Il nome di Ada Negri non figura tra le scrittrici italiane del secolo, nelle antologie scolastiche, relegata al ruolo di minore o marginale. Un vero peccato, considerata la soave scrittura, lo spessore d’intelletto e l’originale capacità di “dipingere” un mondo femminile in trasformazione, energico e lontano dalle rappresentazioni canoniche. All’altezza del 1920 Ada Negri scrive una breve raccolta di racconti “Le sorelle, ritratti di donne”, oggi contenuta nella raccolta Prose, tra cui spicca un gioiello : La cacciatora.
“Di che colore erano gli occhi della Cacciatora? Non riesco, per quanto mi ci sforzi, a ricordarmene.
Forse, azzurri. Forse, grigi. Piccoli, certo, e vaghi: non mai risolutamente fermi su una persona o una cosa: tanto da far pensare come mai ella potesse avere, cacciando, così giusta mira. Altro, di quegli occhi, non so più; mentre invece, dopo tant’anni, ho vivissima nella memoria la figura di lei. Sembrava alta, più che non fosse in realtà: era larga di spalle e di torace, forte nei fianchi e nelle gambe, ben presa nel costume maschile di velluto a coste color verde bottiglia o marrone scuro, e sotto il cappellaccio di feltro a larghe tese. Sempre in stivaloni: il fucile ad armacollo lo portava per abitudine, anche quando non andava a caccia, ma semplicemente a passeggio per la campagna.”
Sin dall’incipit, La cacciatora emerge prepotente con la sua carica fisica: i suoi occhi, forse azzurri sono grigi, piccoli e vaghi. Sono gli occhi di una cacciatora, di una donna che indossa vestiti maschili e si fa chiamare Eddie. Il personaggio viene presentato attraverso le fattezze fisiche, come spesso accade nella prosa ottocentesca. Qui però, avviene un rovesciamento speculare del topos della donna della tradizione letteraria (gli occhi non sono azzurri ma grigi, e l’aggettivo vaghi che appartiene alla tradizione petrarchesca, delinea una personalità sfuggente e del tutto priva dell’aura angelicata della letteratura). I colori sono utilizzati per i vestiti maschili, lontani dai tradizionali colori associati agli abiti femminili. Sono anche i colori che riprendono tradizionalmente i cromatismi del bosco in funzione mimetica. La cacciatora come creatura boschiva, selvatica.
La proposizione avversativa “mentre…invece”…segna una cesura: lo sguardo non restituisce una lettura trasparente: altro rovesciamento del topos degli occhi come “specchio dell’anima”. La figura esteriore, dalla forma del corpo all’abbigliamento definisce lo status . Lo definisce ulteriormente la funzione espressiva dei nomi alterati: cappellaccio e stivalone che richiamano quasi grottescamente a un vestiario abbondante, logoro, quasi una divisa scelta appositamente per distinguersi. Più sopra, l’abbigliamento viene definito infatti “costume”
un ritratto della scrittrice “Ada Negri”
Una donna che travalica gli steccati delle convenzioni con naturalezza e impone anzitempo un modello di vita e identitario che è difficile riassumere nella formula donna-uomo che la scrittrice usa risolutamente . La cacciatora è una rivoluzione in atto che attraversa – anzi fende- la tradizione dia da un punto di vista letterario che storico: in una realtà in cui le donne erano ancora relegate in ruoli casalinghi e appartati, la Cacciatora diviene un modello assolutamente estraneo e trascinante: una sorta di ibrido maschile e femminile che partecipava e dell’una e dell’altra regione, rimanendo nella sua sfera intima una straniera assoluta, in senso camusiano. Vi erano in lei le vestigia di una remota femminilità che si riverberava nella capacità di ascoltare i racconti delle donne di Motta, paesino piemontese, con la sua empatia e vigoria assieme. Tutto ciò conferiva alla Cacciatora un’aura speciale , quasi di divinità decaduta:
suonava la chitarra con mano esperta, con sentimento forte ma un po’ rigido, volutamente compresso. A vederla seduta in un angolo, con lo sguardo assente, le gambe accavallate, la testa dai capelli recisi china verso il collo dello strumento cos’ poco adatto al costume che mascherava grossolanamente la femminile floridezza del suo corpo, destava un senso di pena, p piuttosto di curiosità turbata, malsana: anche in coloro che, come noi alla sua presenza eravamo avvezzi.
Il suo passato da donna angelicato è racchiuso in un album segreto, che mostra alle donne del paese fino allo scoperchiamento del lato di sé che aveva seppellito e che costringe le altre donne a una feroce autoanalisi: siamo vigliacche perché Eddie è scomoda, ci interroga, ci scuote nelle fondamenta, ci dice che dobbiamo capire. Della bambina dei riccioli d’oro, paffuta e rassicurante, emerge una giovane con le fattezze da amazzone che si trasforma e cavalca caparbiamente i cavalli e poi la donna risoluta con fucile da caccia in spalla, puntato contro il nemico esterno, la società giudicante e anche il pensiero maschio introiettato in quelle ragazze di paese che soffrivano per la sua deviazione ma intimamente ne ammiravano la forza. Leggere Ada Negri provoca felicità, una sensazione di pienezza, che solo le straniere assolute possono raccontare, lasciando il segno sui tempi e insegnandoci la libertà dell’essere “cuori frecce lance ridenti.”
“Mi sentivo straniera in patria, perseguitata, incompresa. Allora ho cominciato a girare per il Nord Italia, per la Svizzera, Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Hawaji, Messico. Facevo la bambinaia, l’aiuto sarta, la pellicciaia, ho saldato le corde delle navi per vivere”.
Così si raccontava nel 1975 Maria Occhipinti al giornalista Enzo Forcella, in un filmato RAI. Animatrice del movimento Non si parte, appena venticinquenne e incinta di 5 mesi, si stese a terra davanti alle ruote di un camion militare, opponendosi alla nuova leva dei giovani siciliani, chiamati a contrastare a fianco degli Alleati l’avanzata dei nazisti al Centro Nord. Per questo, sarà incarcerata e poi confinata a Ustica, schedata a vita come sovversiva. Da questo gesto il giovane regista modicano, Luca Scivoletto, è partito per girare il documentario Con quella faccia da straniera. Eppure l’esilio in lei non assume mai il sapore di un rimpianto (Nadia Terranova).
Nella sua autobiografia Una donna di Ragusa del 1957 (I edizione Landi editore, II edizione edizione Feltrinelli 1976) e in Una donna libera edito da Sellerio nel 2004, Maria racconta la sua vita. Era un’autodidatta che non aveva pratica della scrittura ma che trovò una lingua per raccontarsi. Nel suo primo libro, la giovane nata a Ragusa racconta della su “resistenza”. Mentre a Nord i Comitati di Liberazione combattevano, in Sicilia i governi militari alleatie poi quelli del “Regno del Sud”, provavano a ricostruire una nuova convivenza. La Resistenza qui è un’altra Resistenza, le lotte per il pane, le insurrezioni contro il richiamo alle armi, le lotte contadine per la terra. Maria era povera dove i poveri erano molti ed esserlo era molto di più di una privazione materiale: uno spaesamento generale dell’anima e del corpo. (Dalla nota introduttiva di Carlo Levi alla prima edizione). Nel secondo si concentra sul quotidiano, l’ordinario di una donna libera, appunto, che rivendica il diritto alla parola, alla manifestazione e alla testimonianza, in un contesto tradizionalmente avverso alle libertà femminili. Dopo essere stata espulsa dal Partito comunista dove si batteva per i diritti delle donne, perché i moti del Non si parte venivano bollati come azioni dettati da gruppi fascisti e separatisti, tornata a casa dal confino, trovò il marito che si era legato a un’altra donna. Decise allora di lasciare la sua amata Sicilia portando con sé la sua bambina. Solo gli anarchici le aprirono la porta e figure della politica e della cultura come Gianni Grasso e la giornalista e femminista Adele Cambria.
Nel centenario della sua nascita, il 5 novembre 2021, la Società delle Letterate, in collaborazione con la Casa Internazionale delle Donne di Roma, ha voluto ricordare e diffondere la memoria di Maria Occhipinti e insieme “ la ricerca di una genealogia capace di modificare l’orizzonte politico e simbolico di un Sud ancora oggi percepito come subalterno”. A guidare l’incontro a cui hanno partecipato studiose come Elvira Federici, presidente della SIL, Adriana Chemello, Serena Todesco, e le scrittrici Maria Attanasio, Maria Rosa Cutrufelli, Gisella Modica, Nadia Terranova, è stato il tema “ Il Sud delle donne”, a partire dallo sguardo di Maria Occhipinti e dal suo orizzonte simbolico e radicale, con l’intento di ridare senso e visibilità ad altre straordinarie “madri del Sud” che dal dopoguerra ad oggi hanno messo di traverso il loro corpo contro il patriarcato, e per questo travisate o rimpicciolite dalle interpretazioni maschili.
Dice sua figlia Marilena nella nota diUna donna libera a lei dedicato: “Sappiamo poco o niente di cos’era veramente la vita delle donne quando adulterio e abbaondono del tetto coniugale erano reati, e il prete e il carabiniere prolungavano fuori casa il dominio del padre, del fratello, del marito”. Di quella zona grigia dal dopoguerra agli anni Settanta del Novecento, quando la Costituzione garantiva uguali diritti a tutti, ma costumi, tradizioni, leggi, poteri quotidiani, tenevano le donne in uno stato di sottomissione. Ne sappiamo poco perché quel potere era soprattutto sequestro di parola, di testimonianza e di memoria. E Una donna libera è l’autobiografia di un’invincibile ribelle, incapacace di concepire, prima che di sopportare un ruolo subalterno e disuguale per nascista e per sesso, la soppressione del proprio diritto di parola
La sua è una presa di parola politica e personale e riempie un vuoto, tiene a sottolineare Maria Rosa Cutrufelli al Convegno del 5 novembre. Un libro non molto letto, né accolto come doveva essere, confermando il pregiudizio che pesa su di esso. Racconta di sua madre, nata povera, vissuta povera, come lei, che non aveva mai attraversato lo Stretto di Messina, e quello di Maria è prima di tutto un attraversamento simbolico. L’accompagnano i suoi compagni anarchici; il Noi è la comunità politica di cui Maria racconta la generosità e anche le tante viltà. Narra di un’autodidatta nata in un ambiente in cui alle donne “mancava persino la forza di gemere”, diceva il siciliano Borgese. La sua vita è un eterno peregrinare: si ferma solo a Roma a causa della malattia e dove morirà nel 1996 a 75 anni. Antimilitarista sempre, manifesta contro le donne militari, raccoglie firme rivolte a Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Negli anni Ottanta è a Comiso, a manifestare contro l’installazione dei missili. Aveva nel frattempo incontrato il femminismo. In Una donna libera fa riferimento a un convegno femminista del ’77 e scrive: “In quegli incontri non trovai l’ardore. Il femminismo romano di Effe è anemico”. Mentre lei prima di andare a dormire amava guardare le stelle. Il continuo tornare al suo vissuto è un tentativo di tornare al sé e di essere riconosciuta da sua figlia. (Gisella Modica)
Fu l’ex prete Pietro Angarano, divenuto suo compagno, e con cui rimase per sette anni, a spingerla a scrivere. Per Maria la scrittura diventa catarsi, vi è una perpetua ricerca del sé, un’estensione del suo corpo nella scrittura, un suo stare in presenza del mondo, un sapere del dolore degli altri, essere vicina agli ultimi, ci ricorda ancora Gisella Modica. Autrice anche di racconti –Il carrubo e altri racconti (1993) e di poesie. In tutta la sua produzione sono sempre presenti le origini e conservate ovunque andasse. La sua poesia, ricorda la scrittrice Maria Attanasio, non resta mai relegata al suo io, ma si fa respiro del mondo, dettate dall’urgenza del suo sguardo. Si fondono in essa l’io e il mondo, la bellezza e la giustizia, l’impegno motivato da una forte urgenza e il sentimento. Persino la sua disobbedienza non nasce da un’occasione ma dal sentire. “Ovunque fosse nata, sarebbe stata disobbediente”.
È da poco uscito in libreria Donne d’avanguardia, (Il Mulino2021) di Claudia Salaris, tra le più grandi esperte e studiose italiane di Futurismo, autrice di Storia del Futurismo (Editori Riuniti, 1985) e di Le Futuriste (Edizioni delle donne, Milano, 1982). In questo volume dava spazio alle letterate, alle artiste, alle polemiste, fornendo un quadro della presenza femminile in uno dei più significativi movimenti di avanguardia dei primi anni Venti del secolo scorso. Una ricerca avviata con Pablo Echaurren, suo compagno di vita, appena usciti dai “fortunali” della politica per entrare negli “anni di piombo”. Dopo l’inasprirsi del clima, in seguito al rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro, racconta Salaris, trovammo nel privato e nella collezione di libri e documenti originali del futurismo la nostra zattera di salvezza.
Prese così le mosse una ricerca puntugliosa di tracce tra bancarelle, librerie antiquarie e visite ai protagonisti e alle protagoniste ancora in vita e ai loro eredi. Il risultato è la ricostruzione di numerose figure particolarmente emblematiche e su momenti di particolare discussione in cui le donne si sono pronunciate sui ruoli sessuali, la creatività e la politica. Reclamare il diritto all’espressione e all’affermazione della propria individualità, sostiene Salaris, non è secondario rispetto a quello del suffragio femminile. Il libro ci racconta di futuriste, ma non solo di loro, si concentra su esponenti del dadaismo e del realismo magico e non si limita a nomi già noti ma include nomi finora in ombra. Molte di loro erano state incluse nei lavori di Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Mario Verdone, Glauco Viazzi, e in un’ottica di riflessione di genere nei lavori di Giovannella Desideri, Anna Nozzoli, Simone Weller. E fu soprattutto la mostra L’altra metà dell’avanguardia di Lea Vergine che permise di lanciare questo tema (Milano, Palazzo Reale, 14 febbraio-18 maggio 1980).
L’apertura di femministe e studiose come Maria Caronia, Manuela Fraire, Elisabetta Rasy, fondatrici delle Edizioni delle donnee ancora Biancamaria Frabotta, poeta e femminista che dirigeva L’orsa minore e la rivista Memoria, permise la pubblicazione dell’antologia Le futuriste. Il movimento fondato da Marinetti era ancora argomento tabù in certi ambienti della sinistra. Donne d’avanguardia riprende dunque e amplia quel primo lavoro sulle donne futuriste arricchindolo di figure di donne che per il loro stile di vita, pensiero, creatività, hanno lasciato un segno nell’arte, nella letteratura, nella mentalità e costumi dei tempi, rompendo tabù, luoghi comuni, pregiudizi e silenzio.
un ritratto di Valentine de Saint Point
E qui impossibile ricordarle tutte. Accenno solo almeno alle più conosciute, prima fra tutte Valentine De Saint-Point, la prima futurista.
Non dimentichiamo che Filippo Tommaso Marinetti aveva inserito nei punti programmatici del Manifesto edito da Le Figarò il “disprezzo per la donna”, una dichiarazione scandolosa che suscitò immediate polemiche. Corso ai ripari, l’autore dichiarò che il disprezzo riguardava l’eterno femminimo come unica fonte di ispirazione letteraria e la visione ossessiva dell’amore a cui andavano soggetti i popoli latini. Sebbene l’affermazione di Marinetti potesse sembrare più uno slogan pubblicitario che una sua reale visione della donna, all’epoca si proiettavano due immagini: quella della femmina istintiva, priva di doti intellettuali, prossima alla natura, una concezione ampiamente diffusa nella cultura influenzata dal pensiero maschile, Arthur Scophenauer, Friedrich Nietzche, Paul Julius Möbius, Otto Weinenger, che ne calcola addirittura la carenza intellettuale in percentuali, fino a Karl Kraus; dall’altro quello dell’eterno femminino codificato dal pretrarchismo al romanticismo, fino a D’Annunzio.
All’inizio del Novecento, la francese Anne Jeanne Valentine Marianne Desglous De Cassiat- Vercell, nata a Lione nel 1875, in arte Valentine De Saint- Point, a Parigi conobbe il mileu della nuova cultura, rompe i canoni tradizionali con le sue poesia e la sua produzione letteraria enunciando un modello di donna sessualmente liberata. Di lei rimane Una donna e il desiderio, in cui mette a fuoco il tema dell’erotismo femminile.
Nel 1912, mentre i pittori futuristi esponevano a Parigi, Marinetti riuscì a convertirla al suo credo. Tra i due nacque una liason amorosa e Valentine concepì il Manifesto della donna futurista. Rispose a F.T. Marinetti, introducendo l’idea di femminilità e mascolinità, qualita di cui uomini e donne sono in possesso: “ogni superuomo (…) è composto da elementi femminili e da elementi maschili, cioè un essere “completo”. Confluivano nel testo le teorie dell’androgino di Péladon. E così, nell’individuare prototipi femminili antogonisti a quella della donna borghese, Valentine recuperava le eroine del mito e della storia: le Erinni, le Amazzoni, Semiramide, Giovanna D’Arco, Giudette Carlotta Corday, Cleopatra, Messalina, le guerriere che a suo avviso combatterono più ferocemente dei maschi. Il punto essenziale della sua analisi era rivendicare la liberta sessuale per tutti: eterosessuali e omosessuali.
La difesa dell’omosessualità faceva parte di un sentire comune sia alla poeta che a Marinetti, che aveva già stigmatizzato la condanna a Oscar Wilde. Nel 1913 Valentine De Saint-Point era stata inserita da Apollinaire nel mileu dell’avanguardia internazionale con il suo manifesto L’antitradizione futurista.
Il primo nucleo di futuriste si costituì in piena guerra intorno alla rivista fiorentina L’Italia futurista (1916-1918), di cui l’animatrice è Maria Ginnanni, dove si riuniva un cenacolo di donne: Mari Carbonaro, Mina Della Pergola, Fanny Dini, Fulvia Giuliani, Magamal, Enrica Piubellini, Enif Robert, Rosa Rosà, tra le figure più significative, che si è espressa nella scrittura, nelle parole in libertà, nel disegno, nella ceramica e anche nella pittura. Di origine austriaca e nobile, il suo vero nome era Edith Von Hynau, frequentò i grandi artisti, Klimt, Beardsley, Toorop. In una crociera conobbe il giornalista italiano Ulrico Arnaldi che sposò trasferendosi a Roma. Durante la guerra, mentre gli uomini erano al fronte, Rosa Rosà scriveva: “Inutile ripetere che in questo istante milioni di donne hanno assunto- al posto di uomini – lavori che finora si credeva solo uomini potessero eseguire – riscuotendo salari che finora il lavoro onesto della donna non mai saputo ottenere”.
Alcuni suoi temi anticipano il femminismo degli anni ’70. Tra le europee ricordo l’inglese Frances Simpson Stevens, trasferitasi a Firenze con il marito nel 1907, con il quale l’unione fini nel 1913. Rimasta sola con tre figli, usci dalla depressione frequentando il caffè le Giubbe Rosse, dove si riunivano Soffici, Carrà e lo stesso Marinetti. Le sue composizioni artistiche furono apprezzate da Duchamp, Man Ray, che la fotografò più volte, mentre lei ritrassse Brancusi, Freud, Joyce, Marinetti, Papini.
un ritratto di Eva Kuhn
Impossibile in questa cartografia delle donne che hanno rappresentato l’avanguardia non parlare di Eva Kühn, moglie di Giovanni Amendola e madre di Giorgio, il futuro dirigente comunista, di Růžena Zátková, signora X futurista, di Tina Modotti. Eva, nata a Vilnius in Lituania, era poliglotta: parlava russo, inglese, francese, tedesco e italiano.
Da giovane si innamorò di Schopenhauer che per lei divenne il vero maestro. Dopo i soggiorni a Londra e a Zurigo, vinse una borsa di studio con un saggio sul filosofo statunitense Henry Thoreau, il teorico della disobbidienza civile e della resistenza non violenta. Con questa somma si trasferì a Roma dove conobbe Giovanni Amendola, di estrazione sociale modesta. I genitori di lui impedivano il matrimonio e Eva soffrì di una brutta depressione che la contrinse al manicomio di Via della Lungara dove fu ricoverata per un anno, dal 1904 al 1905. Ritornata a Vilnius, Giovanni andò a farle visita, ma poiché la madre di lei, questa volta, non lo volle vedere ritendolo causa della depressione della figlia, i due giovani raggiunsero Berlino e poi Lipsia dove entrambi frequentarono un corso di filosofia. Finalmente tornati in Italia, Giovanni aveva trovato lavoro, poterono sposarsi. Nonostante la sua intensa vita familiare e due figli, Eva entrò in contatto con l’ambiente di La Voce e Prezzolini le offrì la traduzione di Dostoevskij, mentre Papini le affidò Schopenhauer. Tra le sue frequentazioni vi era Teresa Labriola, la femminista che più tardi teorica di un femminismo nazionalista, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo per cui il marito perse la testa. Eva divenne futurista con il nome di Magamal, nome che si rifaceva alla figura di un giovane guerriero africano di cui parla Marinetti in Mafarka il futurista. Scrisse Eva la futurista che non fu mai pubblicato, nel 1916 riuscì a pubblicare Velocità composto secondo la tipografia furista ispirandosi all’idea di simultaneità tra moto interno e moto esterno di Boccioni. Ormai anziana scrisse un inedito La pazzia e la riforma del manicomio a firma Eva Amendola, dove esprime la proposta di una riforma radicale delle case di cura, ovvero l’abolozione del sistema coercitivo dei manicomi.
Růžena Zátková è invece ceca, di Praga. Sposata con il nobile russo Vasilij Chvos̄o︣inskij, diplomatico zarista a Roma, fu amica e collega di futuristi italiani, Marinetti, Balla, Boccioni, Benedetta Cappa, Prampolini, per non dire del legame che la univa agli e alle intellettuali e artisti russi del suo tempo. Giovane pittrice, morì a soli 37 anni di tubercolosi. Nella sua arte si possono notare sia opere del primitivismo e del folclore che costituisce il dato autoctono dell’avanguardia russa, dall’altra il richiamo al futurismo italiano che , a sua volta, ha esercitato un’unfluenza sul cubo-futurismo dei russi.
Infine per concludere il suo interessante lavoro, Claudia Salaris dedica pagine molte belle a Tina Modotti, nata a Udine, ma presto trasferitasi in Messico dove ebbe rapporti di amicizia intensa con Frida Khalo e Diego Rivera. Fotografa, comunista, impegnata sia a livello artistico che politico, ha lasciato un patrimonio di opere d’arte, di scritti e disegni. L’incontro che cambiò la sua vita fu quello con il pittore Raubaix de L’Abuie Richey, detto Robo, a cui dedicò il Book di Robo.
Tina Modotti
Tina Modotti
Il periodo trascorso insieme a lui a Los Angeles dal 1917 al 1922 rappresenta per la giovane il confronto con il mondo intellettuale: il poeta e archelogo Ricardo Gómez Robelo, il critico d’arte giapponese Sadahiki Hartmann e il fotografo Eduard Weston che diventò il suo amante, attraverso il quale riuscì a diventare una professionista. Insieme ad altri artisti messicani diede vita ai murales che anticipano la street art. Ma da sola, non da altri, imparò a vedere il mondo degli emarginati con una comprensione che l’avrebbe portata verso la militanza politica. Nel 1927 si iscrisse al partito comunista messicano dopo l’esecuzione dei due anarchici Sacco e Vanzetti. Fu quello il periodo d’oro dell’attività politica e creativa. Tina tocca l’apice della carriera nel 1929 con l’esposizione organizzata dall’Università nazionale che rappresenta per lei l’ultimo atto pubblico in Messico. Nel febbraio del ’30 si imbarcò su una nave da carico olandese, diretta in Europa, dove sei anni più tardi sotto il nome di Maria, insieme al suo compagno Carlo Contreras partecipò alla guerra civile spagnola. Dopo varie vicissitudini, riuscì a tornare in Messico ma non riprese più in mano la macchina fototografica; Morì a soli 46 anni, nel gennaio 1946 per un arresto cardiaco. Attorno alla sua vita romanzesca, è nato un mito, continua ad alimentare iniziative e interesse dando vita a biografie, mostre, saggi. La sua rimane una vita fuori dai canoni.
A completare il lavoro di Claudia Salaris, molte foto di repertorio sia delle artiste che dei loro lavori più significativi. Un libro da non perdere.