La pelle vede, la pelle sente. A pelle scoperta di Francesca Piovesan

 

 

Pelle Bianca come la cera
Pelle Nera come la sera
Pelle Arancione come il sole. […]

La pelle Gianni Rodari –

Quando ho letto le prime pagine dei racconti di Francesca Piovesan, A pelle scoperta, mi è venuta in mente questa poesia di Gianni Rodari. Una poesia sincera e delicata come tutte le opere di questo autore. Un’anafora, tre colori, tre sensazioni, tre rime in assonanza. Le poesie di Rodari puoi raccontarle ai bambini, agli adulti, puoi conservarle per quando il tempo sarà troppo lontano, perché riproducono i suoni della vita semplice, difficilissima da raccontare senza che tutto si sfilacci sotto il peso dell’ovvietà.

Tale è il mondo dei racconti di questa autrice, classe 1982, che pubblica da esordiente con Arkadia editore nella collana di narrativa  Sidekar.

Un esordio che cita la pelle va letto con un certo riguardo.  La pelle è il primo organo di percezione, il primo contatto col mondo. La questione di pelle attiene a un determinato ordine esperienziale, è anzitutto autentica, vibratile, immediata.  Non c’è un solo orpello nelle vite degli uomini e donne ritratti dall’autrice nei racconti: li incontri al supermercato, al bar, negli autogrill, in qualche angolo di spiaggia o rannicchiati in un angolo della casa a combattere il buio e i fantasmi.

Ogni istante narrato è un fotogramma di vita, uno scatto fotografico in cui ciò che è accaduto ha lasciato un segno sulla pelle. La sensibilità della Piovesan è paragonabile a quella di una fotografa: precisa, dettagliata ma anche consapevole che quell’atto di registrazione ha pur sempre il limite di essere un medium, un mezzo artificiale. Non c’è pertanto pretesa assoluta di oggettività, e non credo che sia questa la cifra, tanto più che gli oggetti sono parte di quel vissuto interiore di cui sembrano “correlativi oggettivi”; dal nulla prendono vita, impregnati di odori e suoni che compongono il quadro in una perfetta armonia tra soggetto osservante e oggetto percepito.

La paura del buio, nel racconto Un lungo respiro  è la metafora di una trasformazione in atto. Invece di farne un dramma psicologico, Piovesan fa in modo che il sentimento scaturisca dalle cose stesse, come sottosposte ad un’azione medianica:

[…] e poi quei rumori oramai non li sentiva quasi più, aveva imparato la lingua della sua casa, l’ascoltava e l’accoglieva: il crepitio delle persiane di plastica nelle notti d’estate, quando gli oggetti riprendono la loro forma dopo la violenza del sole, i piatti degli avanzi che vibravano in frigorifero, le zampe dei pipistrelli che attraversavano le grondaie.

Altrove la forza della scrittura della Piovesan consiste nell’ essere estremamente sensuale, nel  possedere il ritmo agile delle pennellate a tocchi, di impressione:

Non aveva mentito su nulla, non aveva tralasciato nulla, nemmeno il peso del corpo di sua madre che riempiva e tendeva la tela, il vestito a fiori piccoli blu che saliva lungo le cosce, i rilessi bianchi nei capelli scuri. Aveva dipinto il verde forte e scuro dell’edera che si intrecciava al reticolato che aveva costruito suo padre due anni prima e aveva dipinto la donna di suo padre, sua madre, nella maniera più erotica e vera possibile

In questo passaggio il dato cromatico si assesta sulle frequenze emotive anzi le anticipa. In altri casi abbiamo una vera e propria sinestesia, con una partecipazione panica all’azione, dove ogni particolare, (il pixel) pur mantenendosi come tocco a sé stante, si completa nel quadro di insieme:

Yalki e Yari aspettavano sdraiati appena oltre la porta del negozio, probabilmente distinguevano le ore annusando il sole, leccando il pavimento a granelli rossi e neri o guardando i movimenti di Serena, il braccio che si alzava per mostrare una sottoveste, i capelli che venivano raccolti in uno chignon basso e scomposto, le ciocche che le scivolavano lungo il collo umido

In altri ancora, è un colore intriso nel corpo e nella pelle a raccontare la storia intima, fatta di chiaroscuri:

Bai era il figlio cinese dei proprietari cinesi nato in Italia ma dal nome cinese. Davide un giorno gli aveva chiesto: «Cosa significa Bai?» «Di bianco purissimo», aveva risposto il ragazzo, «è un nome unisex lo puoi usare per i maschi e per le femmine, io non me lo sento addosso tutto questo bianco purissimo poi con questi capelli come il petrolio.

 

 

Sold out di Serena Corrao

 

La visione delle cose del mondo di Piovesan è quella del kairos, dell’istante irripetibile, per come lo concepivano i greci, più che delle abusate “piccole cose” – che hanno sempre un retrogusto di scolorimento emotivo, del tutto distante dal tripudio cromatico della scrittrice – . Il mondo interiore dei suoi personaggi è privo di elucubrazioni, logorio mentale; lo stile è lontano da quella smania analitica che pervade gran parte della narrativa e che rovina il dettaglio per svilirsi nel virtuosismo della trama, magari impeccabile, ma fredda. Qui non c’è il plot studiato a tavolino, con la squadretta, non c’è ricerca di grandezza, di dramma.  Nell’accordo col mondo, mi ricorda lo stile di certe autrici come  Grace Pealey: la letteratura che parla attraverso la parola dell’altro, senza intaccare e intervenire.

Complessivamente lo stile attinge dall’immaginario americano, asciutto e colorato assieme: la sensibilità cromatica di di Georgia O’keefe, con i suoi fiori evocativi ma non descrittivi, certe solitudini alla Hopper e degli scorci carveriani che fanno capolino in luoghi eccentrici come ad esempio  la provincia di Verona nel racconto Svitlo: Irina, banconista russa  di un bar che è sempre quello dozzinale e sempre uguale di certi bar di periferia, sbuca col suo caschetto biondo, fiaccata dalla vita, dai suoi guai, dal suo mal di schiena e i suoi strani lumpi di luce negli occhi. O la crisi coniugale di Armando e Simona, intagliata tra le pieghe di un nuovo brivido che preannuncia un futuro che a noi lettori spetta immaginare. Tamara, precaria, che approda in un’isola che è sempre metafora di speranza.

Un insieme eterogeneo di bozzetti, piccoli quadri intimisti senza picchi di dramma, di eccessi, di concitazione, perché la pelle ha i suoi tempi, la pelle non è cuore né cervello. Ma allo stesso tempo la pelle non può sottrarsi a nulla, accoglie, respinge, subisce “ai limiti della sopportazione”.  Un recupero siffatto del corporale nella narrativa è apprezzabile perché è attento al dettaglio, al posizionamento come soggetto,  alla dimensione del corpo come luogo di incrocio tra il soggetto e il mondo, un aspetto spesso trascurato o trattato come secondario.

Una scelta stilistica che mi ricorda una tradizione trascurata e che mi piacerebbe ricordare e riportare in auge, come quella di Renata Viganò, indimenticabile scrittrice della Resistenza, memorabile per sua capacità polisensoriale di restituire la realtà, talvolta tragica,  in colori paesaggi sensazioni sguardi colori.

Nei racconti in cui emerge questo senso del reale delicato e profondo, e che sono la stragrande maggioranza della raccolta, mi pare che si scorgano le migliori caratteristiche di questa scrittrice esordiente che ha tutte le carte in regola per essere la nuova e interessante voce femminile italiana nel genere del racconto.

 

 

Francesca Piovesan nasce in un primo luglio troppo caldo per tutti nel 1982. Vive in provincia di Venezia, a pochi chilometri dal mare. Ha pubblicato racconti su Cadillac e Ammatula. A pelle scoperta, edito da Arkadia, è il suo esordio letterario.

 

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