lavoro, in parte decodificato, in parte da catalogare e interpretare. Tuttavia usciva dall’ombra l’universo femminile nel contesto dell’Italia del ’43-’45 e alla luce degli studi che introducevano la categoria di resistenza civile (Sémeline in Francia, Anna Bravo e Alessandro Portelli in Italia), non necessariamente contrapposta alla resistenza armata, si è potuta individuare la presenza delle donne nel conflitto. Molte sono le partigiane riconosciute, 35.000, 2.750 vennero fucilate, solo 15 ricevettero la medaglia d’oro. Moltissime svolgono un insieme di compiti essenziali alla comunità e per la sua tutela materiale e simbolica. Poche di loro usano le armi accanto ai loro compagni, sia per una certa avversione personale, sia per i tanti tabù, gli stessi che impedirono alle donne di sfilare insieme agli uomini dopo la Liberazione. Eppure alcune rivendicarono la loro scelta di farlo, sentendosi prima patriote e poi cittadine a pieno titolo. Durante i due anni di guerra di Liberazione, donne di ogni età e di ogni ceto sociale, antifasciste, intellettuali, operaie, studentesse, volontariamente si prendono l’incarico di provvedere al trasporto di armi, munizioni, della stampa, a tenere i contatti tra le formazioni partigiane e i comandi, e si impegnano in  tutti quei lavori di cura che appartengono all’esperienza femminile: dare rifugio agli sbandati, cucinare, preparare il pane, curare i partigiani feriti, recuperare i corpi dei caduti e seppellirli.

Ci sono due raccolte di testimonianze femminili che rappresentano uno spartiacque nella ricerca. Il primo del 1976 e riedito nel 2003 con la prefazione di Anna Bravo è La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, il quale segna il passaggio da una memorialistica commemorativa, commossa, retorica, alla prima vera e propria raccolta di testimonianze di donne resistenti. Dalle memorie risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, la capacità di soffrire, il rispetto dei fatti e dei sentimenti: la generosità, la modestia, la pietà, confermando quello che già aveva intuito Pirenne: i sentimenti influenzano la sfera pubblica, come questa, a sua volta, la sfera privata. I gesti e i sentimenti. Le donne nella Resistenza bresciana del 1990, a cura di Luisa Passerini conferma pienamente questa intuizione. Il lavoro affidato a un gruppo di studiosi e studiose, indica un metodo e un approccio più complesso e raffinato costituito da una griglia per la raccolta delle memorie, dove la parola esperienza è posta a capo di ogni capitolo ad indicare che un nuovo soggetto sociale caratterizzato da una sua diversità entra in gioco nella sfera pubblica e narrativa.

La bibliografia è costituita da numerose tipologie di fonti: scritte, come biografie, diari, autobiografie, epistolari, e orali. Tra queste, potremmo inserire anche i romanzi, primo fra tutti L’ Agnese va a morire di Renata Viganò,  il romanzo di Rosa Mangini, La rivoluzione forse domani, di cui abbiamo parlato di recente su Bibliovorax, edito da Divergenze nel 2019. Tuttavia di qualunque fonte si avvalga, la scrittura sulla guerra e la resistenza ha bisogno di tradurre nell’ordine del discorso la rappresentazione di vissuti, interni e esterni. Nello scenario plurale della guerra il mutamento di attori e ruoli è un elemento caratterizzante come lo è l’andamento narrativo al cui centro si colloca una moltiplicazione delle immagini, in cui si snoda il rapporto tra pubblico e privato, ma anche quello che Luisa Passerini ha definito la dialettica tra eventi e simboli. Il procedere per immagini è in molti lavori di storia sociale il modo più efficace di rendere una memoria spezzata e radicata nel trauma. Con il potere della memoria ci si salva in mille modi: la sofferenza, la paura, vengono allontanate ricordando episodi di tipiche virtù e astuzie femminili: quando si offre un bicchiere di vino al nemico o improvvisando una tarantella per evitare che venga requisito il vino comprato al mercato nero. Qualche volta, è necessario allontanare dal racconto i sentimenti e tenerli sotto controllo, con la funzione di salvaguardare dal dolore risvegliato. La reticenza a dire di sé è ancor più forte, quando si tratta di parlare delle violenze subite sia ad opera dei tedeschi che dell’Esercito di liberazione. A questo proposito abbiamo un lavoro uscito di recente di Marinella Fiume, Le ciociare di Capizzi (Iacobelli editore, 2020), frutto di una lunga ricerca sia negli archivi, ma sopratutto attraverso le voci delle  nipoti di quelle donne che nella Sicilia orientale, raccontano le violenze subite dalle loro antenate, per opera dei Goumiers  (marocchini e nordafricani dell’esercito francese guidati dal generale Alphonse Juin), durante l’operazione militare denominata in codice Husky.

A 75 anni da quei tragici eventi, le giovani hanno contribuito a scavare fino in fondo, a fare “archeologia della memoria” per capire questa moderna tragedia femminile: “perché ricordare significa conoscere e capire e questa è una storia che si è ripetuta e si ripete in ogni secolo e in ogni angolo del mondo” (p.11). Proprio in questi casi la memoria e la scrittura assumono una valenza salvifica, facendo risuonare la voce perduta, producendo visioni e immagini cancellate. In questo movimento all’indietro, la memoria entra in contatto con ciò che la guerra non riesce a distruggere. Se in qualche modo possiamo leggere le singole memorie come espressione di soggettività, possiamo anche interpretarle come una voce corale secondo le indicazioni di Irina Ṧcerbakova che usa la categoria di ipertesto a proposito della deportazione nei gulag: “le memorie (dei lager) sono talmente omogenee, con qualche correzione di carattere geografico e temporale che sembrano quasi perdersi in un unico ipertesto”.

Il discorso vale per le fonti orali, diversi sono gli scritti. Tra  di essi meritano un’attenzione particolare il Diario partigiano di Ada Gobetti, Pagine dal diario di Alba de Cespedés, Dal mio diario di Sibilla Aleramo, In guerra si muore di Anna Garofalo. Tale forma di espressione era riservata per lo più alle intellettuali e antifasciste politicizzate. I pochi testi, divulgati nel dopoguerra erano giunti alla pubblicazione in base a criteri di “rilevanza e dicibilità”. Lo stesso si può dire per gli scritti posteriori: Rivoluzionaria professionale di Teresa Noce (1974) o Un nocciolo di verità di Felicita Ferrero (1978). A testimonianza del rinnovato interesse per il tema abbiamo un recente libro della giornalista inglese Caroline Moorehead, La casa in montagna. Storia di quattro partigiane, in origine The Women who liberated Italy from Fascism, edito in Italia da Bollati Boringhieri nella traduzione di Bianca Bertola e Giuliana  Oliviero. Il sottotitolo “quattro partigiane” fa riferimento a Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Silvia Pons, Frida Malan, fili portanti della narrazione. Un libro che ha il merito di far conoscere all’estero un aspetto della guerra a lungo taciuta dagli Alleati, e in Italia, di aprire nuovi sguardi narrativi e di contribuire a cambiare il modo in cui il nostro Paese ha raccontato se stesso. Allo stesso modo, ma non esente da polemiche politiche, il libro di Rossella Pace, Partigiane liberali (Rubettino, 2020).

Con un’attenta analisi di fonti private e d’archivio, l’autrice ricostruisce la partecipazione delle donne liberali alla resistenza, che si realizza nel reperimento di rifugi e di vettovaglie, in lavori di segreteria. Vengono alla luce figure come Cristina Casano che a Roma raccolse attorno a sé numerosi personaggi dell’antifascismo, Mimmina Brichetto, Maria Giulia Cardini, Marcella Ubertelli, Lelia Ricci. Molte di loro ruotano attorno all’organizzazione Franchi di Edgardo Sogno. Rossella Pace ci dice che queste donne cresciute nei salotti aristocratici scelsero di stare dalla parte della patria, senza nessun dubbio. Lo fecero per lo più con azione ascrivibili alla resistenza civile. Decisero di non prendere armi, ma di appoggiare la resistenza armata. Secondo l’autrice alla fine della guerra,  con l’emergere dei partiti di massa, le liberali finirono nel dimenticaio della Storia.

Ben vengano dunque nuovi studi e ricerche che ampliano il campo della storiografia sull’argomento. Non abbiamo bisogno di opere imbellettate, né agiografiche, né di liturgia, ma l’esigenza di ricostruire i fatti superando gli scontri del dibattito politico.